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07.11.2022 # 6176
Mauro Palumbo, cacciatore di vuoti e silenzi millenari del sottosuolo di Napoli, stupisce con Il Vuoto e la Lava

Marco Maraviglia //

Mauro Palumbo, cacciatore di vuoti e silenzi millenari del sottosuolo di Napoli, stupisce con Il Vuoto e la Lava

Lo speleologo e fotografo in mostra all‘Acquedotto Augusteo espone testimonianze fotografiche di luoghi ancora inaccessibili al pubblico

Senza nulla togliere ai fotografi subacquei, immagino Mauro Palumbo non tanto uno speleologo ma un sommozzatore che si immerge nei vuoti tufacei del sottosuolo. Senza bombole da sub ma resistendo a un‘aria che non è delle migliori. Senza pinne ma resistendo alla forza di gravità con tutta la forza e l‘agilità di braccia e gambe forti mentre si cala o risale da profondità anche di 25 metri. Muovendosi come un ragno. Con corde, moschettoni, elmetto con torcia e fotocamera.

Profondità terrestri dove il segnale GPS è impossibile e i rilievi topografici attuali si basano su quelli di anni addietro che non sono sempre precisi.

 

Mauro Palumbo con Il Vuoto e la Lava ci riserva nuove visioni del sottosuolo di Napoli. Luoghi prevalentemente inaccessibili al pubblico. Luoghi vuoti e bui che lui esplora e rivela raccontandoci, con le sue fotografie, che in realtà sono invece “luoghi pieni” perché ricchi di tracce di civiltà trascorse.

Scende tra strette pareti e improbabili cunicoli e, quando la torcia del suo elmetto illumina un ampio spazio, si sorprende lui stesso di quel che si ritrova intorno a sé.

Pareti affrescate di una chiesa, monumenti funerari del periodo ellenistico, pilastri di un acquedotto millenario, resti di finestre gotiche, dipinti giotteschi sbiaditi e usurati dal tempo: il sottosuolo di Napoli è una stratificazione di civiltà che si sono succedute nei secoli e che solo grazie a esplorazioni di esperti speleologi come Mauro Palumbo possiamo vederne alcune testimonianze fotografiche.

 

I luoghi saranno accessibili solo previo intenso sforzo economico non indifferente oppure grazie a visite speleologiche che talvolta la mia società organizza.

 

Le documentazioni fotografiche di questi spazi servono sì, a constatare lo stato dei luoghi dopo tanti anni, ma Mauro Palumbo non realizza semplici “rapporti fotografici”. Le sue immagini mostrano la tridimensionalità degli spazi esplorati attraverso un‘impegnativa sistemazione di flash supplementari talvolta supportati da gelatine colorate aumentandone la suggestività. Ricreando una luce dove le cavità prendono vita armonizzando ed esaltando i dettagli delle tracce architettoniche e artistiche del passato. Tra contaminazioni costruttive compresenti e ammassi di lava dei Vergini non completamente rimossa, tutto riemerge nelle fotografie portate in superficie.

 

Gli ambienti distrutti dalla “lava dei vergini”, la copiosa colata di fango e detriti che scendendo dalla collina di Capodimonte travolgeva tutto ciò che trovava per poi placarsi arrivata nella conca a ridosso delle mura della polis, proprio avanti alla porta della città denominata Porta San Gennaro.

 

Sedici fotografie. Le stampe, su supporto rigido di grande formato, sono esposte negli spazi del sito Acquedotto Augusteo, sospese con un sistema di cavi e tiranti in acciaio. Un dettagliato depliant con le mappe del Borgo dei Vergini e del sito archeologico, accompagna il visitatore con indicazione dei luoghi e con didascalie per ogni singola foto.

E vediamo, tra le fotografie esposte, gli Ipogei della “Lucerna” e delle “Colonne” con camere funerarie prese nella Necropoli ellenistica di Neapolis; le cavità di via Arena Sanità; l‘Ipogeo dei “Melograni”, l‘Ipogeo dei “Togati” con un altorilievo che rappresenta una scena di Fides;

 

In quelle “immersioni” uno dei suoi pensieri va a Vincenza Donzelli, fondatrice della Galleria Borbonica Sotterranea, prematuramente scomparsa quest‘anno e a cui dedica la mostra.

 

 

nota biografica

Mauro Palumbo è fotografo, speleologo e rocciatore. La passione per la fotografia nasce in ambito familiare ma le prime esperienze professionali maturano durante le esplorazioni nel sottosuolo napoletano. Pubblica le sue immagini su quotidiani on-line, riviste e libri. Di recente ha pubblicato il volume Ta Chròmata tes aphaneis - I colori del buio - Le Parche Edizioni.

