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16.12.2021 # 5855
David LaChapelle, il maestro della Pop Art della fotografia in mostra a Napoli

Marco Maraviglia //

David LaChapelle, il maestro della Pop Art della fotografia in mostra a Napoli

Una collezione esclusiva ed unica, studiata appositamente per la città e per il Maschio Angioino. Con alcune opere inedite

Un ragazzo giace in una discarica. Come cascato  dall’alto, su un ammasso di RAEE. È un angelo? È Icaro. Le sue ali sono spezzate e spiumate. Tanta tecnologia “grigia” sotto di lui, è inerte. Obsoleta. Distrutta. Inutile. Computer che in un’era precedente illudevano al miglioramento della vita, facevano pensare all’immunità intellettiva dell’uomo. A un mondo migliore perché globalizzato dalla iperconnessione. Monitor, case di computer, tastiere senza più vita che rappresentano un consumismo spesso inutile. Perché macchine usate per bighellonare sui social o per ambire a diventare influencer o per essere un semplice utente passivo.

Icarus (questo il titolo della foto), si è avvicinato troppo verso quel sole digitale, verso quei byte. Cercava probabilmente di volare troppo alto, oltre quel labirinto ipertecnologico. Bruciando la propria vita nell’iperinformazione della rete. Nella saturazione ed implosione dei dati. Scontrando i propri neuroni col codice binario. Non ce l’ha fatta.

 

Questa appena descritta è la prima foto che si incontra all’inizio del percorso della mostra di David LaChapelle.

Poi si attraversa una sequenza di immagini che andrebbero viste ascoltando a palla nella mente Heroes di David Bowie, Walk On The Wild Side di Lou Reed o anche We are the champions di Freddie Mercury.

Perché di sognatori e incubi dell’immaginario umano si parla in queste fotografie. Dei fallimenti dell’umanità provocati dall’uomo stesso. Di mondi apocalittici, disastri naturali e biblici. Di post umanità. Architetture sociali costruite sul profitto e sugli inevitabili vizi capitali. Immagini di eccellente composizione, che fanno di LaChapelle un indiscutibile maestro della Staged Photography, in cui trapelano rigurgiti di rinascita o di moniti dove la religione sembra assumere connotati blasfemi ma non è altro che una sua rivisitazione contemporanea in chiave Pop Art.

Perché David LaChapelle è anche il principale riferimento della Pop Art nel panorama della fotografia internazionale. Non a caso battezzato proprio da Andy Warhol che, a soli 17 anni, gli commissionò un servizio fotografico per Interview Magazine. E da allora il volo. Anno dopo anno si è affermato nello spettacolo, nella moda, nella pubblicità e nella musica.

Colori sgargianti, un neo-Barocco iconografico allestito con un’infinità di dettagli allegorici che rendono navigabili a lungo le sue foto, con gli occhi. Per esplorarle e cercare di scoprire quei messaggi di probabile denuncia o semplicemente realizzate per comunicarci il mondo oggi come sarà. O come lo è già. Un futuro presente plausibile, possibilistico, avveniristico. Strizzando l’occhio a Michelangelo che pure ci ha lasciato nella Cappella Sistina messaggi in parte decifrati o riabilitati solo nei tempi più recenti (rif. I segreti della Sistina, il messaggio proibito di Michelangelo; Roy Doliner e Benjamin Blech).

Deluge (2007), è il Diluvio universale di LaChapelle, ambientato a Las Vegas, dove i simboli consumistici in esso contenuti, sembra che abbiano contribuito allo scatenarsi dell’ira dall’alto.

 

Tra Pop e Pulp, David LaChapelle invita i visitatori a ripercorrere i momenti salienti della sua prolifica carriera presentando quaranta pezzi tratti dai periodi più significativi - dal 1980 fino ad oggi - offrendo anche una selezione di opere inedite in anteprima per Napoli, provenienti dal suo archivio.

Nessuna gigantografia, che avrebbe giustificato la cifra artistica di LaChapelle, ma immagini direttamente appuntate con chiodi per volontà stessa dell’artista che vuole far sentire il pubblico come se lo ospitasse nel proprio atelier alle Hawaii. Con modestia. Senza immolarsi a idolo. Reminiscenze maturate evidentemente dalle sue frequentazioni alla Factory di Warhol, dove artisti e aspiranti comparse viaggiavano sullo stesso livello.

 

In mostra vi sono inoltre alcune opere tratte dalle vivide e coinvolgenti serie Land SCAPE (2013) e Gas (2013), progetti di natura morta in cui LaChapelle assembla found objects per creare raffinerie di petrolio e stazioni di servizio, prima di presentarle come reliquie in una terra reclamata dalla natura.

