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15.11.2022 # 6180
Luigi Cipriano osservatore di tracce urbane espone ventinove fotografie

Luigi Cipriano osservatore di tracce urbane espone ventinove fotografie

Immagini scattate con smartphone, un diario urbano postpandemico che racconta un probabile mondo giovanile fatto di disagi e amori

di Marco Maraviglia

«Non so cosa scrivere». Sembra la sintesi del dramma di uno scrittore in crisi creativa, quello di trascorrere giorni e giorni col foglio bianco avanti, senza riuscire ad andare avanti col proprio romanzo. Intanto qualcuno, che probabilmente non era uno scrittore, lo ha scritto su un muro: non so cosa scrivere. L‘ossimoro di aver scritto qualcosa pur non avendo nulla da raccontare.

È una delle tracce immortalate da Luigi Cipriano, lungo i suoi percorsi tra i luoghi dell‘avellinese, beneventano e Napoli. Scrivere, ma non solo a prescindere perché “scrivo dunque sono”, ma perché si ha qualcosa da dire. Perché c‘è chi ha bisogno di lasciare una traccia di sé. O perlomeno di un suo pensiero. Anche se consapevole di restare inascoltato. Una data, una breve poesia. Un monito.

Muri, paline dei segnali, sassi di una scogliera, tronchi d‘albero, banchi di scuola, panchine, portoni e quant‘altro diventano pagine di diario. Frammentato. “Pagine” che, se si volessero trascrivere tutte in un libro cartaceo alcune potrebbero avere un fil rouge che riconduce ai temi principali di una società fatta di invisibili. Di arrabbiati contro un sistema in cui non si riconoscono. Di innamorati di amori non sempre corrisposti. Di un mondo parallelo, vandalistico per certi aspetti, che vuole affermare una propria identità.

 

Le tracce di Luigi Cipriano sono spesso segni di un disagio giovanile. Molte delle sue foto sono state prese durante il periodo post-pandemico e la sua riflessione si è soffermata sullo stato psicologico di quei ragazzi che hanno perso due anni della loro vita tra lockdown, didattica a distanza, divieti e stop and go.

È vero, il graffitismo c‘è stato anche prima del 2020 ma alcune di quelle tracce immortalate da Cipriano, riconducono inevitabilmente a quel periodo buio della nostra vita che un adulto riesce a superare forse meglio di una gioventù che appena iniziava ad affacciarsi nel mondo. Un mondo per loro divenuto improvvisamente distopico e senza la maturità di poterlo affrontare scavalcandone i danni psico-fisici.

Due ragazze sedute a distanza “di sicurezza” sul muretto del lungomare di Napoli, su quel muro c‘è una data: 2 maggio 2020. Fino a quel giorno, c‘erano ancora forti restrizioni anti-covid. In quella data scritta a spray si avverte il disagio, la sofferenza di chi l‘ha scritta. Per non dimenticare.

Scritte, segni, poesie, che deturpano il paesaggio, su portoni, alberi, monumenti. Un mondo minimalista di un universo psicologico che si mostra.

 

Luigi Cipriano inizia un po‘ per gioco a fotografare queste tracce con uno smartphone e poi man mano si ritrova con un progetto aperto. Da poter estendere all‘infinito. Perché ovunque vi sono tracce che occupano le superfici urbane.

E lo fa con un‘osservazione lenta: slow watching. Quando camminiamo, normalmente guardiamo ma senza osservare. Distratti dai nostri pensieri, dalla meta da raggiungere, da una conversazione con un amico, senza soffermarci su ciò che attraversiamo. Abbiamo la percezione dei volumi presenti intorno a noi ma spesso non alziamo la testa per notare balconi pittoreschi. Vale anche per le visite nei musei: il pubblico non si sofferma sempre sui dettagli di un dipinto magari anche solo per capire dal tratto del pennello se l‘artista poteva essere mancino o per scovare il cosiddetto “intruso”, il gattino presente tra i piedi di un commensale di una scena.

Luigi Cipriano osserva. Anzi, legge quelle tracce. Cercando di immaginare il filone antropologico che possa esserci dietro quelle presenze. Diventa raccoglitore di pensieri, di “messaggi in bottiglia” talvolta con destinatari consapevoli.

Esistenze deturpanti ma paradossalmente silenziose e inosservate, che a volte arricchiscono l‘immaginario del suo lettore che diventa cacciatore di storie. Tracce come urla nel silenzio.

 

Chi è Luigi Cipriano

Luigi Cipriano nasce a Guardia Lombardi (AV) nel 1968, si laurea nel 1993 in Economia e Commercio con tesi di Laurea in Geografia Urbana ed Organizzazione Territoriale presso l‘università Federico II di Napoli, vive e lavora ad Avellino.
Si appassiona alla fotografia già all‘età di 16 anni, quando gli viene regalata la prima reflex (una Olympus OM10) e, successivamente, inizia a viaggiare.
La fotografia diventa il suo hobby preferito, installa in casa una piccola camera oscura dedicandosi alla stampa in bianco e nero, nel suo percorso di foto-amatore predilige, come genere fotografico: la fotografia di paesaggio, la fotografia di osservazione nei luoghi, l‘esplorazione urbana e la street photography.
Anche se ha intrapreso lo studio della fotografia da autodidatta, ha approfondito le sue conoscenze seguendo diversi seminari e workshop.

Le sue fotografie sono state pubblicate da due enti accreditati che fanno capo al Progetto del Ministero dei beni culturali e del turismo fotografia.italia.it

 

Le fotografie

Ventinove fotografie formato 30x40 realizzate con smartphone e post-prodotte con l‘App Snapseed.

Stampe realizzate con Canon PIXMA PRO-10S con inchiostri Lucia rifinite con inchiostro trasparente Chroma Optimizer.

Carta Hahnemuhle William Turner 190 Gr.

 

 

 

Tracce (2015-2022)

Di Luigi Cipriano

Rassegna Foto Art in Garage a cura di Gianni Biccari

Dal 12 novembre al 2 dicembre 2022

dal lunedì al venerdì dalle 16:30 alle 20:00
Mattino, Sabato e Domenica su Appuntamento

Art Garage

Viale Bognar, 21 Pozzuoli – Napoli


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08.03.2023 # 6220
Luigi Cipriano osservatore di tracce urbane espone ventinove fotografie

Roberto Lavini espone 13 fotografie stampate al Carbone al Museo della Fotografia di Brescia

Fotografia duratura, tattile, uno dei processi fotografici dell‘800 mostrati da vicino

di Marco Maraviglia

È solo polvere elettronica quella che conservi. Non le vedi se non accendendo un dispositivo elettronico di visualizzazione e attivando un software. Se non c‘è corrente elettrica, restano invisibili. Qualcuno direbbe che se non si possono toccare, non esistono. Qualcun altro dice che scompaiono quando meno te l‘aspetti da un hard disk o da un dischetto. Sono le foto digitali. Facili da fare, belle da vedere ma indipendenti. Figlie che non ti appartengono se non le stampi per tenerle con te. Inserendole in un album cartaceo o per metterle in cornice appendendole a una parete. O per farne un libro. Stampato su carta!

 

Roberto Lavini, classe 1956, originario di Salerno ma che vive in un piccolo borgo a Civitella in Val di Chiana provincia di Arezzo, è cresciuto nell‘era analogica della fotografia. Pur lavorando nella fotografia commerciale e per privati, fin da ragazzo è a contatto con la camera oscura, ingranditore, bacinelle, luce rossa e chimici. Un‘esperienza che non ha mai interrotto perché gli sembrava «la strada migliore per percorrere un approccio consapevole allo studio della fotografia». Si concentra negli ultimi anni sullo sviluppo di suoi progetti creativi, condividendo le sue ricerche attraverso articoli per riviste di settore, dimostrazioni pratiche e offre servizi di consulenza per la stampa con i procedimenti alternativi a fotografi artisti.

 

Si laurea al DAMS di Bologna dove, studiando storia della fotografia, si appassiona alle antiche tecniche dei processi fotografici.

 

Quegli studi furono per me una vera fonte di ispirazione perché sentivo l‘esigenza di un maggiore coinvolgimento nel processo creativo, di “connettermi sensorialmente” con i lavori che stavo eseguendo; in pratica volevo immergermi nella sperimentazione con lo stesso fervore delle generazioni di fotografi che mi avevano preceduto. Oggi i materiali sono diversi rispetto a quelli che usavano i fotografi dell‘800, quindi ho dovuto provare a percorrere nuove strade, non ultima quella del digitale per la produzione di negativi di grande formato per la stampa a contatto.

 

Negli anni Roberto Lavini ha dovuto studiare nuovi materiali e chimici per emulare i processi fotografici dell‘800 perché nel frattempo non più disponibili anche per questioni ecologiche.

 

Dal 2017 la Comunità Europea ha vietato utilizzo dei bicromati perciò numerosi sono stati i tentativi per sostituirli con altre sostanze più sostenibili per l‘ambiente.

Il sensibilizzante Das (della famiglia dei Diazido) risponde a questa esigenza in quanto non è nocivo per l‘uomo e per l‘ambiente e in più ha un‘azione indurente sui colloidi migliore dei bicromati. Questa sostanza, con semplici modifiche al processo, ci consente di eseguire ancora ottime stampe al carbone.

 

Riguardo la produzione di negativi di grande formato per la stampa a contatto, Roberto Lavini ha percorso la strada del digitale. In un‘era ancora ibrida in cui convivono e-book e libri in carta, banconote e carta di credito, pennelli e tavoletta grafica, se la tecnologia digitale può essere di supporto per ottenere un risultato visivo finale, tattile e di qualità nel dettaglio, ben venga.

Il processo al carbone è noto per la stabilità delle stampe, in termini di durata nel tempo e per l‘ampia gamma tonale che restituisce. «Nel mondo dell‘arte e del collezionismo fotografico, le stampe al carbone sono considerate tra le più preziose». Si presentano come se fossero a rilievo, specie nelle zone dei neri, vien voglia di toccarle, carezzarle con le dita.

 

Roberto Lavini espone 13 stampe al Carbone (a colori e monocromatiche). I formati vanno dal 24x30 cm al 40x50 cm.

Senza cornici e senza passepartout. Esposte orizzontalmente all‘interno di vetrinette.

Insomma, una chicca per gli appassionati della fotografia vintage.

