
Marco Maraviglia //
Come lavoravano i fotografi prima dell’arrivo della fotografia digitale?
Breve incursione in quelle che erano alcune modalità operative dei fotografi degli anni ’80-’90
Lo scanner
Prima del 2000 erano ancora pochi i fotografi che lavoravano in digitale. Esisteva il Photoshop che consentiva di fare qualche postproduzione alle proprie foto, previa scansione. Ma acquisire a scanner le foto aveva un costo non paragonabile a quello di oggi. I service di preprint lavoravano principalmente con costosi scanner a tamburo se non addirittura con un’altra macchina chiamata reprocamera. Oggi con poche centinaia di euro si può entrare in possesso di uno scanner decente. Ma ormai si scattano fotografie che sono già digitali a monte e quindi lo scanner resta solo un utile accessorio per quei fotografi che intendono ripescare dal proprio patrimonio archivistico immagini per realizzare un libro, una mostra e dintorni.
Le pellicole
Si lavorava quindi principalmente in analogico: pellicole a colori, bianconero e invertibili, le cosiddette diapositive. Dette anche diapo o dia.
C’erano fotografi che avevano a tracolla almeno tre corpi macchina e ciò per un paio di motivi: per evitare di perdere tempo nel sostituire gli obiettivi di focale diversa (cosa che ad oggi i professionisti fanno ancora) ma anche perché in ogni corpo macchina c’era una pellicola diversa. Bianconero, diapositiva a bassa sensibilità, diapositiva ad alta sensibilità, diapositiva per luce al tungsteno, pellicola negativa a colori…
Qualcuno usava i filtri di conversione, quelli in vetro blu o arancioni per convertire la temperatura cromatica che si avvitavano sull’obiettivo e così qualsiasi pellicola riproduceva la luce come se fosse “bianca”, diurna.
Oggi le fotocamere digitali hanno il WB, il White Balance, il bilanciamento del bianco. Impostabile in automatico oppure per luce diurna, luce flash, al neon, tungsteno e basta un dito. Anche per cambiare il valore della sensibilità alla luce (ISO).
La postproduzione analogica
Non esistevano i software di elaborazione delle immagini, ma le foto potevano subire qualche manipolazione.
Con del ferro filato e dei cartoncini sagomati a disco, triangolari, quadrati, a mezza luna, realizzavi i dodge le “palummelle”: termine napoletano derivante da “palumme”, colombe, perché tramite il fil di ferro si facevano svolazzare sulle carte emulsionate durante l’esposizione dell’ingranditore per schiarire le zone d’ombra. E se dovevi scurire i cieli e le zone troppo chiare (alte luci), usavi la tecnica del burning per “bruciarle”: un cartoncino nero, magari costruito a tronco di piramide, con un foro al centro attraverso il quale lasciavi passare la luce dell’ingranditore.
Il fotoritocco per eliminare polvere e graffi lo facevi a mano con pennellini intinti in appositi inchiostri. Oppure con pennarelli con punte flessibili di varie scale di grigi o anche a colori.
Non esisteva il filtro fluidifica del Photoshop ma deformando la carta emulsionata sotto l’ingranditore, si potevano ottenere caricature.
Chi non possedeva un banco ottico poteva fare leggere correzioni prospettiche di immagini di edifici in fase di stampa. Un po’ pezzottate ma accettabili entro certi limiti.
Si poteva accentuare la grana in fase di sviluppo della pellicola o cospargendo di segatura fine l’emulsione del foglio durante l’esposizione, si facevano solarizzazioni e posterizzazioni, fotomontaggi e quant’altro.
Ogni fotografo aveva i suoi segreti.
36 colpi in macchina
Non c’erano schede di memoria che ti consentivano di fare tanti click senza avere il pensiero del limite delle foto scattabili. Avevi solo 36 colpi in macchina e per ricaricarla con un rullino vergine ti prendeva più tempo della sostituzione di una scheda di memoria.
Se compravi pellicola a metraggio riuscivi a caricare i rocchetti anche con 38 fotogrammi, ma il problema era che non potevi perdere l’ultimo colpo “in canna” proprio nel momento clou. Anche per questo era meglio avere un secondo corpo macchina con una pellicola già caricata.
36 colpi in macchina e non dovevi sgarrare l’esposizione perché la latitudine di posa di una pellicola non era come quella che ti può offrire oggi un file in RAW.
36 colpi in macchina e ogni foto doveva essere pensata prima di inquadrarla, ad alta velocità se eri un reporter. Se eri in gamba ne tiravi fuori una decina utilizzabili, pubblicabili. Vendibili. Se eri bravissimo ne usciva una che riuscivi a piazzare a più giornali.
La camera oscura
Era il mondo magico di professionisti e fotoamatori evoluti.
I primi erano super attrezzati in stanze dedicate ma anche nel WC, con tank anche a sei spirali, asciugatrici delle stampe, essiccatoi con termostato per le pellicole, marginatori per formati 30x40 o anche più, filtro per l’acqua per renderla meno alcalina ché sennò macchiava troppo i negativi anche se la soluzione imbibente dava una mano, bacinelle per i bagni extralarge ed altre belle cose.