 

Infine, in esclusiva per la Cappella Palatina, alcune trasparenze tratte da negativi fotografici, dipinti a mano realizzati negli anni ’80, di quando l'artista adolescente esplorava le idee della metafisica e della perdita, sullo sfondo della devastante epidemia dell’AIDS. Installazione site specific in esclusiva per questa mostra mai realizzata prima, in dialogo con le opere più recenti di LaChapelle in cui il fotografo viene come catturato da un timore reverenziale per il sublime e dalla ricerca di spiritualità. Come si può vedere in Behold (2017), l’opera utilizzata come immagine portante della mostra stessa.

 

LaChapelle, nella Cappella Palatina, un nome, un programma.

 

 

 

David LaChapelle

A cura di Vittoria Mainoldi e Mario Martin Pareja

Dall’8 dicembre 2021 al 6 marzo 2022

MASCHIO ANGIOINO (Castel Nuovo)

Cappella Palatina

Via Vittorio Emanuele III, Napoli

 

La mostra nel mese di dicembre sarà aperta nei seguenti orari

Da LUNEDÍ a SABATO: 9 – 18.30

DOMENICHE e FESTIVI: 9 – 14.00

Ultimo ingresso consentito in mostra un’ora prima dell’orario di chiusura.

 

Prezzi biglietti:

Intero: 14 €

Ridotto generico (over 65, under 12, partner convenzionati, studenti universitari): 12 € Ridotto gruppi/cral (minimo 15 persone): 10 €

Ridotto scuole (minimo 15 alunni): 10 euro

Ridotto studenti di Beni Culturali, Storia dell’Arte, Istituti e Accademie di Belle Arti: 8 euro

I bambini al di sotto dei 6 anni entrano gratuitamente.

 

Una produzione Next Exhibition, organizzata in collaborazione con l’Assessorato  alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli, Associazione Culturale Dreams, Alta Classe Lab, Fast Forward e Next Event.

24.01.2022 # 5880
David LaChapelle, il maestro della Pop Art della fotografia in mostra a Napoli

Marco Maraviglia //

Sisma80, 23 novembre 19:34. Quel terremoto che è entrato nella storia italiana

A cura di Luciano Ferrara, un progetto iconografico che cerca un’ubicazione permanente per tramandare la memoria di un’esperienza collettiva

Quando i fotografi di Napoli partirono la notte

Il 23 novembre 1980 quel che è stato il più grande terremoto italiano a memoria dei viventi, provocò 2914 vittime accertate e oltre 280mila sfollati.

Alle 19.34 la terra tremò per novanta secondi in tutta la Campania danneggiando parecchi comuni dell’Irpinia alcuni della Basilicata e la scossa fu avvertita forte anche nelle regioni confinanti.

Un disastro di proporzioni immani i cui strascichi sono ancora evidenti in termini urbanistici e sociali.

Le linee telefoniche si erano interrotte ma grazie ai radioamatori si stabilirono ponti di comunicazione tra i comuni, i carabinieri e la Prefettura di Avellino per comprendere l’entità dei danni e organizzare i primi soccorsi.

Il giornalista Emilio Fede della RAI fu il primo a comunicare l’accaduto al tg1.

Quella stessa sera a Napoli ci furono vari fotografi che telefonarono a Umberto Sbrescia, noto commerciante di articoli fotografici tragicamente scomparso nel 2021. Gli chiesero esplicitamente di aprire il negozio per rifornirsi di pellicole perché intenzionati a partire nella stessa notte per raggiungere l’Irpinia.

Fu un tragico episodio che sviluppò una delle più grandi documentazioni fotografiche mai realizzate fino allora.

 

Per non dimenticare

La memoria della mente non possiede milioni di terabyte per ricordare tutto ciò che si legge, ascolta, vede. Non ricorda ogni dettaglio, ogni attimo della propria vita. Le fotografie aiutano a ricordare. Le fotografie sono custodi della memoria storica degli eventi che attraversiamo e ci mettono in contatto anche con ciò che non abbiamo vissuto di persona. Con eventi del passato, del presente e anche del futuro per quelle che saranno realizzate. Anche se fatti accaduti lontani da noi. Le parole descrivono, le fotografie raccontano mostrando. A volte non c’è bisogno nemmeno di una didascalia per una foto ma solo la data in cui è stata presa.

 

Gli archivi fotografici

Gli archivi fotografici sono un enorme patrimonio storico che è invece spesso bistrattato dai circuiti culturali, documentaristici, filologici, antropologici. Le ricostruzioni storiche sono fatte fruendo principalmente di biblioteche ed emeroteche pubbliche. Gli archivi fotografici risiedono per lo più presso luoghi privati dei fotografi o di loro eredi che li gestiscono, o ubicati in contesti inaccessibili.

Anche se esiste una piattaforma dei Beni Culturali che tende ad aggregare tutti i principali archivi fotografici nazionali, ci sono città che non hanno un archivio fotografico centralizzato e Napoli è una di queste.