 

 

 

I Colori Del Carbone

a cura di Gabriele Chiesa

dall‘11 marzo all‘8 aprile 2023 (inaugurazione mostra Sabato 11 Marzo ore 17:00)

Museo Nazionale della Fotografia di Brescia

Contrada del Carmine, 2F

ingresso libero

orari:

Lunedì e Venerdì chiuso.

Martedì, Mercoledì e Giovedì ore 9:00 - 12:00

Sabato, Domenica e festivi ore 16:00 - 18:45

Info:

www.museobrescia.net Tel. 030 49137

 

 

Il 12 marzo, presso lo stesso museo, avrà luogo un workshop condotto da Roberto Lavini:

 

LA STAMPA AL CARBONE SENZA CROMO

 

·       Premessa. Ai partecipanti si richiede di realizzare ed inviare a infocorsi@cameracreativa.it entro mercoledì 1 marzo, un autoritratto (foto digitale, anche smartphone). Il file servirà per produrre la matrice 7x10,5 cm (rapporto tra i lati 1,5) che verrà impiegata per stampare, durante il workshop, un segnalibro fotografico personalizzato in bicromia al carbone. A conclusione del workshop ciascuno dei partecipanti riceverà il proprio.

·       Mattina: storia e panoramica del processo. Evoluzione e le principali innovazioni. L‘uso del DAS al posto dei bicromati. La scelta dei pigmenti, ricette e taratura degli ingredienti. Preparazione della carta carbone (tissue): mescola degli ingredienti e stesa della soluzione di gelatina.

·       Pomeriggio: esecuzione di una Stampa al Carbone BN su due strati di gelatina pigmentata. Messa a registro della Carta Carbone sulla Carta da Trasporto e Sviluppo.


"Prometeo" - stampa al carbone © Roberto Lavini


In copertina: "Magic bus" - stampa al carbone © Roberto Lavini

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03.03.2023 # 6218
Luigi Cipriano osservatore di tracce urbane espone ventinove fotografie

Eve Arnold: L‘opera. Una grande mostra al Camera di Torino fino al 4 giugno

Conosciuta più per le fotografie scattate a Marilyn Monroe, la fotografa della scuderia Magnum determinò uno stile tecnico ed estetico indagando fenomeni della società americana e internazionale

di Marco Maraviglia

«È stata la prima donna a entrare in Magnum» così scrivono. Come dire «è stato il primo extraterrestre a…». Una donna è una persona. Una donna che fotografa è una fotografa e credo che non conti oggi precisare il genere di chi produce immagini. Del resto stesso lei non sopportava la dizione che le attribuivano come “fotografa donna”. Eh, ma ai tempi della Magnum era altra cosa. Era il 1951 quando H. Cartier Bresson, pioniere della fotografia umanista e fondatore della Magnum, la notò e la coinvolse come freelance nella più grande agenzia fotografica del mondo per poi renderla socia nel 1957. La prima associata donna della Magnum. Ecco, ci sono cascato anch‘io, ho precisato “donna”. Era più difficile di oggi, per una donna, avere una giusta collocazione per meriti. Come Mary Jackson, la prima ingegnera di colore della NASA (1958) la cui storia è raccontata nel film Il diritto di contare.

Il merito di Eve Arnold non era essere donna ma il suo modo di osservare all‘interno del mondo. Uno sguardo che evidentemente colpì Bresson quando gli capitò di vedere i suoi scatti fatti ad Harlem in occasione delle sfilate di moda di modelle e stilisti di colore, totalmente ignorate dal fashion-mainstream statunitense, o quelli realizzati durante le manifestazioni dei Black Muslims e di Malcom X che acconsentì di farsi seguire a distanza ravvicinata durante i più importanti raduni.

Una bella botta per l‘epoca: “donna bianca fotografa neri!”. Una roba che i giornali americani non pubblicavano. E infatti quegli scatti furono stampati dal Picture Post di Londra nel 1951 e da altre riviste europee.

 

Le persone attraversano momenti della vita che, nel bene o nel male, segnano il proprio campo emotivo. Episodi che formano la persona ampliando via via il proprio background esperienziale. Tutti input che, per chi svolge lavori creativi, si riflettono sul proprio operato.

Eve Arnold, nata nel 1912 a Philadelphia da genitori russi immigrati con madre ebrea, ha vissuto una vita con grandi ristrettezze economiche. A 31 anni decide di interrompere gli studi universitari per lavorare in uno stabilimento di sviluppo e stampa di fotografia.

 

Chi ha vissuto una vita fatta di stenti, una vita in cui magari pensi che fine avrebbero fatto i tuoi genitori se avessero vissuto in Europa durante il periodo nazista, le corde dell‘anima sono toccate nel profondo. Realizzi che il mondo non è facile per tutti abitarlo e costruisci in te una certa dose di umiltà ed empatia. Eve Arnold era sensibile alla discriminazione razziale. Osservava le persone e non il loro status sociale o politico. Ascoltava le persone con gli occhi.

 

Non vedo nessuno come ordinario o straordinario.

Li guardo semplicemente come persone davanti al mio obiettivo.

 

Quando Adrian Lyne girò 9 Settimane e ½ (1986), ci fu un certo scalpore non solo per la storia ad alto impatto erotico per l‘epoca ma per il fatto che molte scene del film fossero state girate con luce ambiente. Non si era inventato nulla in realtà. Barry Lyndon (1975) di Kubrick fu interamente realizzato a luce ambiente, interni compresi. A lume di candela.

Ma già anni prima Eve Arnold fece della luce ambiente uno dei suoi cavali di battaglia. Probabilmente, forte di quell‘esperienza nei laboratori fotografici della Stanbi, una delle caratteristiche del lavoro di Eve era trascorrere molte ore in camera oscura per trattare le sue fotografie, tutte scattate senza flash. Restituendo atmosfere intense e naturali, riprese anche in condizioni di luce critica.


Marilyn Monroe in the Nevada desert during the filming of “The Misfits. USA, 1960

© Eve Arnold / Magnum Photos


Ha fatto fotogiornalismo d‘inchiesta, ha affrontato il razzismo negli Stati Uniti, ha seguito l‘emancipazione femminile, un progetto sull‘uso del velo in Medio Oriente, l‘interazione fra le differenti culture del mondo, fotografa nei reparti di maternità degli ospedali di tutto il mondo, soggetto a cui ritorna costantemente per esorcizzare il dolore subito con la perdita di un figlio avvenuta nel 1959.

Ma purtroppo è nota principalmente per le sue foto realizzate alle star del cinema: da Marlene Dietrich a Marilyn Monroe, da Joan Crawford a Orson Welles.

Una Marlene Dietrich fotografata in backstage durante la registrazione di alcune delle canzoni care alle truppe alleate. Incallita fumatrice, espressioni insolite e ironiche mai viste nei film che interpretava, Eve Arnold riuscì a tirare fuori un servizio fotografico che le aprì le porte per fotografare altre star.

«Se sei riuscita a fotografare in maniera così intima e naturale Marlene Dietrich, dovresti saper fotografare anche me» disse più o meno Marilyn Monroe a Eve quando la incrociò a una festa in un locale nel 1954. E divennero amiche per sempre. E infatti conosciamo Eve Arnold per le splendide fotografie scattate a Marilyn in vari momenti anche della sua vita intima o in quelle fuori scena fatte sul set di The Misftis che nel mentre ebbe una terribile premonizione: «Il mio ricordo più toccante di Marilyn è di quanto apparisse angosciata, turbata e ancora radiosa quando sono arrivato in Nevada».

 

Sono stata povera e ho voluto documentare la povertà; Avevo perso un figlio ed ero ossessionata dalla nascita; Mi interessava la politica e volevo sapere come influiva sulle nostre vite; Sono una donna e volevo sapere delle donne.

 

Copertina: Bar girl in a brothel in the red light district, Havana, Cuba, 1954© Eve Arnold / Magnum Photos


Accessibilità della mostra:

 

·       Un percorso tattile, che consente ai visitatori interessati, in particolare per le persone con disabilità visiva, di fare un‘esperienza tattile in piena autonomia con una selezione di sette pannelli visivo tattili posizionati in corrispondenza delle fotografie esposte. Ogni disegno a rilievo è corredato dalla relativa audio-video descrizione, attivabile tramite QR code o NFC (Near Field Communication);

·       La trasposizione audio dei testi di sala, attraverso l‘apposito QR code, che offre una descrizione sintetica delle tematiche esposte in ogni sezione della mostra;

·       Un video introduttivo sulla vita e il lavoro di Eve Arnold in Lingua dei Segni Italiana, accessibile mediante QR code o su tablet. L‘interprete del video è l‘artista Nicola Della Maggiora.

·       Inoltre, le opere esposte sono posizionate a un‘altezza media inferiore rispetto al passato cercando un compromesso fra i differenti punti di osservazione dei visitatori. Mentre si è scelto di evitare espositori con piani orizzontali per consentire una fruizione ottimale di tutti i materiali esposti anche alle persone su sedia a ruote e ai bambini.

 

 

Eve Arnold

L‘opera, 1950-1980

Dal 25 febbraio al 4 giugno 2023

Aperta tutti i giorni

CAMERA - Centro Italiano per la Fotografia

Via delle Rosine 18, 10123 - Torino www.camera.to | camera@camera.to

Orari di apertura (Ultimo ingresso, 30 minuti prima della chiusura)

Lunedì 11.00 - 19.00

Martedì 11.00 - 19.00

Mercoledì 11.00 - 19.00

Giovedì 11.00 - 21.00

Venerdì 11.00 - 19.00

Sabato 11.00 - 19.00

Domenica 11.00 - 19.00

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23.02.2023 # 6217
Luigi Cipriano osservatore di tracce urbane espone ventinove fotografie

Rossella Mutone espone “in Fede”, 29 fotografie bianconero all‘Art Garage

Tra sacro e profano, la religiosità di Napoli espressa attraverso una ricerca visiva dell‘autrice

di Marco Maraviglia

Napoli è la città italiana con più chiese dopo Roma. È detta “la città delle mille chiese”.

Chiese medievali, rinascimentali, barocche, chiese sconsacrate, chiese chiuse, interi monasteri destinati ad attività ludico/sociali, c‘è persino la copia della Basilica di San Pietro del Vaticano… Ma quanta religiosità c‘è qui?

 

C‘è traccia di religiosità a Napoli visibile in ogni angolo del centro storico. Edicole sacre, piccole o grandi statue di Padre Pio innanzi ai bassi. San Gennaro è dipinto sui muri in tutte le salse: di fianco a Caravaggio, con la mascherina, in versione Superman o in versione da guerriero di Jorit.