 

 

 

IL VUOTO E LA LAVA

immagini dal sottosuolo del Borgo dei Vergini

mostra fotografica di Mauro Palumbo

Acquedotto Augusteo

Via Arena alla Sanitá n°5

dal 1 ottobre al 20 novembre 2022

Sabato e Domenica  10.30 - 13.00 (in altri giorni su prenotazione)

 

Contatti:

Associazione Culturale VerginiSanità

sede: via Arena Sanità, 5 - 80137 Napoli

www.verginisanita.it  | facebook, instagram associazioneverginisanita / instagram  aquaaugusta

info e prenotazioni +39 328 1297472  | mail associazioneverginisanita@gmail.com

 

Associazione Culturale Celanapoli

sede: Via Santa Maria Antesaecula 126/129 - 80137 Napoli

facebook: Celanapoli Carlo Leggieri

info e prenotazioni +39 347 5597231 | mail: carlo.celanapoli@gmail.com

 

patrocinio morale:

Municipalità 3 Stella-San Carlo all‘Arena - Comune di Napoli

 

partecipazioni:

La mostra è un evento speciale di Open House Napoli 2022 - Festival dell‘Architettura

L‘evento è parte delle Giornate Europee del Patrimonio 2022

Il sito Acquedotto Augusteo è parte di ExtraMann - Progetto OBVIA, una rete nata in collaborazione con il MANN Museo Archeologico Nazionale di Napoli per valorizzare il patrimonio culturale meno conosciuto della città.

19.12.2022 # 6187
Mauro Palumbo, cacciatore di vuoti e silenzi millenari del sottosuolo di Napoli, stupisce con Il Vuoto e la Lava

Marco Maraviglia //

Martin Bogren, fotografia blur dal sapore vintage in mostra

Fotografia umanista contemporanea del fotografo svedese che documenta con vecchie fotocamere e ai sali d‘argento

Indefinite, sgranate, mosse, volutamente sfocate, senza i dettagli che cercherebbe per necessità un fotografo pubblicitario per gli still life. Rumorose, si oserebbe dire, ma le fotografie di Martin Bogren possiedono quelle interferenze visive che conducono all‘esplorazione emozionale oltre l‘immagine. Immagini, sì, ma che a volte sembrano disegni, schizzi, rough fatti a matita, gessetto e carboncino in cui si intravede il soggetto della foto ma intorno c‘è tutto un suono nebuloso che accompagna l‘indistinto che ne coglie il volo dello scatto. Lì non sono due persone che si baciano ma è l‘universo che gioca con quel bacio. Dalle infinite sfumature sensoriali la cui intensità percettiva dipende dall‘osservatore.

Come ascoltare un brano musicale. Un percorso cerebro-uditivo attraverso il quale coglierne il volume nella sua interezza o afferrare il senso di un contrappunto. È il parallelo che fa lo stesso autore, attraversare le sue immagini come addentrarsi in quel passaggio a sinusoide, mi mima con la mano il movimento di un serpente, tra le note di un brano.

Martin Bogren sembra comporre spartiti figurativi. Ai sali d‘argento. I suoi strumenti sono fotocamere vintage di medio formato. “Cassette”, camere ottiche anche a soffietto di cui un obiettivo ossidato nella lente o una tenuta di luce precaria, fanno la differenza: il difetto che segna la foto, la personalizza, come una firma, un timbro. L‘imperfetto è il quid. Perché la bellezza non è necessariamente perfezione ma il neo che caratterizza. Il blur che cattura l‘attenzione oltre quei due secondi che normalmente impieghiamo quando scrolliamo le foto su Instagram.

Eppure si tratta di fotografie documentarie. Di istanti di vita. Quei momenti che normalmente sfuggono all‘occhio distratto che invece Bogren cerca, si empatizza con essi costruendoci in uno scatto storie che raccontano stati d‘animo da lui percepiti e ci restituisce come frammenti di sogni prima che vengano dimenticati e dissolti dalla memoria al risveglio.


Catturare l‘intimità, esprimere la fragilità, mostrare l‘impermanenza delle cose: l‘universo visivo di Martin Bogren rivela l‘illusione del mondo. Le sue immagini catturano sulla loro superficie una realtà che si dissolve, ma che l‘arte del fotografo ha saputo cogliere in extremis, furtivamente.

- Cristina Ferraiuolo



Cristina Ferraiuolo, la curatrice della mostra allestita presso la propria Spot home gallery, ha voluto allestire una sintesi dei progetti di Martin Bogren. Una retrospettiva concisa. Come un puzzle del percorso artistico dell‘artista composto dai pezzi per lei più significativi. Con grande stupore dell‘autore per essersi trovato d‘accordo sulla selezione delle foto. E vi si trovano fotografie tratte da Metropolia, Passengers, Hollow, August song e Italia.