 

Sisma80, 23 novembre 19:34

Luciano Ferrara, noto fotogiornalista freelance napoletano ideatore di Tribunali138 officina di varie attività fotografiche, avendo un senso civico sull’importanza degli archivi fotografici, in occasione del quarantennale del sisma del 23 novembre, intraprende l’iniziativa di allestire una mostra con immagini tratte dagli archivi di una gran parte di fotografi che seguirono l’evento.

La mostra, dopo un anno di progettazione, fu finalmente inaugurata negli spazi interni del Chiostro di San Domenico Maggiore a Napoli nel febbraio 2021.

Un lungo lavoro di ricerca iconografica. Negli anni alcuni fotografi che documentarono i disastri dell’Irpinia, ma anche di Napoli, erano ormai deceduti.

 

I fotografi ormai deceduti volevo a tutti i costi che fossero presenti in questa mostra, per onorare il loro lavoro dell’epoca oltre che omaggiarli come persone. Fotografi che hanno lavorato per mesi sul territorio.

 

Il contatto con i figli, gli eredi, spulciare gli archivi insieme a loro per ritrovare le fotografie più significative e che dessero una narrativa completa di quel periodo.

Con qualche difficoltà Luciano Ferrara riuscì a recuperare materiale di Antonio Troncone, Giacomo Di Laurenzio (detto Peppino), Guglielmo Esposito, Mario Siano (fotografi della Fotosud, agenzia fotografica interna a Il Mattino), di Franco Esse (detto Franchitiello), Gaetano e Franco Castanò della Press Photo, dell’Archivio Carbone e poi ancora di Luciano D’Alessandro, Mario Riccio oltre che di chi è ancora attivo come Mimmo Jodice, Sergio Del Vecchio, Pino Guerra, Guido Giannini, Giuseppe Avallone, Gianni Fiorito, Toty Ruggieri, Annalisa Piromallo, Massimo Cacciapuoti e lo stesso Luciano Ferrara.

 

Le immagini

Le fotografie di Sisma80 raccontano anche aspetti con toni surreali di quel dramma. Un’auto che trasporta una bara sul bagagliaio, gente inerte che fissa le case crollate con grande senso di impotenza, volti di disperazione che non hanno più lacrime, sezioni di partito allestite in tenda, accampamenti in autobus pubblici o nelle carrozze di un treno, un uomo in giacca e cravatta con scarpe lucidate e seduto su una sedia tra la folla, occhiali e sigarette fissate sulle gambe di un morto che sarà trasportato su quel che resta di una porta di legno.

Immagini che lasciano intuire anche quanto si fosse trovati impreparati di fronte a un evento di tale portata.

Ma scorre paradossalmente tanta vita nelle foto di Sisma80. Ragazzini che mordono la vita giocando con un pallone o una vecchia bici, nonostante il disagio per essere stati catapultati in un’altra dimensione facendoli crescere più in fretta.

Ed è tutto scritto, anzi fotografato. Testimonianze iconografiche che fanno e faranno sorgere anche in futuro non poche domande su quel che è stato fatto, come è stato fatto, cosa si sarebbe potuto fare per salvare qualche vita in più.

 

Il futuro di Sisma80

Mi capitò di visitare alcuni musei civici di Lisbona e in ognuno di essi c’erano ampie testimonianze del terremoto che la città subì nel 1755.

La cosa che però notai di Lisbona è che, evidentemente provati da quella drammatica ESPERIENZA, tutte le nuove opere urbanistiche pubbliche erano state realizzate antisismiche e comunque con una certa robustezza strutturale.

Questa è solo un’osservazione personale da geometra che non ha quasi nulla a che fare con questo articolo.

Ma la parola “esperienza” sì.

L’esperienza è memoria. E la memoria dovrebbe servire a cercare di non ripetere gli errori del passato.

Ma questa è un’altra storia.

Luciano Ferrara vorrebbe dare un futuro a Sisma80, come un padre che si preoccupa dell’avvenire della propria bambina. Vorrebbe che Sisma80 diventasse una testimonianza permanente ubicata in uno spazio fruibile a tutti. Perché rappresenta una parte dell’anima del territorio. Perché sintesi di un’esperienza collettiva che andrebbe condivisa anche con i posteri.

Il progetto consisterebbe anche nell’implementare il lavoro con tutto ciò che è venuto dopo il 23 novembre ’80: la ricostruzione. Cosa è cambiato negli ultimi 40 anni. Come si sono riadattate le famiglie sfollate. Quali riferimenti urbanistici sono rimasti: piazze, campanili, strade. L’impatto psicologico, sociale e culturale sui terremotati. E il materiale iconografico c’è. La strada da percorrere c’è.