Fedele, laica, prosaica, profana, superstiziosa, passionale, festaiola, la religiosità napoletana è una filosofia a sé. Perché contaminata da credenze popolari, danze e riti mistici.

Anche chi non è un cristiano praticante, o forse nemmeno credente, si infila nel portone della Chiesa del Gesù Nuovo per lasciare un obolo e farsi il segno della croce davanti la tomba di Giuseppe Moscati. Il medico Santo.

Chi non va a messa, chi non si confessa, non si perde comunque la liquefazione del sangue di San Gennaro. Perché a volte non si tratta di essere fedeli ma di far parte di quel sottile fil rouge che unisce sotto lo stesso cielo i più superstiziosi. Se il sangue non si scioglie, il napoletano come minimo tocca scaramanticamente la punta del “corniciello” che ha probabilmente in tasca.

E poi le capuzzelle di Napoli. I teschi della chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco o quelli del Cimitero delle Fontanelle alla Sanità. Da adottare, omaggiare con una monetina, un rosario o l‘icona di un santino. Tra grazia ricevuta, desideri di vincite al lotto e di buona salute.

 

È in questo contesto che Rossella Mutone indaga la religiosità di Napoli fotografando in solitudine e con discrezione attimi di intimità.

 

Ho cominciato a notare che le chiese con le loro luci e le loro ombre, i volti dei fedeli assorti a pregare non durante una messa ma in situazioni intime attiravano la mia attenzione. Sarà che amo entrare nei luoghi di culto quando non c‘è quasi nessuno perché mi sembra di sentire maggiormente la presenza e la vicinanza ad un‘entità superiore, sono cristiana ma non praticante alla ricerca di risposte.

 

È un lavoro di ricerca visiva iniziato nel 2018, interrotto causa pandemia e poi ripreso.

Immagini che rappresentano devozione per i santi, idolatria per simboli religiosi, una città che venera Maradona come un Dio, o adotta una capuzzella coltivando un amore mistico per l‘anima di uno sconosciuto.

E Rossella sviluppa questa ricerca su più percorsi le cui sezioni restituiscono l‘insieme: Riflessioni, Devozione, Simboli ed esoterismo, Idoli e credenze.

 

Fotografie con riflessi che fondono i confini del quotidiano con quelli religiosi in atmosfere che si sospendono in un tempo mentale senza tempo.

Devozione, dettagli, campi lunghi, presenze di luci divine. Persone che pregano. C‘è chi in raccoglimento religioso quasi sembra che si sia appisolato nel silenzio di una chiesa.

Ecco: silenzio. Il silenzio è l‘anima portante di queste fotografie. Dove già lo stesso silenzio che ci arriva osservandole, è qualcosa di mistico ed esoterico.

Non sono fotografie prese durante le messe. Sono talvolta scatti rubati. Un reportage sommesso tra esterni e interni.

Perché la religiosità non è posseduta dai confini di una chiesa. La si percepisce anche nelle strade. Tra edicole votive e altarini e murales per venerare Maradona.

Tra sacro e profano.

 

 

 

in Fede | Napoli ricerca fotografica di Rossella Mutone

Art Garage

Viale Bognar 21 Pozzuoli

Inaugurazione Sabato 4 marzo ore 18

Ingresso Libero.

Fino al 17 marzo 2023

Lun > Ven 16,30-20.00 Sabato e Domenica su appuntamento.

Nell‘ambito di FOTOARTinGARAGE VI edizione rassegna di fotografia coordinata da Gianni Biccari.

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14.02.2023 # 6212
Luigi Cipriano osservatore di tracce urbane espone ventinove fotografie

Valeria Sacchetti: “Journey to the lowlands, Fra la via Emilia e il West”

Un libro foto-narrante che documenta la vita quotidiana della bassa padana dopo il terremoto del 2012

di Marco Maraviglia

Journey to the lowlands, Fra la via Emilia e il West è l‘ultimo libro di Valeria Sacchetti, fotografa che, dall‘inizio del suo interesse per la fotografia, indaga sugli aspetti sociali della gente determinati da eventi politici e naturali.

 

Valeria, nativa di Modena e trasferitasi a Carpi, si avvicinò alla fotografia consultando libri di grandi fotografi nelle biblioteche. E comprese che il mondo andava visto da vicino, non solo attraverso i libri.

Frequentò il suo primo corso di fotografia a Bologna dove imparò anche le tecniche di camera oscura.

 

Il viaggio è una cosa seria e non serve per raccontare com‘era buono il kebab che potevi mangiare in qualsiasi città del mondo. Valeria Sacchetti, nata negli anni ‘70, laureata in storia e insegnante di lettere, ha sempre viaggiato per approfondire l‘inglese e per realizzare servizi fotografici che raccontassero storie vere, a volte misconosciute ai più. Almeno non così dentro come invece raccontano le sue immagini. (Ri)costruendo una memoria destinata a volte a dissolversi nel tempo.

 

Storie che per lei nascono da relazioni, come quando nel 2000 partì per il Cile ed entrò in contatto con una ONG fondata da donne uscite dal carcere dopo la dittatura di Pinochet. Donne che aiutavano donne. Che intraprendevano un lavoro di sindacalizzazione e sensibilizzazione per far prendere coscienza dei propri diritti sul lavoro. Per tutte le lavoratrici: dalle donne che lavoravano in casa, a chi aveva piccole botteghe e quelle che lavoravano nei campi, a rischio per i pesticidi che nel frattempo erano già stati proibiti in altri paesi.

 

Ed è in Cile che realizza il suo primo lavoro, un reportage sugli indiani mapuche.

Ma Valeria Sacchetti ha un‘indole nomade. Le piace spostarsi, viaggiare. Per studio e per lavoro. La fotografia è per lei lo strumento che le consente di conoscere storie, documentarle e raccontarle. Vive lunghi periodi anche in Irlanda, a Napoli, Roma, a Bordeaux per l‘Erasmus, in Messico, Iraq.

Va tre volte in Bosnia dove partecipa e documenta la Marcia della morte di Srebrenica.

A Belgrado realizzò un servizio su un orfanatrofio che era in uno stato pietoso. I bambini non avevano nemmeno le lenzuola, le inservienti si sentivano giustificate dal loro esiguo guadagno prendendo parte degli aiuti che arrivavano in orfanatrofio. Fu un servizio che acquistò la Caritas e la cifra guadagnata le servì per andare a Parigi e frequentare un corso di fotografia di 6 mesi presso la Spéos. Ma a Parigi ci restò per un anno dove lavorò nella compagnia telefonica mentre aspettava la borsa di studio per andare in Messico. Altro viaggio, altre storie fotografiche narranti.

 

Tornata in Italia fece un lavoro, durato cinque anni, sul movimento partigiano di Modena e provincia. Andò a scovare partigiani ancora viventi ritraendoli e facendosi raccontare i loro ricordi. Scattò loro dei ritratti nei luoghi degli episodi raccontati dagli stessi soggetti. E nacque nel 2016 il libro Generazione resistente.


Valeria Sacchetti ha sempre lavorato principalmente con pellicola bianconero e dal 2010, passando al digitale, si è trovata altrettanto a suo agio. Durante un master nel 2017 a Roma entrò n contatto con il fotografo Giancarlo Ceraudo che le consigliò di portare le sue foto a colori in bianconero comprendendo che le foto di Valeria avevano più energia senza colore.

Adesso c‘è questo suo ultimo libro, Journey to the lowlands, Fra la via Emilia e il West che traccia un percorso foto-narrante, come nel suo stile, “coast to coast” della via Emilia. L‘antica strada romana che va da Piacenza a Rimini tagliando trasversalmente in due L‘Emilia Romagna, per intenderci.

Un lavoro durato sette anni. Realizzato in zone percorse da Valeria Sacchetti fin dalla sua infanzia, lì dove sono le sue radici. Una terra dove non c‘è solo mortadella, piadina e tortellini ma che fin dall‘antica Roma è abitata da gente con il culto del lavoro e dei rapporti umani vissuti in maniera gentile, gioviale, condivisa e con umiltà.

Perché capitò che nel maggio 2012 in Pianura Padana ci fu un terremoto che in tanti hanno dimenticato. Furono colpite zone rurali, fattorie, stalle e casali distrutti e la vita di molte persone dedite all‘agricoltura, agli allevamenti e persino industrie, subì danni non indifferenti.

L‘Emilia la rossa, un po‘ contadina, luoghi di campagna. Dove non esistono più le grandi famiglie allargate. L‘Emilia usurpata negli anni anche sotto l‘aspetto industriale e ambientale, subì anche questo affronto di Madre Natura. E Valeria iniziò il suo viaggio narrante, fra “la via Emilia e il West” con fotocamera al seguito.

 

Mi interessava mostrare anche i giovani che sono tornati in campagna. Famiglie che sono anche ibride con immigrazioni dal Sud. Il mio è più un viaggio onirico legato molto ai miei stati d‘animo.

 

Durante la lavorazione, Valeria Sacchetti ha ampliato la visione del suo progetto abbracciando anche tutta “la bassa”, una zona di pianura particolare posta sotto il livello del mare, attraversata da fiumi che tracimano durante il periodo invernale con estati afose e molto umide. Un luogo che le ha sempre ispirato le atmosfere western dei film con cieli sterminati e chilometri di terra piatta.

Il sottotitolo del libro è un tributo a Guccini, originario di queste zone, che ha pubblicato anche un album nel 1984 intitolato appunto: “Fra la Via Emilia e il West”.

Lavorato in varie stagioni dell‘anno. Ha iniziato ritraendo persone che già conosceva e poi allargando la narrazione a quelle incontrate durante le sue esplorazioni creando una trama unica‘ con dieci storie di vita quotidiana di alcune delle persone ritratte.

 

Realizzato grazie a un crowdfunding con Crowdbooks, 46 fotografie tra ritratti e foto attinenti ai paesaggi delle location trattate, 112 pagine al formato verticale 20,5x27 cm, stampa in bianco e nero in  bicromia, copertina rigida.

Disponibile nelle migliori librerie di catena e/o indipendenti oppure sul sito dell‘editore all‘indirizzo: cwbks.co/journey



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08.02.2023 # 6207
Luigi Cipriano osservatore di tracce urbane espone ventinove fotografie

Gli Enigmi di Lino Rusciano in mostra

Inaugurazione sabato 11 febbraio al FotoArt in Garage di Pozzuoli. Le foto tra Metafisica e Surrealismo.

di Marco Maraviglia

Il comunicato stampa di questa mostra di Lino Rusciano che mi è arrivato, è di sole quattro righe. Ma che nella loro brevità, dicono tutto.