Su un tavolo, nello spazio espositivo, un gran papiro da viaggio ma in tela, richiama l‘attenzione. Attraente, tattile, artigianale, due cinturini lo fasciano per richiuderlo e riporre quei segreti urbani emozionali: è Metropolia. Il portfolio con 16 stampe canvas 58x75 cm tratte dall‘omonimo libro che Bogren ha realizzato nell‘ottobre 2022. Una città immaginaria, luoghi anonimi, persone indefinite, sagome immerse in ambienti onirici dove, per la prima volta, l‘autore utilizza il colore.


L‘uso del colore è stato un modo per ribellarmi contro me stesso, per vedere se potevo fare qualcosa di totalmente nuovo. Con il bianco e nero ho iniziato a sapere un po‘ troppo quello che stavo facendo, mentre il colore era come una lingua straniera che ho imparato lentamente. Ma, a dire il vero, le mie immagini a colori sono molto monocromatiche.

- Martin Bogren (dal libro Metropolia)



Chi è Martin Bogren

Classe 1967. Svedese. vive tra Malmö e Berlino.

Negli anni ‘90 Martin Bogren sviluppa un approccio personale alla fotografia documentaria, seguendo musicisti e artisti svedesi sul palco, in tour e in studio. Il suo primo libro The Cardigans – Been It, pubblicato all‘apice del successo del gruppo nel 1996, rivela il suo lavoro e lancia la sua carriera.

Martin Bogren punta però ad andare oltre i lavori su commissione e il campo della musica: si concentra su

un lavoro fotografico più personale individuando e definendo il proprio stile.

Racconti intimi (Hollow, 2019, August Song, 2019), incontri di viaggio, (Metropolia, 2022, Passengers, 2021, Notes, 2008, Italia, 2016), la gioia delle prime scoperte (Ocean, 2008), o lo spleen adolescenziale (Lowlands,

2011, Tractors boys, 2013, Embraces, 2014): attraverso i suoi bianchi e neri sgranati e le sue immagini in scale di grigi, riesce a combinare un approccio documentario con una sensibile e poetica espressione della sua visione soggettiva.


Martin Bogren riesce a non sconvolgere il mondo entro cui si immerge, con educazione, sensibilità e

attenzione, con rispetto, senza giudicare – trattenendo il respiro.

- Christian Caujolle


Vincitore di numerosi premi, tra i quali il Coup de Cœur ai Rencontres d‘Arles in Francia e lo Scanpix Photography Award in Svezia, il suo lavoro è riconosciuto a livello internazionale e fa parte di diverse collezioni prestigiose, tra cui il Fotografiska Museet (Stoccolma), l‘Oregon Art Museum (Portland) e la Bibliothèque nationale de France.

È autore di diversi libri molto apprezzati e pluripremiati, tra i quali Ocean, Italia, August Song, Hollow, Metropolia.




Spot on Martin Bogren

A cura di Cristina Ferraiuolo

Dal 24 novembre 2022 al 24 febbraio 2023

Spot home gallery

via Toledo n. 66, Napoli

+39 081 9228816

info@spothomegallery.com 

www.spothomegallery.com 



22.11.2022 # 6182
Mauro Palumbo, cacciatore di vuoti e silenzi millenari del sottosuolo di Napoli, stupisce con Il Vuoto e la Lava

Marco Maraviglia //

Antologica di Robert Doisneau al Camera di Torino fino al 14 febbraio 2023

Oltre 130 fotografie ai sali d‘argento, video-interviste e incontri percorrendo la vita del fotografo e di Parigi

Il bacio

«Fermi, fermi lì per favore! Me la rifate?... Non guardate in macchina!!!». Click.

Quante volte sarà capitato a un fotografo, reporter o di matrimoni, di non avere puntato in tempo una scena con l‘obiettivo e chiedere di simulare nuovamente un‘azione. Magari sistemando qualche dettaglio come l‘inclinazione del cappello indossato dal soggetto o chiedendo di rilassare le dita delle mani. Ed è, più o meno, quel che fece Robert Doisneau quando scattò la foto del Bacio davanti all‘hotel De Ville.

Un‘icona della Fotografia entrata nell‘immaginario collettivo che può competere solo con immagini come il ritratto di Che Guevara scattato da Alberto Korda o anche con il bacio di Klimt o quello di Francesco Hayez, se vogliamo trovare analogie con la pittura.

Il bacio di Doisneau, pubblicato su Life nel 1950, fu portato in tribunale nel 1992 da una coppia che sosteneva essere oggetto della foto scattata senza il loro consenso. Fu a quel punto che il fotografo ammise che quella foto fu scattata chiedendo di ripetere la scena che gli era appena sfuggita all‘obiettivo. Ma a un‘altra coppia. Il giudice respinse l‘accusa. Nel 1993 si fece viva Françoise Bornet la donna della coppia effettivamente ritratta che possedeva una stampa di quello scatto, autografato dallo stesso Doisneau. Curiosità: nel 2005 Bornet vendette quella foto per oltre 150mila euro.