 

 

Il libro

Sisma80 è anche libro, anzi, “il testimone” e Luciano Ferrara ha voluto che le oltre 100 fotografie, venissero stampate nel volume con gli stessi toni a basso contrasto della stampa dei quotidiani per rispettarne i grigi coi quali si era abituati a vederle.

All’interno vi sono contributi storico-sociali di giornalisti, urbanisti, storici tra cui Pietro Gargano, Francesco Romanetti, Isaia Sales.

È la traccia, di un drammatico evento, che resterà.

 

 

Sisma80. 23 novembre 19:34

A cura di Luciano Ferrara

Grafica di Gix Musella

Organizzazione di Sofia Ferraioli

Prodotto dall’associazione noos aps e tribunali138

Copertina flessibile

112 pagg.

F.to 23x1x28

Pubblicato il 22 dicembre 2020 da Iod edizioni

13.01.2022 # 5870
David LaChapelle, il maestro della Pop Art della fotografia in mostra a Napoli

Paolo Falasconi //

Il Corso di Fotografia artistica alla ILAS con Antonio Biasiucci

per imparare a costruire un formidabile racconto attraverso le immagini di ogni realtà su cui si deciderà di puntare l’obiettivo.

Ricercarsi, catapultarsi in una nuova e straordinaria dimensione, valutare nuove possibilità, scoprire infiniti e differenti orizzonti, conoscersi […] 


Migliorare umanamente ed artisticamente, secondo un percorso strutturato su misura che rivelerà chi sei e qual è la tua visione del mondo. Nel corso di Fotografia Artistica 9 giovani fotografi professionisti diplomati all’Accademia Ilas intraprenderanno un percorso artistico di tipo introspettivo, sotto l’occhio e la guida esperta del maestro Antonio Biasiucci.

Il corso è pensato per offrire ai fotografi l’opportunità di sfruttare appieno le conoscenze tecniche già acquisite e metterle a frutto per sviluppare una ricerca personale e intima, affinare la conoscenza degli aspetti più artistici della professione e costruire il proprio percorso fotografico.

La fotografia di ricerca è vista e vissuta come un processo lento e continuo, come un’azione incessante, perpetua ed in continuo mutamento.“Ripetere un’azione su di uno stesso soggetto fa guardare le cose da diversi punti di vista, rendendola sempre differente fino al punto di perfezionarla.”- afferma Biasiucci.

Le fotografie forniscono spunti di riflessione, ma è sempre chi osserva a completarne il significato e a darle senso.“Cos’è importante in questo tempo?” cosa è importante per ogni individuo, quali sono i desideri e le ambizioni, perché scegliamo di focalizzarci su alcune mete piuttosto che altre.“Qual è la vita che scegli per te?” É su questo che bisogna lavorare.

Un tavolo, punto d’unione ed allo stesso tempo d’interscambio tra docente ed allievi, è l’elemento focale intorno al quale si concentra il momento più importante di ogni lezione, permettendo agli studenti attraverso le letture del maestro Biasiucci di raccontare e raccontarsi, “mettersi a nudo” e instaurare così legami con la parte più intima di se stessi.

In un lento percorso mirato all'acquisizione della consapevolezza di sé l’allievo acquisirà mano a mano gli strumenti necessari per imparare a costruire un formidabile racconto attraverso le immagini di ogni realtà su cui deciderà di puntare l’obiettivo.


Testi di Maria Nemoianni

12.01.2022 # 5869
David LaChapelle, il maestro della Pop Art della fotografia in mostra a Napoli

Marco Maraviglia //

Come lavoravano i fotografi prima dell’arrivo della fotografia digitale?

Breve incursione in quelle che erano alcune modalità operative dei fotografi degli anni ’80-’90

Lo scanner

Prima del 2000 erano ancora pochi i fotografi che lavoravano in digitale. Esisteva il Photoshop che consentiva di fare qualche postproduzione alle proprie foto, previa scansione. Ma acquisire a scanner le foto aveva un costo non paragonabile a quello di oggi. I service di preprint lavoravano principalmente con costosi scanner a tamburo se non addirittura con un’altra macchina chiamata reprocamera. Oggi con poche centinaia di euro si può entrare in possesso di uno scanner decente. Ma ormai si scattano fotografie che sono già digitali a monte e quindi lo scanner resta solo un utile accessorio per quei fotografi che intendono ripescare dal proprio patrimonio archivistico immagini per realizzare un libro, una mostra e dintorni.  

 

Le pellicole

Si lavorava quindi principalmente in analogico: pellicole a colori, bianconero e invertibili, le cosiddette diapositive. Dette anche diapo o dia.