Perché non si necessitano di spiegazioni. La Metafisica alla quale spesso si ispira il fotografo, può essere simbolica, straniante, semplicemente una ricerca di bellezza compositiva dove l‘armonia tra volumi e luci sono il significato stesso delle sue immagini. Memorabili perché inspiegabili. Specialmente quando sono attraversate da tracce di Surrealismo dove la realtà è manipolata nella stessa realtà.

«Ma quella bambola stava proprio in quel punto?», chiesi una volta a Lino guardando una sua foto; mi rispose, «Ho manipolato, c‘era ma l‘ho spostata di qualche metro per inquadrarla nella scena che volevo riprendere». Perché la realtà fosse più reale. Un‘amplificazione del reale che rende il possibile surreale.

 

La ragione può darci la scienza, ma solo l‘irrazionale può darci l‘arte. Dicevano i surrealisti. Qui, nelle foto di Lino Rusciano c‘è un connubio tra Metafisica e Surrealismo.

In esposizione ci sono trenta paesaggi marini del litorale domitio che l‘autore ha ritratto ispirandosi agli enigmi di Giorgio de Chirico. Con l‘unica differenza che gli elementi enigmatici, un materasso in gommapiuma ripiegato, una ghiacciaia da bar dismessa in mezzo la spiaggia, sono lì. Ritratti in fotografia e non dipinti. Elementi di una scenografia creata dall‘incuria dell‘uomo.

Enigmi. Costruzioni fatiscenti, erose dalla salsedine del mare. Strutture balneari viste d‘inverno. E viene in mente quando un ufficiale nazista, vedendo Guernica di Picasso chiese «Avete fatto voi questo orrore Maestro?» e il buon Pablo rispose «No, lo avete fatto voi!».

Ma nell‘orrore umano Lino Rusciano vede bellezza. La estrae in giochi di armonia compositiva, equilibri geometrici, accentuando i chiaroscuri, le ombre, evidenzia con giochi di luce le zone dove andrebbe l‘occhio in percorsi visivi musicali, dosa la vividezza del colore, alcune immagini sono portate in high key.

Un controllo di postproduzione necessario per il suo stile estetico, ormai inconfondibile, che altrimenti gli costerebbe l‘impiego di light designer del cinema per raggiungere gli stessi effetti.

 

La bellezza è armonia, equilibrio e tutto ciò che ti emoziona, la puoi trovare in tutte le cose,

anche quelle più semplici. Fotografare è anche una continua ricerca di essa.

 

Gli Enigmi di Lino Rusciano non fanno il verso ai dipinti di de Chirico. Sono emulazioni, nell‘accezione migliore del termine, espressioni personali che portano alla consapevolezza che la fotografia può e dovrebbe essere arte.

 

Credo che non esista il confine tra arte e fotografia. Infatti, a me interessa ricercare l‘arte tramite il mezzo della fotografia. La sensibilità della percezione individuale rende personale larte di ciascuno, icerco di esprimere la mia ricercandola nel mondo, nello sguardo che l‘obiettivo mi restituisce.

 

Ma adesso basta parole. Gli enigmi non è detto che vadano sempre risolti. Sono lì. Si prova ad addentrarvisi, cercando un perché, una motivazione o essere semplicemente contemplati.

 

Chi è Lino Rusciano

Conseguita la maturità classica al Liceo Vittorio Emanuele di Napoli, studia un anno a medicina. Ma il suo destino era designato verso la fotografia.

Ha una grande passione per gli animali e il suo giardino è abitato da oltre venti gatti.

A otto anni ebbe in regalo tre apparecchi fotografici con i quali cominciò a fotografare.

Appassionato di Man Ray, Bill Brandt, Yves Tanguy, Giorgio de Chirico, Dalì e il Surrealismo che hanno segnato profondamente il suo percorso.

Ha esposto in personali e collettive in tutta Italia.

 

 

 

 

ENIGMI

Fotografie di Lino Rusciano

Inaugurazione: sabato 11 febbraio 2023 alle ore 17:30

Fotoart in Garage – Parco Bognar 21 Pozzuoli Napoli

Coordinamento artistico di Gianni Biccari

L‘esposizione resterà aperta dall‘11 al 24 febbraio con il seguente orario:

tutti i giorni 16.30-20.00 (domenica chiuso)

Ingresso libero

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06.02.2023 # 6204
Luigi Cipriano osservatore di tracce urbane espone ventinove fotografie

Dialogue, Nella Tarantino e Francesco Tadini in mostra alla Casa Museo Spazio Tadini

Fotografie emozionali, contaminazioni artistiche, i protagonisti sono chi le osserva in un dialogo con l‘inconscio

di Marco Maraviglia


Ph. Francesco Tadini (Looks - Sguardi)


Esistono fabbricatori di sogni? Certo, fanno parte di quella schiera di visionari del mondo artistico e creativo. Tra questi vi sono alcuni fotografi.

Cosa mostra una fotografia? Sogni o realtà? Una realtà ripresa dal fotografo o ciò che percepisce nell‘attimo dello scatto? Ma la realtà che mostra una fotografia è pura, cruda e nuda?

In effetti mostra solo un attimo di ciò che il fotografo ha innanzi a sé ma non il contesto in cui si trova. Perché tutto ciò che è lateralmente o dietro l‘inquadratura non si vede. Si può presumere ma non abbiamo il potere di ricostruire tutto ciò che è al di fuori dell‘inquadratura.

Un bravo fotografo riesce a far percepire anche ciò che ha “visto” emozionalmente in una foto. Anche senza particolari post-produzioni. Ma il fotografo che ruolo ha quando usa un dispositivo fotografico? Deve mostrare ciò che c‘è o ciò che sente? Lasciare l‘intuizione, l‘esplorazione nella lettura di una foto all‘osservatore o raccontare anche usando artifici? E quelle finzioni nella fotografia, fin dove possono spingersi? Finzioni narcisistiche o espressionistiche?

Se la didascalia di un‘immagine è lunga, è probabile che sia meglio che esista un solo testo scritto. Le foto possono raccontare in altro modo. Se si può fare a meno di una didascalia molto descrittiva è perché la foto basta da sé. A volte.

Esistono immagini emozionali che non necessiterebbero nemmeno di un titolo. Icone che da sole sono come emoticon che sanciscono uno spettro più o meno limitato delle emozioni.

A volte per generarle non è sufficiente un semplice scatto. A volte è possibile crearle solo disegnando un‘illustrazione con tavoletta grafica o anche con pastelli, chine, acquerelli e carboncini. Negli ultimi mesi un‘altra opportunità è l‘AI, l‘intelligenza artificiale: immagini generate tramite software che interfaccia testi dell‘autore con banche di immagini algoritmizzate; a volte l‘autore realizza “artigianalmente” più o meno complessi fotomontaggi. Altre volte è il solo modo di riprendere che può generare come risultato un impatto emotivo.

Ph. Nella Tarantino


Nella Tarantino e Francesco Tadini producono immagini che non sono fotografie in senso stretto. Fabbricano visioni oniriche. Tratte dalla realtà.

Tarantino tende a vedere oltre lo scatto fotografico di cui esalta i sapori attraverso chiaroscuri, mossi, limbi, si vede non si vede, i less is more, grana, equilibrio compositivo dei volumi, tipico di chi è architetto come lei lo è… Immagini teatralizzate ma non di teatro. Sospese in un tempo senza tempo, in spazi indefiniti. Dove sono state prese lo decide l‘osservatore perché è a lui che si lascia la possibilità immaginativa per poter percorrere un viaggio mentale associando il proprio background esperienziale all‘osservazione.

 

Francesco Tadini è di formazione artistica, figlio del pittore e scrittore Emilio.

 

Sono cresciuto ascoltando e vedendo mio padre dialogare con pittori, scrittori, giornalisti, filosofi e mi sono reso conto che l‘arte non può prescindere dal confronto.

 

Nelle immagini di Tadini si avvertono note di de Chirico, dell‘Impressionismo e altre contaminazioni artistiche. Note rivisitate e catapultate nel contemporaneo, in un neo-surrealismo fotografico che, anche in questo caso, lasciano all‘osservatore la facoltà di immergersi in ambienti immaginifici senza tempo, non databili.

Tadini scatta con tempi lunghi. Muovendosi lui, durante la posa “B”, muovendo la fotocamera, affinché i soggetti inquadrati restituiscano un dinamismo che ricorda il Futurismo e che spingono l‘osservatore ad esplorare con più attenzione le sue immagini in un gioco di riconoscibilità. E, quando le sue foto sono a colori, i movimenti sinuosi, circolari, ondulanti generati come se avesse una steadicam tra le mani, divengono esplosioni di colore. Una fuga dal buio e dalle paure, attraverso equilibrate pennellate di luce.

 

Ci sono immagini sulle quali l‘occhio si posa oltre i 5”. Alcune di queste restano impresse nella memoria più a lungo tra tante altre ridondanti che si perdono in rete.

Queste di Nella Tarantino e Francesco Tadini si ricordano. Dialogue, entrambi gli autori stimolano un dialogo tra le immagini e l‘inconscio dell‘osservatore.

 

 

 

La mostra è ospitata dalla Casa Museo Spazio Tadini, nato come luogo espositivo e di archivio per arti figurative contemporanee.

Nel corso dell‘inaugurazione ci sarà la presentazione del libro We always return di Nella Tarantino, con Federicapaola Capecchi e Antonio M. Cuono.

Libro recentemente pubblicato da EBS Print.

 

 

 

Dialogue

Nella Tarantino e Francesco Tadini

A cura di Federicapaola Capecchi

Dall‘11 febbraio al 5 marzo 2023

Inaugurazione 11 febbraio ore 18.00

Casa Museo Spazio Tadini

Via Niccolò Jommelli, 24

Milano (MM Loreto e Piola)

 

Apertura senza prenotazione venerdì e sabato dalle 15.30 alle 19.30

Per prenotazioni in altri giorni e fasce orarie melina@spaziotadini.com – visite guidate al museo 10,00 euro

Per contatti stampa Melina Scalise cell. 3664584532


Ph. Nella Tarantino


Foto di copertina: Ligeia, di Francesco Tadini

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23.01.2023 # 6200
Luigi Cipriano osservatore di tracce urbane espone ventinove fotografie

Fotografia artistica Pasquale e Achille Esposito. Un libro per una mostra. Una mostra per un libro

Napoli fin de siècle. Una Napoli rétro alla Certosa e Museo di San Martino

di Marco Maraviglia

Fino al 19 marzo sarà possibile riscoprire la Napoli di fine ‘800 nella mostra fotografica Napoli ‘fin de siécle‘. Fotografia Artistica Pasquale e Achille Esposito, che raccoglie ed espone in tre sezioni tematiche le opere di Pasquale e Achille Esposito, protagonisti, alla fine dell‘Ottocento, di un‘importante stagione della grande tradizione della fotografia napoletana grazie alla produzione del proprio atelier fotografico commerciale.

