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La prima volta che raccontai a mia madre di voler diventare un graphic designer, mi chiese di aggiustarle il condizionatore. Visto che sapevo usare i computer, qualsiasi tecnologia non doveva essere un mistero per me.
Quando ho iniziato a fare questo lavoro, il graphic designer sostanzialmente era colui il quale non aveva voglia di lavorare o di studiare e perciò passava il suo tempo a fare “disegnini” al computer.
Ma come si diventa graphic designer?
Sostanzialmente ci sono due strade: essere il cugino di qualcuno che prima o poi ti chiederà un logo per un biglietto da visita, oppure studiare.
Io direi che la seconda strada sia più affidabile, ma come spesso accade nelle cose della vita, la strada più giusta è anche quella più difficile.
Ma le cose facili durano sempre poco.
Come amo ripetere ai miei allievi, un graphic designer non è un artista ma un artigiano, che come qualsiasi artigiano, per imparare deve praticare. E la pratica non si improvvisa, richiede studio e applicazione.
Per essere degli abili professionisti della comunicazione visiva, bisogna soprattutto essere presenti, essere immersi nella cultura contemporanea, attingere dal passato per proiettarsi nel futuro. E per questo sguardo attivo, è indispensabile una discreta cultura generale.
Oltre alle tecniche base della progettazione, guide, griglie, allineamenti, gestione degli spazi, equilibri, tecniche del colore, uso dei caratteri tipografici, percorsi di lettura, gerarchie visive, lo studio del graphic design si avvale di molte discipline, dalla sociologia alla psicologia, all’antropologia.
Queste discipline sono nuclei fondanti per la competenza, non solo perché non sapremo mai con quale progetto dovremo misurarci, ma anche perché, come ogni forma di espressione umana, la grafica parla degli esseri umani agli esseri umani.
In un bellissimo documentario su un font che ha partecipato alla più grande rivoluzione nel campo della progettazione grafica (Helvetica), qualcuno afferma che i designer collegano le loro teste a quelle degli altri con fili invisibili. Più ci si addentra in questo campo e più ci si rende conto di quanto sia vero.
Si, è uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo (cit.), direbbe qualcuno, ma in realtà si sceglie di essere graphic designer perché si segue la propria inclinazione, sedotti dal gusto e il piacere divino della creazione.
Avere un’idea e realizzarla è una sensazione di febbrile soddisfazione. Vedere in giro il proprio lavoro, osservare l’effetto che produce sulle persone e il suo impatto sulla società è un’esperienza destinata a segnarci profondamente.
Ogni traguardo, però, necessita del suo percorso. Troppo spesso ho visto svilire questa bellissima professione, troppo spesso assistiamo allo spettacolo di millantatori di varia natura e grado che si improvvisano. No. Il design merita di più, merita rispetto e considerazione.
Un graphic designer produce bellezza, arte, cultura, e quando si compie questa operazione si lascia una traccia di sé agli altri nel mondo.
In definitiva, per diventare un graphic designer servono un computer, una matita e un po’ di creatività. Per diventare invece un grande graphic designer servono conoscenza, capacità, cultura e attitudine al miglioramento costante. Perché il miglior lavoro sarà sempre il prossimo, perché la professionalità si costruisce confrontandosi con il cammino percorso.
Ecco come si diventa graphic designer.
Perché farlo?
Perché essere graphic designer è soprattutto una missione di civiltà.
Nel corso della mia carriera professionale ho autonomamente deciso di imparare una serie di discipline un po’ per poter meglio rispondere alle varie esigenze di mercato e un po’ perché amo profondamente quello che faccio. La mia idea di base è che, quando chiedi a qualcuno di produrre qualcosa per te o se un cliente ha un certo tipo di esigenza, la cosa più importante è sapere di cosa si stia parlando.