C’erano fotografi che avevano a tracolla almeno tre corpi macchina e ciò per un paio di motivi: per evitare di perdere tempo nel sostituire gli obiettivi di focale diversa (cosa che ad oggi i professionisti fanno ancora) ma anche perché in ogni corpo macchina c’era una pellicola diversa. Bianconero, diapositiva a bassa sensibilità, diapositiva ad alta sensibilità, diapositiva per luce al tungsteno, pellicola negativa a colori…

Qualcuno usava i filtri di conversione, quelli in vetro blu o arancioni per convertire la temperatura cromatica che si avvitavano sull’obiettivo e così qualsiasi pellicola riproduceva la luce come se fosse “bianca”, diurna.

Oggi le fotocamere digitali hanno il WB, il White Balance, il bilanciamento del bianco. Impostabile in automatico oppure per luce diurna, luce flash, al neon, tungsteno e basta un dito. Anche per cambiare il valore della sensibilità alla luce (ISO).

 

La postproduzione analogica

Non esistevano i software di elaborazione delle immagini, ma le foto potevano subire qualche manipolazione.

Con del ferro filato e dei cartoncini sagomati a disco, triangolari, quadrati, a mezza luna, realizzavi i dodge le “palummelle”: termine napoletano derivante da “palumme”, colombe, perché tramite il fil di ferro si facevano svolazzare sulle carte emulsionate durante l’esposizione dell’ingranditore per schiarire le zone d’ombra. E se dovevi scurire i cieli e le zone troppo chiare (alte luci), usavi la tecnica del burning per “bruciarle”: un cartoncino nero, magari costruito a tronco di piramide, con un foro al centro attraverso il quale lasciavi passare la luce dell’ingranditore.

Il fotoritocco per eliminare polvere e graffi lo facevi a mano con pennellini intinti in appositi inchiostri. Oppure con pennarelli con punte flessibili di varie scale di grigi o anche a colori.

Non esisteva il filtro fluidifica del Photoshop ma deformando la carta emulsionata sotto l’ingranditore, si potevano ottenere caricature.

Chi non possedeva un banco ottico poteva fare leggere correzioni prospettiche di immagini di edifici in fase di stampa. Un po’ pezzottate ma accettabili entro certi limiti.

Si poteva accentuare la grana in fase di sviluppo della pellicola o cospargendo di segatura fine l’emulsione del foglio durante l’esposizione, si facevano solarizzazioni e posterizzazioni, fotomontaggi e quant’altro.

Ogni fotografo aveva i suoi segreti.

 

36 colpi in macchina

Non c’erano schede di memoria che ti consentivano di fare tanti click senza avere il pensiero del limite delle foto scattabili. Avevi solo 36 colpi in macchina e per ricaricarla con un rullino vergine ti prendeva più tempo della sostituzione di una scheda di memoria.

Se compravi pellicola a metraggio riuscivi a caricare i rocchetti anche con 38 fotogrammi, ma il problema era che non potevi perdere l’ultimo colpo “in canna” proprio nel momento clou. Anche per questo era meglio avere un secondo corpo macchina con una pellicola già caricata.

36 colpi in macchina e non dovevi sgarrare l’esposizione perché la latitudine di posa di una pellicola non era come quella che ti può offrire oggi un file in RAW.

36 colpi in macchina e ogni foto doveva essere pensata prima di inquadrarla, ad alta velocità se eri un reporter. Se eri in gamba ne tiravi fuori una decina utilizzabili, pubblicabili. Vendibili. Se eri bravissimo ne usciva una che riuscivi a piazzare a più giornali.

 

La camera oscura

Era il mondo magico di professionisti e fotoamatori evoluti.

I primi erano super attrezzati in stanze dedicate ma anche nel WC, con tank anche a sei spirali, asciugatrici delle stampe, essiccatoi con termostato per le pellicole, marginatori per formati 30x40 o anche più, filtro per l’acqua per renderla meno alcalina ché sennò macchiava troppo i negativi anche se la soluzione imbibente dava una mano, bacinelle per i bagni extralarge ed altre belle cose.

Ma si riusciva a sviluppare e stampare anche con un’attrezzatura più povera.

Invece della tank si avvolgeva e riavvolgeva il rullino a mano nella vaschetta del rivelatore, c’era chi riusciva a recuperare gli asciugatori elettrici per le mani dei bagni pubblici per costruirsi l’essiccatoio per le pellicole con tanto di foglio di cellophane intorno, la luce rossa si rimediava con una normale lampadina incapsulata da un vaso di vetro rosso. Negli infissi delle finestre si attaccavano pannelli di polistirolo dipinti di nero per oscurare l’ambiente. Chi non aveva l’essiccatore per le stampe, le attaccava sulle piastrelle del bagno strizzandole con uno di quei rulli in gomma che servivano in realtà a spalmare l’inchiostro sulle incisioni o sui telai serigrafici artigianali. E poi, staccandole dalle piastrelle, una botta di phon.

Una magia che qualche ragazzo del XXI secolo ha ripreso e che, se non in possesso di una reflex analogica, si è dato alla fotografia stenopeica.