Ma si riusciva a sviluppare e stampare anche con un’attrezzatura più povera.
Invece della tank si avvolgeva e riavvolgeva il rullino a mano nella vaschetta del rivelatore, c’era chi riusciva a recuperare gli asciugatori elettrici per le mani dei bagni pubblici per costruirsi l’essiccatoio per le pellicole con tanto di foglio di cellophane intorno, la luce rossa si rimediava con una normale lampadina incapsulata da un vaso di vetro rosso. Negli infissi delle finestre si attaccavano pannelli di polistirolo dipinti di nero per oscurare l’ambiente. Chi non aveva l’essiccatore per le stampe, le attaccava sulle piastrelle del bagno strizzandole con uno di quei rulli in gomma che servivano in realtà a spalmare l’inchiostro sulle incisioni o sui telai serigrafici artigianali. E poi, staccandole dalle piastrelle, una botta di phon.
Una magia che qualche ragazzo del XXI secolo ha ripreso e che, se non in possesso di una reflex analogica, si è dato alla fotografia stenopeica.
I provini a contatto
Il fotografo professionista tagliava a spezzoni da sei fotogrammi i negativi e li inseriva nei fogli per archivio di carta velina non prima di averli stampati a contatto su un foglio di carta fotografica grazie al provinatore: il provino a contatto. Su entrambi i fogli si segnava lo stesso numero e messi nelle scatole delle carte fotografiche ormai vuote o in raccoglitori ad anelli. Magari in raccoglitori separati: quello delle veline con negativi e quello con i soli provini a contatto. E poi c’era chi usava una rubrica alfabetica cartacea dove per ogni lettera descriveva a penna il nome del soggetto o servizio fotografico, la data e il numero corrispondente al provino a contatto e quindi al foglio contenente i negativi di quelle foto.
Eh già, non esistevano i software di database o il “trova file” sul computer. Perché il computer non c’era.
Le diapositive
La diapositiva era, sotto certi aspetti, la maledizione per gli amici dei fotoamatori.
Ti invitavano a casa con la scusa di una cena e poi a sorpresa eri costretto a guardarti centinaia di foto proiettate sullo schermo con musichetta di sottofondo e sorbirti tutto il racconto delle vacanze dell’amico perché le foto da sole non raccontavano nulla. «Che bei colori!!!» era il commento che faceva l’amico più affezionato. Gli altri tacevano. Per educazione.
Altra storia invece, per i professionisti che usavano le diapo per lavoro. Perché quelle servivano per l’editoria e la comunicazione con stampa in offset.
Aspettavi un'ora o un giorno per avere le diapositive sviluppate. Quindici giorni di attesa per le Kodachrome perché venivano sviluppate solo in un laboratorio Kodak a Milano che poi chiuse e allora venivano mandate in un laboratorio di Francoforte. Che poi chiuse. Fin quando anche l’ultimo lab nel Kansas venne chiuso nel dicembre 2009. Fine di una pellicola amata dai Fulvio Roiter, Luigi Ghirri, Art Kane, solo per citarne alcuni.
Non esisteva l'e-commerce e impazzivi a trovare i plasticoni che dicevi tu. Quelli opachi sul retro e difficilmente ingottabili.
Le info file le scrivevi a mano sui telaietti.
Duplicavi gli scatti migliori prima di mandarli ai clienti perché nel caso si smarrivano, possedevi sempre gli originali e per evitare che si danneggiassero gli originali con graffi e vaselina che veniva utilizzata per attaccarle sui tamburi degli scanner. Una gran violenza. Perché non tutti i tecnici della pre-stampa potevano perder tempo ad applicarle certosinamente con lo scotch.
Le etichette dei credit te le stampavi da te con una stampante ad aghi se eri attrezzato con un PC 2.8.6 oppure fotocopiavi un foglio battuto a macchina, ci applicavi il biadesivo sul retro e le ritagliavi una a una prima di attaccarle sui telaietti. Perché il timbro a inchiostro indelebile sbavava e dovevi aspettare che si asciugasse prima di infilarle nelle taschine dei plasticoni.
Le numeravi per archiviarle per benino e a ogni foglio del plasticone attaccavi un’etichetta a sbalzo con la descrizione del servizio fotografico.
Poi riponevi tutto nei cardex e aggiornavi lo schedario cartaceo. E il tuo archivio cresceva.
Credo che oggi nessun fotografo abbia rimpianti di quegli anni. Di quando si respiravano le esalazioni dei bagni chimici a base di acido acetico, metolo, idrochinone, iposolfito di sodio. O di quando ci si incazzava quando una stampa veniva rifatta più volte perché il contrasto, schermature e bruciature erano venute male. O di quando una pellicola era involontariamente graffiata dal laboratorio. O di quando non trovavi il lentino contafili per scegliere dai provini a contatto le foto da stampare o le diapositive da inviare a un giornale.
Ma quella era magia. Tattile. No “polvere elettronica”.