Ma questa non è per forza una regola. Molti professionisti del settore, infatti, puntano sulla qualità e sulla formazione in una specifica disciplina. In questo modo si riduce la possibilità di commettere errori e si rispettano le diverse competenze senza prevaricazioni di sorta. Questo sistema garantisce sempre di lavorare con alti standard di qualità e consente di creare team multidisciplinari in cui ognuno opera in totale autonomia collaborando con diversi esperti in vari ambiti della comunicazione e della progettazione.
Ci si affida, dunque, alle abilità dei singoli professionisti nei vari settori di appartenenza, in grado di soddisfare i bisogni di una data commessa. Parliamo di graphic designer, web designer, illustratori, copywriter, fotografi, ecc... L’importante è, quindi, che ogni attore conosca approfonditamente e in maniera esaustiva la sua materia, in base agli studi, alla preparazione, all’attitudine e alla propria qualifica professionale, così da offrire il massimo contributo possibile nell’eseguire il proprio compito.
Questo è il modo giusto. Ma ce ne sarebbe anche uno sbagliato, purtroppo.
Spesso infatti, per esigenze di budget, per inefficienza o per mancanza di conoscenza, si affidano mansioni a professionisti che nulla conoscono di una certa materia. Assistiamo, quindi, alla sofferenza di graphic designer che si cimentano con le regole del mondo della comunicazione digitale, web designer che hanno a che fare con tecniche di fotoritocco e video editing e copywriter che provano a misurarsi con il fantastico mondo della progettazione visiva.
In pratica sarebbe come schierare una squadra di calcio in cui ognuno ricopra un ruolo diverso dal proprio. Si, certo, puoi anche vincere qualche partita, ma hai le stesse probabilità che un fulmine ti colpisca in piena estate mentre mangi il tuo bel ghiacciolo in riva al mare.
A quanto pare, perciò, un imbianchino può anche saper cambiare un rubinetto, ma se chiami un idraulico forse è meglio. Ma quali sono le discipline del design? Quante figure professionali esistono nel mondo della progettazione legata alla comunicazione?
Iniziamo dalle basi.
Grafico Pubblicitario
La figura del grafico pubblicitario, ben nota ai più per la conoscenza di alcune parole in inglese che spesso e volentieri esibisce in contesti disparati, nasce come derivazione dei primordiali illustratori nel mondo della pubblicità. Fino agli anni Sessanta del Novecento infatti, questa professione era ricoperta da abili disegnatori in grado di realizzare ritratti e illustrazioni più o meno complesse e di realizzare caratteri tipografici in corsivo per abbellire le composizioni. Con l’avvento della tecnologia, con l’utilizzo sempre più massiccio di caratteri tipografici industriali, creati per specifiche esigenze, questa figura è stata gradualmente sostituita con professionisti in grado di usare computer, di conoscere e lavorare con i font, di manipolare e lavorare con immagini e materiale vario. Ecco che nasce la figura del grafico pubblicitario, ossia quei professionisti in grado di produrre composizioni visive su formati pubblicitari seguendo le specifiche di un direttore creativo, un art director o un copywriter.
Grafico Editoriale
Ve li ricordate quei manufatti di carta patinata simili a libri che contenevano articoli e comunicati di vario genere? Si, esatto, le riviste! Appunto, i grafici editoriali sono specializzati nella progettazione riservata a quella specifica area della comunicazione visiva. La figura del grafico editoriale è spesso tormentata e martoriata, ma le competenze necessarie ad essere un professionista in questa materia sono decisamente tante e complicate. Griglie, guide, margini, colonne, correzioni, bozze, file per la stampa e chi più ne ha più ne metta. A questi progettisti viene affidato l’arduo compito di impaginare materiale da consultare, da leggere e da comprendere (eventualmente). Credo non ci sia compito più difficile. Bisogna infatti conoscere i formati, adattare i contenuti rispetto alle griglie di progettazione, creare le griglie di progettazione, scegliere con cura font e dimensioni, contrasti e posizionamenti, conoscere le regole di lettura e leggibilità, di vicinanza e di allineamento, stabilire le gerarchie visive degli elementi, saper usare un telefono e ordinarsi un caffè al bar. Praticamente tutto, tranne lavorare con foto, immagini e illustrazioni.