 

La mostra in realtà è un‘ampia sintesi del bellissimo libro Napoli ‘fin de siécle‘. Fotografia Artistica Pasquale e Achille Esposito. Un volume che, sfogliandolo e anche il solo leggerne pagine casuali, rimanda a sensazioni extra-sensoriali, coinvolgendo in una macchina del tempo che ci accompagna alla partecipazione di una vita realmente vissuta a Napoli e dintorni. Perché vere sono le immagini con tutta la mimica tipica partenopea: pochissime in posa, poche realizzate in studio. Quasi tutte mostrano una realtà dinamica dove si evincono atmosfere quotidiane ambientate nel paesaggio urbano.

Perché le fotocamere erano più maneggevoli e leggere e i materiali fotosensibili, già dalla fne dell‘800, erano più performanti e non c‘era più bisogno di prendere fotografie con tempi di esposizione lunghi. L‘era degli atelier fotografici con le sedie ferma-testa, volgeva al termine.

Ed era la novità dell‘epoca. Si potrebbe dire che la street-photography nacque proprio con Pasquale e Achille Esposito.

 

La mostra è allestita nella spezieria della Certosa e Museo di San  Martino. L‘idea nasce per valorizzare un fondo fotografico presente nella fototeca storica del museo e segue quella su Alphonse Bernoud, allestita nello stesso spazio nel 2018.

C‘è da dire che il primo libro sulla storia di Napoli attraverso la fotografia, risale al 1981: Immagine e città di Napoli di Mariantonietta Picone. Napoli ‘fin de siécle‘ nasce dal desiderio dei curatori di voler implementare, far crescere la documentazione bibliografica, restando in tema.

 

Di Pasquale Esposito e Achille (il figlio) era nota la loro attività professionale a Napoli ma nulla si conosceva della loro biografia. Molte foto che realizzarono riportano la dicitura “fotografia artistica” oltre al loro nome. Erano particolarmente operativi nel campo della riproduzione d‘arte tanto da definirsi “i fotografi del Museo Nazionale” (oggi MANN).

La mostra si sviluppa su tre filoni fotografici: scene di strada e costumi popolari, vedute (di Napoli e dintorni come Capri, Amalfi, Sorrento, Pompei, Pozzuoli) e, come già scritto, documentazione di opere d‘arte.

 

Si evince dalle stampe all‘albumina appartenenti a vari fondi fotografici pubblici e privati, che Pasquale Esposito (1842-1917) è stato il più attivo in termini di produzione. Anche perché il figlio Achille visse solo 33 anni (1868-1901).

Si sapeva solo dell‘esistenza del lavoro prodotto dagli Esposito, padre e figlio, alcune immagini della loro produzione sono state riconosciute dagli stessi curatori andando a scavare fototeche pubbliche e fondi di collezionisti privati. È un lavoro di ricerca che non si improvvisa. Si fanno verifiche incrociate con gli stili estetici dei fotografi dello stesso periodo. Si consultano archivi, pubblicazioni e testimonianze giornalistiche dell‘epoca.

Infatti, un punto di partenza illuminante che ha dato la possibilità di tracciare alcune notizie biografiche di Pasquale e Achille, è stato una nota presente in un album del saggista e illustratore Gennaro D‘Amato: Raccolta di Fotografie di NAPOLI del 1800. Album che fu donato da D‘Amato alla Biblioteca Nazionale e giunto poi nella Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria. E questo album è esposto in una teca aperto proprio alla pagina della “nota illuminante”.

 

Non vi racconto cosa è scritto in questa nota perché un po‘ di curiosità per visitare questa mostra voglio lasciarvela.

Posso però dire che grazie a quella nota i curatori hanno iniziato a fare ricerche in vari archivi storici tra cui quelli dell‘Accademia di Belle Arti di Napoli, visto che si citava Achille Esposito come pittore.

 

Se pur siano stati i pionieri della fotografia di strada, il loro vedutismo calcava gli standard dell‘epoca. Ma ebbero la fortuna di attraversare un periodo tecnologico in cui si perfezionavano i procedimenti fotomeccanici per la stampa e la nascita delle prime cartoline turistiche agli inizi del ‘900. Anche a colori, preventivamente colorate a mano.

E con le cartoline inizia la produzione di riviste e libri destinati al turismo. Interessante vedere in esposizione una guida turistica di Pompei in inglese dove all‘interno vi sono venti stampe fotografiche originali all‘albumina. Ma purtroppo non si sa quante copie ne furono prodotte.

In quel periodo si determinò un po‘ la fine del Grand Tour. Non più gouache ma fotografie.

La nascita della fotografia fu inizialmente una dannazione per i pittori, ma poi ci si rese conto che poteva essere un mezzo utile per riprodurre scene senza dover necessariamente stare sul posto. O quando serviva a un incisore una scena da riprodurre fotomeccanicamente e riadattava la fotografia secondo il proprio stile compositivo: in esposizione una pagina di L‘Illustration dove è presente l‘incisione a stampa di una visita sul Vesuvio tratta da una foto degli Esposito.

 

In fondo, in uno spazio buio della spezieria, poggiate su un cubo luminoso realizzato dall‘artista Michele Iodice, vi sono quarantanove lastre fotografiche dell‘Archivio Parisio. Da osservare, attentamente, codificare mentalmente in positivo e scoprire infiniti dettagli affascinanti come la nodosa staccionata della villa Krupp che affaccia sui Faraglioni di Capri, il carattere dell‘insegna dell‘Hotel Vittoria che è lo stesso di oggi e i “com‘era all‘epoca rispetto ad oggi”.

Tante le chicche e sorprese. In mostra molti spunti che inducono a riflessioni, curiosità da approfondire, dettagli di una Napoli nel pieno della sua Belle Époque tra popolo e borghesia, tra divulgazione archeologica e turistica, lavori in strada, tra passeggiate sul Vesuvio e scugnizzi a Mergellina che ricordano il Pescatorello di Vincenzo Gemito.

Tanta roba. Non solo un tuffo nel passato, ma proprio una profonda immersione.

 

Insomma, per appassionati della Napoli rétro, per i filologi della cultura urbanistica e popolare, per i fotografi amanti dell‘albumina o per gli street-photographer, per chi si occupa di comunicazione turistica… ecco a voi una bella operazione su Napoli dalle mille e una curiosità. Una sola raccomandazione: non guardate solo le foto, si suggerisce di leggere i pannelli descrittivi che comunque sono una sintesi del preziosissimo libro.

 

Si ringrazia Fabio Speranza per il tempo dedicatomi il 19 gennaio durante una chiacchierata allinterno della spezieria per raccontarmi la mostra.

 

Foto di copertina: Pasquale e Achille Esposito, Calessi per il trasporto passeggeri presso Porta Capuana, Napoli, collezione Giulio Amodio

 

Napoli “fin de siécle”. Fotografia Artistica Pasquale e Achille Esposito

A cura di Giovanni Fanelli e Fabio Speranza

Certosa e Museo di San Martino – Sala della Spezieria

Dal 17 dicembre 2022 al 19 marzo 2023

Orari:

(escluso mercoledì) 8.30 – 17.00; chiusura biglietteria ore 16.00

 

Il libro è acquistabile nelle principali librerie e anche alla biglietteria del museo.

 

Info:

Ufficio Promozione, Comunicazione e Stampa – Direzione regionale Musei Campania +39 081 2294478 - drm-cam.comunicazione@cultura.gov.it

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18.01.2023 # 6198
Luigi Cipriano osservatore di tracce urbane espone ventinove fotografie

Sei un fotografo eco-sostenibile?

Byte-inquinamento: alcune cattive pratiche della fotografia digitale dannose per l‘ambiente e come evitarle

di Marco Maraviglia

La rivoluzione del III millennio

C‘era una volta la fotografia analogica, ma c‘è ancora per qualcuno.

C‘erano una volta le pellicole fotografiche e le stampe ai sali d’argento. Ma esistono ancora.

Dalla nascita della fotografia fino alla fine del ‘900, c‘è stata tanta chimica che ha prodotto fotografie. Un fardello, per qualche fotografo ambientalista. O anche animalista, visto che la gelatina delle emulsioni per pellicole e carte fotografiche era prodotta anche dal trattamento di ossa bovine e suine. Scarti di macellazione, si intende.

Poi arrivò la fotografia digitale.

Meno pellicole prodotte. Meno prodotti chimici per gli sviluppi, arresti, fissaggi di pellicole e carte.

 

Ma la fotografia è diventata più green con il digitale?

Sotto l‘aspetto chimico-industriale sì. Ma forse non tutti si rendono conto che le nuove tecnologie, se spropositatamente utilizzate, comportano ben altri problemi ecologici.

Tutti ascrivibili in una locuzione poco usata: il byte-inquinamento.

 

La foto sofferta

Quando si scattava su lastra fotografica o su pellicola piana in grande formato, si facevano due-tre foto di un soggetto. Poi arrivarono le pellicole in rullo: da 12p (dodici pose, dodici scatti) se si usava una Rolleiflex o un‘Hasselblad o altra fotocamera di medio formato 6x6; e poi i rulli da 36p (trentasei fotogrammi) per chi usava una reflex meccanica-manuale. Ogni scatto preso era sofferto. Si pensava di inquadrare e comporre per bene l‘immagine. L‘esposizione doveva essere curata. Perché poi, meno tempo si perdeva in camera oscura per cropparle (taglio per dare una migliore inquadratura), mascherarle e bruciarle, meglio era. Perché le pellicole e stampe avevano un costo e costava svilupparle.

 

Col digitale cambia tutto

Ormai le schede di memoria delle macchine sono così capienti in termini di gigabyte che ci hanno tolto la preoccupazione dell‘ultimo scatto in camera. L‘ultimo colpo da “tenere in canna” per non perdere la foto dell‘ultima occasione che poteva essere imprevista, all‘ultimo minuto. Quando si usava la pellicola.