 

I provini a contatto

Il fotografo professionista tagliava a spezzoni da sei fotogrammi i negativi e li inseriva nei fogli per archivio di carta velina non prima di averli stampati a contatto su un foglio di carta fotografica grazie al provinatore: il provino a contatto. Su entrambi i fogli si segnava lo stesso numero e messi nelle scatole delle carte fotografiche ormai vuote o in raccoglitori ad anelli. Magari in raccoglitori separati: quello delle veline con negativi e quello con i soli provini a contatto. E poi c’era chi usava una rubrica alfabetica cartacea dove per ogni lettera descriveva a penna il nome del soggetto o servizio fotografico, la data e il numero corrispondente al provino a contatto e quindi al foglio contenente i negativi di quelle foto.

Eh già, non esistevano i software di database o il “trova file” sul computer. Perché il computer non c’era.

 

Le diapositive

La diapositiva era, sotto certi aspetti, la maledizione per gli amici dei fotoamatori.

Ti invitavano a casa con la scusa di una cena e poi a sorpresa eri costretto a guardarti centinaia di foto proiettate sullo schermo con musichetta di sottofondo e sorbirti tutto il racconto delle vacanze dell’amico perché le foto da sole non raccontavano nulla. «Che bei colori!!!» era il commento che faceva l’amico più affezionato. Gli altri tacevano. Per educazione.

Altra storia invece, per i professionisti che usavano le diapo per lavoro. Perché quelle servivano per l’editoria e la comunicazione con stampa in offset.

Aspettavi un'ora o un giorno per avere le diapositive sviluppate. Quindici giorni di attesa per le Kodachrome perché venivano sviluppate solo in un laboratorio Kodak a Milano che poi chiuse e allora venivano mandate in un laboratorio di Francoforte. Che poi chiuse. Fin quando anche l’ultimo lab nel Kansas venne chiuso nel dicembre 2009. Fine di una pellicola amata dai Fulvio Roiter, Luigi Ghirri, Art Kane, solo per citarne alcuni.

Non esisteva l'e-commerce e impazzivi a trovare i plasticoni che dicevi tu. Quelli opachi sul retro e difficilmente ingottabili.

Le info file le scrivevi a mano sui telaietti.

Duplicavi gli scatti migliori prima di mandarli ai clienti perché nel caso si smarrivano, possedevi sempre gli originali e per evitare che si danneggiassero gli originali con graffi e vaselina che veniva utilizzata per attaccarle sui tamburi degli scanner. Una gran violenza. Perché non tutti i tecnici della pre-stampa potevano perder tempo ad applicarle certosinamente con lo scotch.

Le etichette dei credit te le stampavi da te con una stampante ad aghi se eri attrezzato con un PC 2.8.6 oppure fotocopiavi un foglio battuto a macchina, ci applicavi il biadesivo sul retro e le ritagliavi una a una prima di attaccarle sui telaietti. Perché il timbro a inchiostro indelebile sbavava e dovevi aspettare che si asciugasse prima di infilarle nelle taschine dei plasticoni.

Le numeravi per archiviarle per benino e a ogni foglio del plasticone attaccavi un’etichetta a sbalzo con la descrizione del servizio fotografico.

Poi riponevi tutto nei cardex e aggiornavi lo schedario cartaceo. E il tuo archivio cresceva.

 

 

Credo che oggi nessun fotografo abbia rimpianti di quegli anni. Di quando si respiravano le esalazioni dei bagni chimici a base di acido acetico, metolo, idrochinone, iposolfito di sodio. O di quando ci si incazzava quando una stampa veniva rifatta più volte perché il contrasto, schermature e bruciature erano venute male. O di quando una pellicola era involontariamente graffiata dal laboratorio. O di quando non trovavi il lentino contafili per scegliere dai provini a contatto le foto da stampare o le diapositive da inviare a un giornale.

Ma quella era magia. Tattile. No “polvere elettronica”.

29.12.2021 # 5865
David LaChapelle, il maestro della Pop Art della fotografia in mostra a Napoli

Marco Maraviglia //

Jacquie Maria Wessels espone al PAN Garage Stills, le nature morte fiamminghe delle officine per auto

Luoghi destinati a scomparire, l’artista ne immortala l’essenza restituendoci fotografie di still life site specific


Jacquie Maria Wessels: Breve bio

Jacquie Maria Wessels è nata a Vlaardingen, nei Paesi Bassi, e attualmente vive e lavora ad Amsterdam. Inizia la sua carriera fotografica nel 1981 a Bruxelles. Successivamente si trasferisce ad Amsterdam dove studia alla Gerrit Rietveld Academy tra il 1985 e il 1990 nel dipartimento di fotografia e disegno. Durante i suoi studi svolge un programma di scambio presso la Quicksilver Place Academy of Arts di Londra, incentrato sulla pittura/disegno. Alla fine la fotografia si è rivelata il mezzo preferito da Wessels per esprimersi.