Illustratore
Gli illustratori sono quegli amici un po’ strani che avevamo a scuola, quelli che detenevano la misteriosa arte della rappresentazione visiva su carta. Insomma quelli che un po’ erano artisti e un po’ erano musicisti, un po’ street artist e un po’ casinari e che poi, non si sa bene come, a un certo punto, hanno deciso di diventare tatuatori. Quelli che, però, non hanno scelto questa strada sono diventati illustratori. L’illustrazione è la più affascinante tra le discipline applicate alla comunicazione visiva, per la sua intrinseca caratteristica di saper dimostrare il lavoro svolto. Quando si sceglie un font, infatti, tutti ignorano che per sceglierlo si è diventati ciechi davanti a un computer, che si è letto fino alla nausea o che si è guardato il lavoro altrui per trovare nuove idee fino alla denuncia per stalking. Quando invece si disegna, allora cambia tutto. Ci si perde subito in domande tipo “ma come hai fatto?” Oppure in espressioni di ammirazione tipo “madòh bellissimoh!”.
Se, però, da un lato la figura dell’illustratore suscita tanti followers, è altrettanto vero che la fama ha sempre un prezzo da pagare. Quanti di voi, infatti, possono dire di non aver mai chiesto all’amico o all’amica che sapevano disegnare di fargli un ritratto del proprio cane ormai scomparso da tempo o di disegnargli la “grafica” per la partecipazione delle nozze del cugino “che tanto che ci vuole ci metti un attimo”?
Questa è la principale causa di morte degli illustratori: non essere pagati per il lavoro svolto.
Recentemente, questi abili professionisti sono diventati molto richiesti. Un po’ per compensare le mancanze professionali di qualcun altro, un po’ perché ciò che si vede si vende sempre meglio. Molti si improvvisano come grafici pubblicitari o brand designer, ma non sempre i risultati sono entusiasmanti. Possedere buon gusto non è sufficiente per realizzare un progetto. Ma sicuramente aiuta.
Ora che abbiamo fatto chiarezza sulle basi, possiamo anche fermarci a riprendere fiato. Nella prossima filippica vi parlerò di altre mitologiche figure, che vivono ai margini della società civile in tane illuminate appena dalla luce asettica di un neon, circondati da un alone di mistero e di tetra leggenda. Praticamente parleremo dei programmatori.
Chi è Salvatore Mattozzi
Classe 1955. Nato a Napoli.
È disegnatore, fumettista, illustratore, fotografo, videomaker, grafico, giornalista.
Salvatore Mattozzi è uno degli illustratori più prolifici dello scenario editoriale italiano che dal 1976 vanta collaborazioni per i principali quotidiani, settimanali e mensili nazionali tra cui Il Corriere della Sera, Il Mattino, Il Sole 24 ore, Campus Web, Happy Web, L'automobile, Il Male, L'Espresso, Class. Ha realizzato copertine per libri editi da Mondadori, Pironti, Liguori. E non è tutto.
Il suo libretto scolastico lo indirizzava, al termine delle scuole medie, verso il Liceo Artistico ma, avendo avuto votazioni basse dovette ripiegare verso il Liceo Scientifico. Solo un paio d’anni dopo si presentò da privatista per accedere al Liceo Artistico iniziando dal II anno. Dopo una lunga frequentazione come studente di Architettura, lascia l’Università per iniziare a prendersi la sua vita.
Il suo percorso professionale è fatto di innumerevoli tappe che si sono avvicendate tra di loro con una cronologia che talvolta si accavalla, si dirama, si allunga e allarga verso varie esperienze che non possono non collocarlo in quella fascia di creativi poliedrici che hanno lasciato traccia un po’ ovunque nel campo della comunicazione.
Qualcosa delle sue esperienze
Iniziò a lavorare nello studio di progettazione del padre architetto che realizzava importanti edifici di Napoli.