Si girava la leva per caricare l‘otturatore e già quel tempo ti faceva rendere conto della preziosità della pellicola che stavi usando.

Qualcuno aveva il motore di trascinamento con i 3-5 scatti al secondo. Ma lo usavano i professionisti che non potevano permettersi di perdere il momento clou del taglio del traguardo di un atleta o di quello di un‘auto sportiva. Erano fotografi che “dovevano” spendere più soldi in pellicole perché ci lavoravano. Erano il loro carburante.

Gran parte delle fotocamere di oggi hanno lo scatto continuo.

Spesso si scatta a raffica senza riservare un po‘ di educazione e gentilezza per l‘otturatore che potrebbe stancarsi e abbandonarci.

Ma di tutti quei click, quante foto sono necessarie? Quante saranno stampate per un album di famiglia e quante per una mostra? Quante serviranno per un lavoro editoriale o per realizzare un proprio libro? E quante resteranno custodite nei supporti di memoria per anni per accorgersi poi che nel frattempo si sono auto-distrutte?

 

Quanto è eterna la foto digitale?

Tutte fotografie, quelle digitali, che occupano memoria: CD, DVD, hard disk. Qualcuno le conserva sui cloud offerti da alcune piattaforme. Ma quanto durerà la libertà di gestire le proprie foto su uno spazio che non è il nostro cardex fisico, il nostro archivio che vediamo, tocchiamo, spostiamo all‘occorrenza come se fosse un divano?

Ma, riguardo i supporti fisici, elettronici, di memoria, chi ci garantisce che avranno una durata più lunga di un negativo bianconero o di una stampa ai sali d‘argento? E, data la velocità industriale dell‘obsolescenza programmata, chi ci garantisce che i computer e software annessi ci consentiranno di leggere i file dei nostri hard disk tra 20 o 40 anni? Se ho gli scanner acquistati nel 2000 che non posso collegare a un nuovo Mac, perché non posso immaginare che accada lo stesso per gli HD? Quanti hard disk finiranno in discarica perché divenuti illeggibili, obsoleti? E i dischetti? Anche quelli possono saltare, difettarsi, diventare illeggibili. Mica sono come dischi in vinile. E dovranno essere gettati via. CD e DVD in policarbonato che in Italia non vengono riciclati e destinati quindi ai rifiuti indifferenziati.

 

Le foto inutili, ridondanti. La sovrapproduzione di fotografie digitali

Produciamo file in RAW di circa 20-40 MB. Sono negativi elettronici con tutte le informazioni che ci servono per post-produrli, “svilupparli” con softweare. Un file RAW di 20 MB, salvato poi in jpg dopo la sua lavorazione, occupa 7 MB di spazio perché è un tipo di formato che comprime l‘immagine. Virtualmente pesa 35 MB. Ma la scelta che dobbiamo fare è se conservare il RAW una volta lavorata la foto e salvata in JPEG o disfarcene. Il suggerimento è quello di conservare entrambi. Perché magari la tecnologia per lo sviluppo dei RAW si potrebbe perfezionare ulteriormente tra qualche anno e potremmo riprendere i vecchi file in RAW per ottenere immagini lavorate meglio. Conservando RAW e JPEG si aumenta il peso di memoria per l‘hard disk certo, ma dovremmo essere critici con noi stessi per eliminare i file in RAW simili a quello lavorato, cestinando gli scatti simili, quelli fuori fuoco, i sotto-sovra/esposti, quelli con punti di vista inutili, quelli ridondanti: il tuo tramonto è migliore di altre migliaia di tramonti che ci sono in rete? È una foto che stamperai per ricordo? Potrebbe essere pubblicata da un giornale? Contiene elementi socio-antropologici-architettonici evidenti che saranno soggetti a cambiamenti e quindi storicizzabile? È ben contestualizzata? Mostra un fatto in maniera eloquente sensibilizzando su un argomento in particolare? È una fotografia che secondo te spacca tanto che potrebbe essere impressa nella memoria di un osservatore e ricordata per sempre?

Più o meno queste domande dovremmo porci prima di gettare nel cestino i nostri file fotografici.

Eliminare il superfluo, insomma. Senza affezionarci troppo alle nostre foto inutili.

Meno foto = meno spazio occupato = meno supporti di memoria = meno rischio di riempire le discariche per dischetti e hard disk diventati illeggibili.

 

Non solo spazio sui supporti di memoria ma anche in rete

Carichi le foto in un album su Facebook nella stessa risoluzione dei file nativi?

Quel tempo in più che ci vuole per postarle significa che si sta sovraccaricando la linea telefonica.

Per mandare foto in visione a un giornale affinché l‘editore, o chi per lui, decida se pubblicarle, non cè bisogno di mandare i file originali ma è meglio ridurli di peso. Successivamente potranno essere spediti in alta definizione e solo quelli effettivamente richiesti.

Una foto JPEG da 35 MB può essere tranquillamente ridotta a meno di 1 MB per essere vista su un monitor.

E così anche per i siti WEB e blog, conviene ridurre le foto al formato di visualizzazione finale. Un bel “Salva per WEB” dal Photoshop, ottimizza ulteriormente le foto per gli usi di cui sopra alleggerendole e donandole una maggiore brillantezza dei colori per la visione sui display. Del resto, anche per la stampa tipografica le foto devono essere sistemate nel formato di stampa finale in cm (centimetri) a una risoluzione di 240-300dpi.

 

Traffico sulle autostrade

Immaginiamo un‘autostrada a tre corsie. A un certo punto entra una colonna di autotreni con i rimorchi vuoti. Difficile che i tir viaggino senza carico perché sono organizzati in modo tale da sfruttare l‘andata e il ritorno a pieno carico. Ma se entrano in autostrada privi di merce, ingombrano comunque inutilmente una corsia rallentando le altre. I veicoli in tal caso, consumano più carburante perché viaggiano in un tempo maggiore.

Dovremmo considerare le vie telematiche come autostrade. Il tir che viaggia a vuoto è come se fosse il nostro file trasmesso a 30 MB invece di 1 MB: occupa inutilmente spazio intasando, rallentando, il traffico telefonico.

«Eh, ma io ho la fibra!». Giusto, ma siamo arrivati alla fibra perché i modem a 56kbps e poi l‘ISDN e poi l‘ADSL non riuscivano più a supportare l‘enorme traffico della rete. Aumentato perché è cresciuto il numero di utenti ma anche perché ci sono quelli che utilizzano la rete, inconsapevolmente, in maniera inappropriata. Oltre il necessario.

Non possiamo immaginare di costruire autostrade a dieci corsie. Sarebbero tanti ettari di boschi e campagne cementificati. Probabilmente non sarebbe nemmeno necessario il 5G, il 10G o il 100G per aumentare la velocità delle connessioni se usassimo i dispositivi digitali in modo strettamente indispensabile per trasferire dati.

Magari invece di allargare le autostrade si potrebbe incentivare l‘uso di auto più piccole o progettarle a due piani. Chissà se il Joint Photographic Experts Group (JPEG) ottimizzerà in futuro il formato per file fotografici più compressi e “a due piani”.

 

I siti WEB dei fotografi sono sostenibili? Sono ecologici?

Più foto ci sono su un sito, più emissioni di CO2 si producono. Specie se sono anche pesanti e non ottimizzate con il “salva per WEB” da Photoshop.

Jack Amend, fondatore e CEO del Web Neutral Project, una società che mira a mitigare la dipendenza di Internet dai combustibili fossili, ha dichiarato che «Internet è la più grande macchina produttrice di carbonio al mondo».

Ci sono diverse piattaforme in rete che misurano le emissioni di CO2 dei siti WEB come ad esempio Karmametrix. Sarebbe bene testare le pagine in costruzione di volta in volta durante l‘allestimento del proprio sito.

Ovviamente il discorso vale anche per l‘invio di mail: più megabyte trasmettiamo, più CO2 produciamo.

Senza poi contare la quantità di server che, per ospitare i nostri siti WEB, devono crescere sempre di più e che, per restare accesi, emettono anch’essi CO2.

 

Riepilogo

Insomma, la consapevolezza delle nostre azioni dovrebbe portarci a governarle per gestirle in maniera più eco-sostenibile. A pochissimi fa piacere di contribuire all‘emissione di CO2 e piccole azioni servono ad arginare il problema.

Come dice un vecchio proverbio «Se tutti spazzassero fuori la porta di casa propria, l‘intera città sarebbe pulita».

 

Riepiloghiamo di seguito alcune pratiche sane scritte fin qui:

 

1.     Fotografare l‘indispensabile e come se avessimo solo 36 scatti in macchina

2.     Evitare di scattare a raffica

3.     Dedicarsi alla selezione delle foto prodotte per eliminare quelle inutili

4.     Postare poche foto e solo quelle più significative sui social caricandole in risoluzione più bassa, tipo 1000pixel il lato lungo

5.     Preferire gli hard disk ai dischetti o ai cloud per lo storage (archiviazione)

6.     Utilizzare la funzione di salvataggio “salva per WEB” di Photoshop prima di farle circolare sui social: serve a ridurre i dati delle foto senza che l‘occhio umano se ne accorga

7.     Evitare di inviare per la sola semplice visione, immagini superiori a 1 MB

8.     Inserire sul proprio sito solo le foto più significative e non album fotografici interi e con foto simili tra di loro

9.     Ottimizzare le foto per il sito WEB: il lato lungo a 1300pixel è più che sufficiente per la visione a monitor

 

 

Foto di copertina: Bethany Drouin da Pixabay 

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13.01.2023 # 6197
Luigi Cipriano osservatore di tracce urbane espone ventinove fotografie

Gian Paolo Barbieri al Blu di Prussia

Fino al 28 gennaio in mostra “Fuori del Tempo”: diciotto maxi-fotografie realizzate in Madagascar, Tahiti, Seychelles

di Marco Maraviglia

In esposizione 18 grandi immagini in bianco e nero selezionate tra quelle tratte dalla Trilogia del mare “Madagascar, Tahiti Tattoos, Equator”, della fine degli anni ‘90 e da “Dark Memories” del 2013 cui si aggiungono 24 polaroid quasi tutte inedite per lo più scattate alle Seychelles tra il 1986 e il 2006, completato dal documentario sulla vita del fotografo “Il magnifico artificio” per la regia di Francesco Raganato (SkyArte 2014) proiettato nella sala cinema della galleria.

