Luigi Colombo //
Fake news, perché cadiamo in errore
Perché contribuiamo inconsapevolmente a diffondere bufale anche su temi di forte interesse sociale?
È inutile negarlo, ci siamo cascati qualche volta anche noi. Abbiamo condiviso un post su Facebook o inoltrato un messaggio con WhatsApp alimentando la classica “catena di sant’Antonio”. E abbiamo scoperto solo dopo che si trattava di una notizia totalmente infondata: una fake news.
Il problema è che, senza accorgercene, talvolta contribuiamo a diffondere bufale anche su temi di forte interesse sociale: basti pensare a quello che sta accadendo in questi giorni rispetto alla comunicazione sul conflitto in Ucraina, o ciò che è accaduto con la pandemia Covid o per i cambiamenti climatici.
Nei giorni scorsi è stata pubblicata l’ultima indagine condotta da Ipsos, per Italian Digital Media Observatory, che ha analizzato la capacità delle persone di distinguere bufale e fake news. Il 73% degli intervistati ha dichiarato di essere in grado di riconoscerle (l’80% tra i più giovani), ma solo il 35% crede che le altre persone siano in grado di distinguere notizie vere da notizie false. Eppure, il campione non si dimostra così attento quando è chiamato a dire la sua su fatti totalmente inventati: il 39% crede che la comunità scientifica sia molto divisa sulla crisi climatica; il 29% che l’uso frequente del forno a microonde aumenti il rischio di diffusione di onde elettromagnetiche nocive per la salute e il 13% addirittura che dietro lo scoppio della pandemia ci sia Bill Gates.
Insomma, siamo di fronte a un problema di non facile soluzione. Quello che è certo, è che la diffusione di false informazioni è un fenomeno crescente – online, ma con forti ripercussioni nel mondo reale – di cui si sono occupate tutte le principali istituzioni a livello globale. Per la Commissione Europea, la disinformazione è un grave pericolo per la democrazia, mentre l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) l’ha addirittura definita una infodemia globale, che al pari dei virus è altamente contagiosa e cresce in modo esponenziale.
Verrebbe a questo punto da porsi una domanda: perché anche persone apparentemente dotate di un buon livello di istruzione cadono nel circolo vizioso delle fake news? Perché noi stessi ci siamo cascati qualche volta?
Anche se il quadro di riferimento della ricerca scientifica è piuttosto recente, c’è unanimità nel ritenere che i fattori psicologici dei singoli individui siano una componente decisiva nei meccanismi di diffusione della disinformazione. Questo avviene in particolare tramite le piattaforme online, immersi in quella che Eli Pariser ha definito Filter Bubble: isolati in una bolla culturale o ideologica, di fatto, ignoriamo tutto il resto e l’ideologia ha la meglio sulla realtà. Siamo per Lee McIntyre nell’era della post-verità e dobbiamo capire come uscirne indenni.
Abbiamo già visto in questo articolo come i meccanismi propri dell’influenza sociale condizionino i nostri comportamenti e le nostre decisioni. Può tornare utile riprendere la prospettiva memetica e quelli che Richard Dawkins chiama meme: i “geni” di una cultura – informazioni e comportamenti - che hanno permesso all’umanità di evolversi fino ad ora, grazie alla loro capacità di replicarsi in maniera esponenziale. Proprio come dei virus, utilizzano gli individui per sopravvivere e tramandarsi. Gli ambienti digitali rappresentano l’habitat perfetto per la proliferazione dei meme e vi entriamo in contatto a prescindere dalle nostre intenzioni.
Siamo, poi, naturalmente portati a elaborare le informazioni in nostro possesso in maniera rapida e veloce grazie alle euristiche, quelle scorciatoie mentali che ci permettono di costruire un’idea su un argomento senza effettuare troppi sforzi cognitivi. E dalle euristiche è facile passare ai bias: errori cognitivi che possono portarci a diffondere la famosa “catena di sant’Antonio” senza rifletterci troppo.
Una delle scorciatoie mentali, che attiviamo facilmente mentre scorriamo il nostro feed social, è quella della disponibilità: percepiamo la probabilità di un evento in base alla misura in cui esso è disponibile e all’impatto emotivo del ricordo, piuttosto che sulla reale probabilità che questo si verifichi. Per intenderci, più un’informazione è disponibile e condivisa dagli altri, tanto più penseremo che sia questa sia reale. Qui può scattare uno dei bias di cui parlavamo, ovvero l’effetto del falso consenso: tendiamo a proiettare sugli altri il nostro modo di pensare e crediamo che le nostre preferenze, le nostre opinioni siano condivise dalla maggioranza. A questo si collega anche l’ignoranza pluralistica, l’effetto che rafforza la propensione a conformarci alle opinioni di un gruppo, anche se dissentiamo, visto che abbiamo la percezione che tutti la pensino in un determinato modo (e magari li riteniamo più informati di noi su quell’argomento).
Così, soprattutto se le nostre idee di partenza sono errate, per esperienza personale, per l’appartenenza a un gruppo, tenderanno a trovare conferma in un perverso circuito vizioso alimentato dalle tecnologie proprie dei social network.
Essendo naturalmente portati ad aggregarci in “comunità”, lo facciamo anche online – seppur non del tutto consapevolmente –, polarizzando le nostre posizioni con gruppi omogenei e chiusi, in un processo determinante nel rinforzare l’echo-chamber. Il confronto viene minimizzato ed è sempre più difficile trovare in un ambito omogeneo e chiuso, come può essere un social network, visioni alternative che possano contaminare la nostra “idea” di partenza (o per meglio dire, quella che l’algoritmo pensa sia la nostra). E chi magari avrebbe qualcosa da dire molto spesso è vittima di quella che Noelle-Neumann chiamò la spirale del silenzio: un singolo individuo è disincentivato dall’esprimere apertamente la propria posizione se percepisce che è contraria all’opinione della maggioranza.
Il rischio è quindi, come spesso accade, che personaggi incompetenti occupino spazio sui social media con dissertazioni prive di valenza scientifica, che spaziano dal complottismo alla disinformazione.