Abstract


La prima lezione di guida me la fece un amico che mi spiegò quanto fosse per lui indispensabile immaginare che guidare è come compiere un atto sessuale. Dimmi come guidi e ti dirò come sei a letto, si potrebbe sintetizzare. Se usi male l’auto, la tendi a guastare e ti ritroverai più spesso in un’officina per farla riparare.

Le officine meccaniche come ne troviamo oggi tenderanno a scomparire. Le auto sono sempre più computerizzate e nelle officine spariranno man mano anche chiavi inglesi e bullonatrici. E non esisteranno più i veri medici dell’auto, quelli vecchia maniera che, prima di farti un preventivo, entrano nella tua auto per provarla in una distanza di 500 metri e, a seconda dei suoni e delle vibrazioni, ti fanno diagnosi e terapia. Quel che tu credi sia un ammasso di metallo senza vita, per un meccanico è un essere vivente.


L’essenza delle officine meccaniche


Officine come ospedali di automobili. Luoghi scarsamente illuminati al neon in cui si ascolta la concentrazione dei medici di automobili. Odori di cocktail di olio, carburante, copertoni, grasso, ferodo, sudore e caffè. Panelli attrezzati con cacciaviti e altri oggetti non identificati, compressori, carrelli di metallo, banchi da lavoro con morse e tornio, elevatori. I suoni e rumori di un’officina meccanica sono un concerto sinfonico per gli appassionati. Corredato da calendari di pin up del XXI secolo e santini. Sacro e profano che convivono sulle pareti difficilmente rimesse a nuovo da qualche strato di pittura. Perché non c’è tempo per farlo: il papà di quell’auto ha urgente bisogno di riaverla per un viaggio di piacere o di lavoro.

Ma tutta questa magia che avvolge un’officina scomparirà. Le auto escono dalle fabbriche sempre più computerizzate e non ci sarà più bisogno dei meccanici “a orecchio” e sensibili alle vibrazioni. I computer di bordo e le strumentazioni tecno-digitali delle auto-officine sostituiranno l’esperienza dell’uomo e l’obsolescenza programmata porterà probabilmente a rendere irreparabili o economicamente non conveniente riparare le auto che avranno una vita media di 3-4 anni. 


Garage Stills


Jacquie Maria Wessels da alcuni anni ha intrapreso la sua ricerca Garage Stills per immortalare queste atmosfere in via di estinzione che normalmente sfuggono all’occhio di chi è costretto a portare la propria auto in riparazione. Probabilmente sfuggono anche agli stessi meccanici che vivono 8-10 ore al giorno nel proprio ambiente di lavoro.

Wessels realizza le sue nature morte anche riassemblando, disponendo in maniera decontestualizzata gli oggetti che catturano la sua attenzione, rendendo le inquadrature più pittoriche e nelle quali aleggia la presenza umana che mai compare in esse, trattandosi appunto di still life site specific.

E lo fa lavorando su pellicola a medio formato, per coerenza con il suo concetto di lotta contro la scomparsa della memoria umana. Perché i pixel non sono che polvere elettronica soggetta al rischio di disperdersi in tempi più brevi, mentre l’analogico è un’altra storia.


Al PAN – Palazzo delle Arti di Napoli sono quindi esposte circa trenta opere di Wessels, fotografie realizzate in Olanda, Sri Lanka, Suriname, Istanbul, Marrakech, Cambogia, Russia, Giappone, Cuba, Belgio, ed è interessante scoprire la presenza o meno di analogie dello stesso ambiente-soggetto ma ripreso in luoghi culturalmente diversi.


Le sue fotografie si equiparano a quadri astratti, a metà tra mondo reale ed immaginario, un felice connubio tra realtà ed astrazione, momento presente e memoria; a cavallo tra il particolare dell’oggetto e l’universale della storia; tra pittura astratta e fotografia; tra visione poetica ed indagine antropologica, tra osservazione e rivelazione, e si presentano come dispositivi della psicologia della società meccanica che sta inesorabilmente scomparendo.

- Marina Guida



Nota dal comunicato stampa

In mostra anche alcuni lavori di due serie fotografiche precedenti, “Cityscapes” e la nuova serie “Fringe Nature”. Le opere di Jacquie Maria Wessels sono state esposte in tutto il mondo e fanno parte di varie collezioni private e museali, tra i quali: Rijksmuseum di Amsterdam (Paesi Bassi), al Huis Marseille- Museo della fotografia di Amsterdam (Paesi Bassi) e il Surinaams Museo in Paramaribo (Suriname).