Disegnatore tecnico ma anche costruttore di modelli plastici per importanti società. Una passione che a Salvatore Mattozzi gli è rimasta portandolo a riprodurre in scala la stazione della metropolitana dei Campi Flegrei in maniera maniacale e iperrealistica. Colorandone anche con l’aerografo alcuni dettagli. Ma questo lo fa per se stesso. Dal 2017.
Per un periodo lavorò a Radio Spazio Uno come autore di programmi tra cui Strazionissimo che si ispirava alla nota trasmissione Alto Gradimento di Arbore e Boncompagni. Lì entrò in contatto con i rappresentanti di case discografiche che notarono alcuni suoi disegni appesi alle pareti della radio e, da cosa nasce cosa, conobbe Roberto Davini che lo presentò negli uffici della casa discografica RCA dove iniziò a realizzare alcune copertine e successivamente anche per CGD Messaggerie Musicali, Bideri, Wroom.
Suo è Roghetto il diavoletto che disegnò come mascotte per RAI Radio1 di cui realizzarono un gadget che girava nelle redazioni della radio.
Su invito del giornalista Luciano Scateni, iniziò a collaborare per Paese Sera.
Nel 1979 partecipa alla prima edizione del Napoli Comics con una tavola su Stankimort, un omino che acquisiva poteri da super eroe per risolvere i problemi di Napoli ingerendo un semplice chicco di caffè. Grazie al successo del personaggio frutto della fantasia dello stesso Mattozzi, si aprirono le porte del maggior quotidiano del Sud, Il Mattino, che gli pubblicò nel 1981 un inserto di otto pagine dal titolo Super uomini si nasce.
Nel frattempo l’organizzazione della Napoli Comics, gli affidava la realizzazione del manifesto delle edizioni successive della mostra-concorso del fumetto.
Un giovane “Armando Testa” partenopeo cresceva.
Al Mattino ci resta. Anzi, gli affidano la sua postazione dove disegnare per lavorare alla rubrica Mattino ragazzi e poi nel 1986 parte il progetto W la bici dove per la prima volta vengono illustrati itinerari cicloturistici in Campania e da Mattozzi stesso individuati in quanto è sempre stato appassionato di bici, natura, storia, archeologia.
Quel suo Stankimort intanto continuava a viaggiare su altre onde, anzi, su veri chicchi di caffè perché divenne testimonial per il caffè Cirio col primo importante contratto di lavoro.
Per la pubblicità firma inoltre i manifesti per il Comune di Milano, per A2A Energia, per alcune edizioni di Innamorarsi a Napoli e Domenica ecologica e altri lavori per il Comune di Napoli.
A cavallo tra la fine degli anni ’80 e la prima metà dei ’90, Salvatore Mattozzi firma le copertine dei supplementi settimanali del Mattino: La Domenica e L’Agenda del Sole.
Nel 1999 cosceneggiatore con Sonia Bruno e Francesco Esposito, realizza le tavole per il libro La rivoluzione che non fu; Napoli 1799 pubblicato da Liguori Editore. Con ritmo serrato, ironia, tagli delle inquadrature delle strip da videoclip, colori forti.
L’alta velocità ai tempi delle chine e della carta
Praticamente entra nelle grazie del direttore del Mattino, Pasquale Nonno, e durante la Guerra del Golfo l’art director del giornale, Carlo Monti, lo incarica di realizzare le tavole che illustrassero la posizione dei mezzi militari. Quasi in tempo reale.
Si lavorava ad alta velocità e a mano. Disegni su carta. Alle 15.00 dal corrispondente a Baghdad arrivavano le informazioni. Per le 17.30 dovevo consegnare il lavoro per l’edizione di mezzanotte. Il tutto si ripeteva alle tre del mattino per l’edizione aggiornata che usciva all’alba. Perché nel frattempo truppe e carrarmati si erano già spostati.
Anche di domenica. Giorni di vacanza che saltavano. Poi l’arrivo del computer, del digitale, anche se all’inizio è stato traumatico, mi fece capire che potevo aumentare la mia velocità implementando l’analogico con la tavoletta grafica.