- dal comunicato stampa

 

È un‘occasione speciale poter vedere da vicino alcune gigantografie di uno dei più grandi fotografi di moda internazionali che già nel 1968 fu classificato dalla rivista Stern come “tra i quattordici migliori fotografi di moda al mondo”. E lo stesso Giovanni Gastel lo definisce nel 2016 “uno dei più grandi fotografi del mondo".

 

Gian Paolo Barbieri, classe 1935 ma le sue fotografie restano evergreen, anzi, grandi esempi iconici della fotografia di moda. Contemporanea e, perché no, scuola per il futuro.

È nato e cresciuto nel periodo e luogo giusto per la sua professione: Milano. Quello dell‘apoteosi della moda italiana in quella grande officina della città dove i capi di Armani, Trussardi, Versace, Bulgari, Valentino, Ferrè approdavano poi sulle passerelle internazionali. Un periodo d‘oro per il Made in Italy, per tutte le riviste specializzate internazionali come Vogue, Elle, Cosmopolitan e Harper‘s Bazaar e tutto l‘entourage di fotomodelle, hair stylist, truccatori, scenografi, art director, agenzie pubblicitarie e, ovviamente, i fotografi che interpretavano su pellicola abiti eleganti, bizzarri, avveniristici, glamour, degli stilisti.

Gian Paolo Barbieri si muoveva in quel periodo storico vissuto da Richard Avedon, Helmut Newton, Diana Vreeland e gran parte degli stilisti internazionali, fotografando le donne più belle ed eleganti del mondo come Audrey Hepburn, Veruschka, Monica Bellucci e Jerry Hall, l‘ex moglie di Mick Jagger per intenderci.

I fotografi di moda italiani lavoravano tanto. Ognuno con proprie modalità tecniche e stile estetico che diventava una firma nella firma. L’impronta stilistica del fotografo esaltava la firma stessa dello stilista. Poi, sul finire degli anni ‘80 con la successione di poltrone alla Condé Nast, si interruppe l‘epopea dei fotografi di moda italiani.

Ma questa è un‘altra storia.

 

Gian Paolo Barbieri nasce in una famiglia di grossisti di tessuti dove, proprio nel grande magazzino del padre, acquisisce le prime competenze utili per la fotografia di moda.

Con alcuni amici attraversa alcune esperienze teatrali come attore, operatore e costumista ma è il cinema che diventa fonte di ispirazione per il fotografo che inizia a nascere in lui.

Nel novembre 1965 esce il primo numero di Vogue Italia la cui copertina è sua.

Molte delle sue fotografie sono ispirate a film come Caccia al ladro, Casablanca, Il brutto e la bella, La dolce vita, Gli uccelli, Il postino suona sempre due volte, Grand Hotel con Greta Garbo. È appassionato di neorealismo e di Visconti e non sono poche le sue citazioni dell‘arte ispirandosi all‘Espressionismo tedesco, al Futurismo, a David Hockney, Gauguin, Gericault (La zattera della Medusa per Vivienne Westwood -1997 sembra anticipare le immagini di David LaChapelle), Matisse, Magritte, Chagall, Hopper (dipingendo a terra le ombre che gli servivano). Spesso realizzando scenografie surreali, dalle prospettive distorte e tutto doveva essere realizzato dal vero perché non esisteva il Photoshop. «Prima di realizzarle le disegno (le scenografie)».

Immagini realizzate oltre 40-50 anni fa che restano contemporanee e che nulla hanno da invidiare a quelle dei fotografi internazionali del calibro di Irving Penn o Avedon.

 

Ha sperimentato le Polaroid iniettandoci all‘interno i colori Ecoline durante i pochi minuti del loro sviluppo; ha realizzato immagini con false ombre per mezzo di doppie e triple esposizioni sullo stesso supporto. Ha usato il banco ottico per falsare, con i basculaggi, i piani di messa a fuoco. Ha realizzato le sue cinegrafie anticipando gli effetti visivi di Bill Viola. È stato il primo a fotografare uomini per Vogue.

Che dire, un esploratore della fotografia che avrà pur avuto carta bianca dalla committenza per realizzare le sue idee ma perché evidentemente sapeva, questa committenza, che Barbieri aveva gli strumenti culturali, oltre che tecnici, per realizzare le sue idee libere. Quando cambiò lo scenario per i fotografi di moda italiani come sopra accennato, ebbe il coraggio di iniziare un altro tipo di esplorazione. Più intima e riflessiva, rimettendosi in discussione, reinventandosi, esplorando nuove frontiere della fotografia addentrandosi nel fotoreportage etnico, trascorrendo lunghi periodi nelle Seychelles, in Madagascar, a Tahiti. E senza mai separarsi dall‘ingombrante e affezionato banco ottico.

Ricerche fotografiche ma anche antropologiche con un occhio all‘arte Classica greca dove tatuaggi, volti, corpi, animali e territorio sono ritratti nella loro essenziale purezza erotica dai bianconeri perfetti.

 

Fotografare in bianconero raccogliendo tutta la gamma di grigi, neri e bianchi, lascia all‘osservatore l‘immaginazione di una foto coi colori come meglio crede.

- Gian Paolo Barbieri

 

Ma non è tutto. E fortunatamente tutto ciò che riguarda Gian Paolo Barbieri è stato già scritto e detto.

 

 

Gian Paolo Barbieri

“Fuori dal Tempo”

a cura di Maria Savarese

Dal 21 ottobre 2022 al 28 gennaio 2023

Al Blu di Prussia

Via Gaetano Filangieri, 42

Orari: martedì-venerdì 10.30-13/16-20; sabato 10.30-13

Ingresso libero

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19.12.2022 # 6187
Luigi Cipriano osservatore di tracce urbane espone ventinove fotografie

Martin Bogren, fotografia blur dal sapore vintage in mostra

Fotografia umanista contemporanea del fotografo svedese che documenta con vecchie fotocamere e ai sali d‘argento

di Marco Maraviglia

Indefinite, sgranate, mosse, volutamente sfocate, senza i dettagli che cercherebbe per necessità un fotografo pubblicitario per gli still life. Rumorose, si oserebbe dire, ma le fotografie di Martin Bogren possiedono quelle interferenze visive che conducono all‘esplorazione emozionale oltre l‘immagine. Immagini, sì, ma che a volte sembrano disegni, schizzi, rough fatti a matita, gessetto e carboncino in cui si intravede il soggetto della foto ma intorno c‘è tutto un suono nebuloso che accompagna l‘indistinto che ne coglie il volo dello scatto. Lì non sono due persone che si baciano ma è l‘universo che gioca con quel bacio. Dalle infinite sfumature sensoriali la cui intensità percettiva dipende dall‘osservatore.

Come ascoltare un brano musicale. Un percorso cerebro-uditivo attraverso il quale coglierne il volume nella sua interezza o afferrare il senso di un contrappunto. È il parallelo che fa lo stesso autore, attraversare le sue immagini come addentrarsi in quel passaggio a sinusoide, mi mima con la mano il movimento di un serpente, tra le note di un brano.

Martin Bogren sembra comporre spartiti figurativi. Ai sali d‘argento. I suoi strumenti sono fotocamere vintage di medio formato. “Cassette”, camere ottiche anche a soffietto di cui un obiettivo ossidato nella lente o una tenuta di luce precaria, fanno la differenza: il difetto che segna la foto, la personalizza, come una firma, un timbro. L‘imperfetto è il quid. Perché la bellezza non è necessariamente perfezione ma il neo che caratterizza. Il blur che cattura l‘attenzione oltre quei due secondi che normalmente impieghiamo quando scrolliamo le foto su Instagram.

Eppure si tratta di fotografie documentarie. Di istanti di vita. Quei momenti che normalmente sfuggono all‘occhio distratto che invece Bogren cerca, si empatizza con essi costruendoci in uno scatto storie che raccontano stati d‘animo da lui percepiti e ci restituisce come frammenti di sogni prima che vengano dimenticati e dissolti dalla memoria al risveglio.


Catturare l‘intimità, esprimere la fragilità, mostrare l‘impermanenza delle cose: l‘universo visivo di Martin Bogren rivela l‘illusione del mondo. Le sue immagini catturano sulla loro superficie una realtà che si dissolve, ma che l‘arte del fotografo ha saputo cogliere in extremis, furtivamente.

- Cristina Ferraiuolo



Cristina Ferraiuolo, la curatrice della mostra allestita presso la propria Spot home gallery, ha voluto allestire una sintesi dei progetti di Martin Bogren. Una retrospettiva concisa. Come un puzzle del percorso artistico dell‘artista composto dai pezzi per lei più significativi. Con grande stupore dell‘autore per essersi trovato d‘accordo sulla selezione delle foto. E vi si trovano fotografie tratte da Metropolia, Passengers, Hollow, August song e Italia.

Su un tavolo, nello spazio espositivo, un gran papiro da viaggio ma in tela, richiama l‘attenzione. Attraente, tattile, artigianale, due cinturini lo fasciano per richiuderlo e riporre quei segreti urbani emozionali: è Metropolia. Il portfolio con 16 stampe canvas 58x75 cm tratte dall‘omonimo libro che Bogren ha realizzato nell‘ottobre 2022. Una città immaginaria, luoghi anonimi, persone indefinite, sagome immerse in ambienti onirici dove, per la prima volta, l‘autore utilizza il colore.


L‘uso del colore è stato un modo per ribellarmi contro me stesso, per vedere se potevo fare qualcosa di totalmente nuovo. Con il bianco e nero ho iniziato a sapere un po‘ troppo quello che stavo facendo, mentre il colore era come una lingua straniera che ho imparato lentamente. Ma, a dire il vero, le mie immagini a colori sono molto monocromatiche.

- Martin Bogren (dal libro Metropolia)



Chi è Martin Bogren

Classe 1967. Svedese. vive tra Malmö e Berlino.

Negli anni ‘90 Martin Bogren sviluppa un approccio personale alla fotografia documentaria, seguendo musicisti e artisti svedesi sul palco, in tour e in studio. Il suo primo libro The Cardigans – Been It, pubblicato all‘apice del successo del gruppo nel 1996, rivela il suo lavoro e lancia la sua carriera.

Martin Bogren punta però ad andare oltre i lavori su commissione e il campo della musica: si concentra su

un lavoro fotografico più personale individuando e definendo il proprio stile.