GARAGE STILLS di Jacquie Maria Wessels

a cura di Marina Guida

Promosso da Assessorato alla Cultura del Comune di Napoli

PAN | Palazzo delle Arti di Napoli 

Dal 18 dicembre 2021 al 13 gennaio 2022

Tutti i giorni: dalle ore 10:30 alle ore 18:00

Domenica: dalle ore 10:30 alle ore 13:30

Martedì: giorno di chiusura

Festività nazionali (25, 26 dicembre; 1 e 6 gennaio): chiuso al pubblico

https://www.jacquiemariawessels.nl/ 

21.12.2021 # 5862
David LaChapelle, il maestro della Pop Art della fotografia in mostra a Napoli

Marco Maraviglia //

La sospensione del tempo tra spazio e pensiero di Pierfranco Fornasieri

Mostra fotografica presso Movimento Aperto a cura di Giovanni Ruggiero

La fotografia se non ha un osservatore non esiste. Il fotografo è a volte uno sketcher, prende appunti visivi, vede ciò che ha di fronte e, secondo la sua sensibilità di quel momento, decide di fare uno scatto.

Ma se non è fruita, scatenando impulsi emozionali, immaginazione, desiderio di conoscere chi/dove/quando/perché è stata fatta quella foto da parte di chi la guarda, resta nell’oblio.

Come parole non dette ma solo pensate. Come messaggi in bottiglia dispersa nel mare.

Il triangolo fotografo-fotografia-osservatore se non si chiude non ha senso. E in quell’area del triangolo si compie una danza di riflessioni, supposizioni, intuizioni. Un viaggio mentale di cui l’autore non è altro colui che ospita le possibili visioni.

 

«Una buona fotografia deve lasciare dei punti in sospeso. Non deve spiegare, solo abbozzare. Il senso di una fotografia non esiste, se non c’è qualcuno che muove i suoi pensieri personali partendo dall’immagine che ha davanti. La mia personale narrazione fotografica non può prescindere dalla presenza di un osservatore: non riuscirebbe a compiersi completamente. L’immagine fotografica non è mai una storia con un solo finale.»

- Pierfranco Fornasieri

 

Le immagini di Pierfranco Fornasieri sono come sospensioni del tempo, attimi congelati da qualche centesimo di secondo che non raccontano tutto ma inducono a raccontare storie a se stessi. Lasciano la sceneggiatura aperta all’osservatore che cercherà e troverà un fil rouge che potrebbe avere più percorsi. Come una ragnatela di percezioni nella quale districarsi o anche perdersi, come in un labirinto con più traguardi. Uno Sliding doors con più uscite.

 

«Sappiamo che la fotografia di Pierfranco Fornasieri, artista torinese, non nasce dalla suggestione di un luogo preciso nello spazio (una strada, una città, una stanza o una spiaggia), ma da una metaforica nuvola fatta di tanti perché. Domande che possono essere numerose, e la nuvola, allora, pregna di dubbi, è come quelle che promettono pioggia, oppure presentarsi lieve, come a rigare con un soffio il cielo.»

- Giovanni Ruggiero (curatore della mostra)

 

Due sono i lavori presentati da Pierfranco Fornasieri: Seconde Storie Lo Spazio Incerto.

Per il primo progetto il fotografo è andato alla ricerca delle storie degli altri, quelle sospese: storie in divenire o già accadute e sta all’osservatore ricostruire quelle storie. Libero di interpretarle.

E si tratta di immagini realizzate tra il Piemonte (la sua Torino) e la Toscana, poi le Venezie, Parigi e, ancora, la Spagna e ad altri luoghi ancora.

 

Spazio Incerto, invece, tocca il tema dell’adolescenza. Fornasieri vuole appunto rappresentare quel tempo sospeso dei dubbi e dell’incertezza che passa fra l’essere bambino e il diventare uomo, scegliendo la realizzazione e l’allestimento delle fotografie sotto forma di dittici. Il senso della atemporalità è anche in questa ultima serie

 

Una street photography declinata nell’introspezione dell’autore.

Sono immagini che catturano l’attenzione per la loro essenzialità. Oniriche, metafisiche. Silenziose. Il peso dei chiaroscuri, l’equilibrio tra ambiente e uomo, i contrapposti tra persone che svolgono nello stesso tempo azioni diverse in una casualità che sembra invece scritta da quel ritmo della vita, dal quel concetto orientale di causa e effetto di cui per lo più non ci accorgiamo.

Perché siamo condizionati dal tempo cadenzato da innumerevoli cose da fare che assorbono le nostre giornate.

Facciamo un respiro profondo chiudendo gli occhi. Poi apriamoli e immergiamoci in questa opportunità che ci offre l’autore.

 

Seconde storie di Pierfranco Fornasieri

A cura di Giovanni Ruggiero

Movimento Aperto

via Duomo 290/c

dall’11 al 29 dicembre

il lunedì e il martedì ore 17-19, il  giovedì ore 10.30-12.30 e su appuntamento

Info 333 2229274  e 335 6440700

https://www.fornasieri.com/

 

 

 

 

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