Nel periodo analogico Salvatore Mattozzi lavorava con chine, pastelli acquerellabili, areografo. “Per le copertine dei dischi i colori avrebbero contrastato troppo se non avessi usato l’aerografo per rendere le sfumature giuste.”
Nel 1993 Piergiorgio Malone, rinomato designer della grafica italiana e progettista grafico di importanti giornali nazionali, invita Mattozzi a passare al digitale.
I “frottage” di Salvatore Mattozzi
La stampa chiamava “frottage” alcuni lavori di Mattozzi ma in realtà erano fotomontaggi realizzati con tecniche miste: ritagli di fotografie con interventi grafici. Tecnica utilizzata da artisti del ‘900 tra cui Henri Matisse, John Heartfield, Hannah Höch.
Fotomontaggi che poi, grazie al digitale, gli hanno consentito di essere più veloce affinandone la tecnica.
Come gli inserti per il Corriere in occasione dei 40 anni di Sanremo.
tecnica- collage fotografico su carta Il Mattino - Mercoledì 8 Gennaio 1997
© Salvatore Mattozzi
Un artista?
Chine, aerografo, pastelli, fotomontaggi… Salvatore Mattozzi ha avuto nel suo percorso professionale la capacità di rinnovare il suo stile. A differenza di altri ben noti illustratori e vignettisti che sono sempre riconoscibili probabilmente per esigenze commerciali, Mattozzi ha sempre scardinato la sua creatività avventurandosi tra reminiscenze culturali e artistiche che lo hanno formato. Nelle sue illustrazioni si intravedono influenze jacovittiane, disneyane, di Bruno Bozzetto, di un certo filone della Pop Art, un po’ di Cubismo, fino a giungere al suo ultimo periodo in cui è fortemente presente lo stile Futurista.
Perché Mattozzi è un appassionato di cultura con una folta libreria i cui libri spaziano dall’archeologia all’arte, dalla fotografia all’architettura, dall’ambiente alla storia e tanti input non possono non dargli spunti alimentando quel prolifico laboratorio di creatività che è nella sua mente.
E il mondo di Mattozzi non è solo fumetto, illustrazione, fotografia, documentari realizzati per la RAI con Mario Franco e Aldo Zappalà ma anche impegno sociale, archeologico e per l’ambiente in quanto promotore dell’Associazione Gruppo Archeologico Napoletano con la quale realizza la prima carta archeologica dei Campi Flegrei e dei Monumenti storici dei Camaldoli e collabora con il Club Alpino, Lega Ambiente, Cicloverdi, WWF.
Ha esposto in varie occasioni i suoi lavori presso lo Studio Morra, al Goethe Institut, all’Institute Francaise de Naples Grenoble.
Non sono io a definirmi artista. Non potrei mai essere uno che dice “sono un artista”. Se lo sono, lo lascio dire ad altri.
La pensione
Salvatore Mattozzi è ormai in pensione ma resta attivissimo. Circondato da qualcuno dei suoi trentacinque gatti ai quali ha dato nomi di grandi aziende, continua a lavorare per se stesso. Schizzi, disegni, progetti, video, cartoni animati.
Una virulenza creativa addirittura accresciuta nel periodo del lockdown pandemico.
Per me non c’è bisogno dello psicanalista. Esprimo i miei problemi, paure, angosce, crisi esistenziali esorcizzandole attraverso il lavoro… di quest'ultimo periodo è tutto materiale inedito, mai pubblicato e che nessuno vedrà mai.
La prossima mostra
In occasione dei 130 anni di Il Mattino, alcuni lavori di Salvatore Mattozzi saranno esposti al Circolo della Stampa di Avellino.
Inaugurazione il 12 marzo alle ore 17.30
Corriere della Sera - CorrierEconomia lunedì 9 gennaio 2012 disegno digitale su tavoletta grafica © Salvatore Mattozzi