Racconti intimi (Hollow, 2019, August Song, 2019), incontri di viaggio, (Metropolia, 2022, Passengers, 2021, Notes, 2008, Italia, 2016), la gioia delle prime scoperte (Ocean, 2008), o lo spleen adolescenziale (Lowlands,

2011, Tractors boys, 2013, Embraces, 2014): attraverso i suoi bianchi e neri sgranati e le sue immagini in scale di grigi, riesce a combinare un approccio documentario con una sensibile e poetica espressione della sua visione soggettiva.


Martin Bogren riesce a non sconvolgere il mondo entro cui si immerge, con educazione, sensibilità e

attenzione, con rispetto, senza giudicare – trattenendo il respiro.

- Christian Caujolle


Vincitore di numerosi premi, tra i quali il Coup de Cœur ai Rencontres d‘Arles in Francia e lo Scanpix Photography Award in Svezia, il suo lavoro è riconosciuto a livello internazionale e fa parte di diverse collezioni prestigiose, tra cui il Fotografiska Museet (Stoccolma), l‘Oregon Art Museum (Portland) e la Bibliothèque nationale de France.

È autore di diversi libri molto apprezzati e pluripremiati, tra i quali Ocean, Italia, August Song, Hollow, Metropolia.




Spot on Martin Bogren

A cura di Cristina Ferraiuolo

Dal 24 novembre 2022 al 24 febbraio 2023

Spot home gallery

via Toledo n. 66, Napoli

+39 081 9228816

info@spothomegallery.com 

www.spothomegallery.com 



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22.11.2022 # 6182
Luigi Cipriano osservatore di tracce urbane espone ventinove fotografie

Antologica di Robert Doisneau al Camera di Torino fino al 14 febbraio 2023

Oltre 130 fotografie ai sali d‘argento, video-interviste e incontri percorrendo la vita del fotografo e di Parigi

di Marco Maraviglia

Il bacio

«Fermi, fermi lì per favore! Me la rifate?... Non guardate in macchina!!!». Click.

Quante volte sarà capitato a un fotografo, reporter o di matrimoni, di non avere puntato in tempo una scena con l‘obiettivo e chiedere di simulare nuovamente un‘azione. Magari sistemando qualche dettaglio come l‘inclinazione del cappello indossato dal soggetto o chiedendo di rilassare le dita delle mani. Ed è, più o meno, quel che fece Robert Doisneau quando scattò la foto del Bacio davanti all‘hotel De Ville.

Un‘icona della Fotografia entrata nell‘immaginario collettivo che può competere solo con immagini come il ritratto di Che Guevara scattato da Alberto Korda o anche con il bacio di Klimt o quello di Francesco Hayez, se vogliamo trovare analogie con la pittura.

Il bacio di Doisneau, pubblicato su Life nel 1950, fu portato in tribunale nel 1992 da una coppia che sosteneva essere oggetto della foto scattata senza il loro consenso. Fu a quel punto che il fotografo ammise che quella foto fu scattata chiedendo di ripetere la scena che gli era appena sfuggita all‘obiettivo. Ma a un‘altra coppia. Il giudice respinse l‘accusa. Nel 1993 si fece viva Françoise Bornet la donna della coppia effettivamente ritratta che possedeva una stampa di quello scatto, autografato dallo stesso Doisneau. Curiosità: nel 2005 Bornet vendette quella foto per oltre 150mila euro.

 

Per tutta la vita mi sono divertito a fabbricare il mio piccolo teatro… io non fotografo la vita reale, ma la vita come mi piacerebbe che fosse.

 

Un fotografo umanista

Nato a Gentilly, nella periferia parigina dove preferiva fotografarne la condizione umana.

Iniziò a dedicarsi alla fotografia dal 1929 e il suo primo lavoro fu come fotografo industriale e pubblicitario per la Renault fino al 1939.

Il suo stile estetico si definì fin dagli inizi con il suo modo di fare reportage teatralizzando la realtà. Se riusciva a falsificare documenti per i membri della Resistenza grazie alle sue conoscenze di litografo apprese prima di diventare fotografo, non gli doveva essere difficile falsificare la realtà. Ma per lo più i suoi erano falsi fotografici “gentili” perché non erano altro che un potenziare, esaltare qualcosa che comunque accadeva per le strade, nelle Banlieu parigine. Momenti di vita che se non avesse “falsificato” sarebbero probabilmente passati inosservati a chi avrebbe guardato i suoi scatti.

Bambini, donne, coppie, lavoratori, gente comune e genuina di periferia. Attimi di passaggio della vita di strada visti con l‘innocenza e la voglia di giocare di un bambino perché era quello il mondo che voleva vedere e mostrare.

L‘era della fotografia prima di lui documentava principalmente personaggi famosi, paesaggi urbani o naturali. Doisneau fu tra i principali esponenti della fotografia umanista, corrente francese nata dopo la guerra che mostrava particolare attenzione alla vita della gente di una società del dopoguerra che andava ricostruendosi.

Il suo occhio aveva uno sguardo spesso ironico ma mai offensivo. Tenerezza, amore, gioco, goliardia, caratterizzano le sue foto.

Il 1949 fu la nascita del programma televisivo statunitense di Candid Camera. Ma nel 1948 Doisneau già aveva sperimentato il meccanismo dell‘occhio indiscreto puntando una fotocamera su treppiedi nascosta oltre la vetrina della galleria d‘arte Romi, con la complicità dell‘amico Robert Giraud. Realizzò la serie Lo sguardo obliquo. Un dipinto di un nudo esposto in vetrina diede la possibilità di cogliere espressioni spontanee ed esilaranti dei passanti che gettavano lo sguardo su quel quadro posto di lato. Non sapendo di essere fotografati.

 

Fotografo per Vogue

E quando gli fu chiesto di collaborare per Vogue, mantenne lo stesso stile ironico nel documentare feste e cerimonie del mondo aristocratico e borghese parigino. Attimi fuggenti non costruiti, non in posa, tutto grottescamente e ipocritamente vero, e che ricordano le incisioni satiriche di Honoré Daumier.

Fotografie che comunque hanno mostrato scene della vita ricca di Parigi che prima poteva solo essere immaginata perché mai documentata fino a quel momento.

Quel periodo lo definì un “incidente di percorso”, qualcosa di cui non gliene importava un granché pensando che le foto di quella serie sarebbero state dimenticate. Sbagliandosi.

Probabilmente è stato anche il primo a realizzare servizi di moda in strada. Sempre in maniera reportagistica. Un genere di fashion-photography mai più tramontato.

 

Per se stesso

A Robert Doisneau piaceva fotografare come un appassionato fotoamatore senza lasciarsi condizionare dalla committenza. Ricercando principalmente il proprio piacere nel fotografare. Se allepoca c‘era chi usava già fotocamere maneggevoli da poco entrate nel mercato, lui preferiva, anche per il fotogiornalismo di strada, continuare a usare la 6x6 che gli consentiva l‘opportunità di avere una maggiore scelta per i crop in fase di stampa dei suoi scatti e anche per non farsi notare nel momento del click grazie al mirino a pozzetto.

Per lui scrittori come gli amici Jacques Prévert, Blaise Cendrars e lo stesso Giraud, furono quelli che gli insegnarono a vedere attraverso le loro metafore.

 

Quando trovavo un‘immagine pensavo a uno di loro, che poi era il primo a cui la mostravo. Un po‘ glielo dovevo, poiché erano stati loro a insegnarmi a vedere.

 

Fu considerato con H. C. Bresson il fondatore del fotogiornalismo di strada che oggi “chiamano” street-photography.

Per se stesso sperimentò un certo modo di fare installazioni contemporanee. Aveva una gran quantità di foto prese dal Pont des Arts dove andava spesso. Ne stampò diverse in mini-formato attaccandole sulle piastrine di un diamino, il corrispettivo del nostro “paroliere”. Alcune le divise per poterle poi ricomporre. Realizzò un patchwork di quadratini fotografici che, quando vide di aver raggiunto una certa armonia, lo riprodusse in formato più grande sottoponendo una stampa unica del Pont des Arts. Anche quello era il suo modo di giocare con la realtà. Estratta in maniera minimalista e da ricomporre tassello per tassello.

 

Mio padre si prendeva gioco della realtà di cui, in fondo, gli importava poco. A partire dalla realtà inventava un mondo più dolce, più tenero, più armonioso, più fraterno.

- Francine Deroudille, figlia di R. Doisneau

 

Robert Doisneau muore nel 1994 a 82 anni. In vita una volta misurò il suo successo in secondi:

 

300 foto a 1/100 di secondo. Tre secondi di successo in 50 anni. C‘è poco da congratularsi.

 

La mostra

La mostra presenta oltre 130 fotografie ai sali d‘argento in un percorso che comprende le sue immagini più iconiche insieme a scatti meno noti ma altrettanto straordinari, selezionati fra gli oltre 450.000 negativi di cui si compone il suo archivio.

La mostra si articola in 11 sezioni tematiche:

Bambini, 1934 - 1956

Occupazione e Liberazione, 1940 - 1944

Il dopoguerra, 1945 - 1953

Il mondo del lavoro, 1935 -1950

Il teatro della strada, 1945 - 1954

Scene di interni, 1943 - 1970

Portinerie, 1945 - 1953

Ritratti, 1942 - 1961

Una certa idea della felicità, 1945 -1961

Bistrot, 1948 - 1957

Moda e mondanità, 1950 - 1952

 

Completa l‘esposizione, un‘intervista video al curatore Gabriel Bauret e la proiezione di un estratto dal film realizzato nel 2016 dalla nipote del fotografo, Clémentine Deroudille: Robert Doisneau, le révolté du merveilleux (Robert Doisneau. La lente delle meraviglie).

 

 

 

ROBERT DOISNEAU

A cura di Gabriel Bauret

Con la collaborazione dell‘Atelier Robert Doisneau

11 ottobre 2022 – 14 febbraio 2023 | Aperti tutti i giorni

CAMERA - Centro Italiano per la Fotografia

Via delle Rosine 18, 10123 - Torino www.camera.to | camera@camera.to

Biglietti
Ingresso Intero € 12
Ingresso Ridotto € 8, fino a 26 anni, oltre 70 anni

Sconti e convenzioni: contattare www.camera.to | camera@camera.to


Robert Doisneau: Un regard oblique, Paris 1948 © Robert Doisneau


In copertina:

Robert Doisneau: Le baiser de l’Hôtel de Ville, Paris 1950 © Robert Doisneau

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