 

Per tutta la vita mi sono divertito a fabbricare il mio piccolo teatro… io non fotografo la vita reale, ma la vita come mi piacerebbe che fosse.

 

Un fotografo umanista

Nato a Gentilly, nella periferia parigina dove preferiva fotografarne la condizione umana.

Iniziò a dedicarsi alla fotografia dal 1929 e il suo primo lavoro fu come fotografo industriale e pubblicitario per la Renault fino al 1939.

Il suo stile estetico si definì fin dagli inizi con il suo modo di fare reportage teatralizzando la realtà. Se riusciva a falsificare documenti per i membri della Resistenza grazie alle sue conoscenze di litografo apprese prima di diventare fotografo, non gli doveva essere difficile falsificare la realtà. Ma per lo più i suoi erano falsi fotografici “gentili” perché non erano altro che un potenziare, esaltare qualcosa che comunque accadeva per le strade, nelle Banlieu parigine. Momenti di vita che se non avesse “falsificato” sarebbero probabilmente passati inosservati a chi avrebbe guardato i suoi scatti.

Bambini, donne, coppie, lavoratori, gente comune e genuina di periferia. Attimi di passaggio della vita di strada visti con l‘innocenza e la voglia di giocare di un bambino perché era quello il mondo che voleva vedere e mostrare.

L‘era della fotografia prima di lui documentava principalmente personaggi famosi, paesaggi urbani o naturali. Doisneau fu tra i principali esponenti della fotografia umanista, corrente francese nata dopo la guerra che mostrava particolare attenzione alla vita della gente di una società del dopoguerra che andava ricostruendosi.

Il suo occhio aveva uno sguardo spesso ironico ma mai offensivo. Tenerezza, amore, gioco, goliardia, caratterizzano le sue foto.

Il 1949 fu la nascita del programma televisivo statunitense di Candid Camera. Ma nel 1948 Doisneau già aveva sperimentato il meccanismo dell‘occhio indiscreto puntando una fotocamera su treppiedi nascosta oltre la vetrina della galleria d‘arte Romi, con la complicità dell‘amico Robert Giraud. Realizzò la serie Lo sguardo obliquo. Un dipinto di un nudo esposto in vetrina diede la possibilità di cogliere espressioni spontanee ed esilaranti dei passanti che gettavano lo sguardo su quel quadro posto di lato. Non sapendo di essere fotografati.

 

Fotografo per Vogue

E quando gli fu chiesto di collaborare per Vogue, mantenne lo stesso stile ironico nel documentare feste e cerimonie del mondo aristocratico e borghese parigino. Attimi fuggenti non costruiti, non in posa, tutto grottescamente e ipocritamente vero, e che ricordano le incisioni satiriche di Honoré Daumier.

Fotografie che comunque hanno mostrato scene della vita ricca di Parigi che prima poteva solo essere immaginata perché mai documentata fino a quel momento.

Quel periodo lo definì un “incidente di percorso”, qualcosa di cui non gliene importava un granché pensando che le foto di quella serie sarebbero state dimenticate. Sbagliandosi.

Probabilmente è stato anche il primo a realizzare servizi di moda in strada. Sempre in maniera reportagistica. Un genere di fashion-photography mai più tramontato.

 

Per se stesso

A Robert Doisneau piaceva fotografare come un appassionato fotoamatore senza lasciarsi condizionare dalla committenza. Ricercando principalmente il proprio piacere nel fotografare. Se allepoca c‘era chi usava già fotocamere maneggevoli da poco entrate nel mercato, lui preferiva, anche per il fotogiornalismo di strada, continuare a usare la 6x6 che gli consentiva l‘opportunità di avere una maggiore scelta per i crop in fase di stampa dei suoi scatti e anche per non farsi notare nel momento del click grazie al mirino a pozzetto.

Per lui scrittori come gli amici Jacques Prévert, Blaise Cendrars e lo stesso Giraud, furono quelli che gli insegnarono a vedere attraverso le loro metafore.

 

Quando trovavo un‘immagine pensavo a uno di loro, che poi era il primo a cui la mostravo. Un po‘ glielo dovevo, poiché erano stati loro a insegnarmi a vedere.

 

Fu considerato con H. C. Bresson il fondatore del fotogiornalismo di strada che oggi “chiamano” street-photography.

Per se stesso sperimentò un certo modo di fare installazioni contemporanee. Aveva una gran quantità di foto prese dal Pont des Arts dove andava spesso. Ne stampò diverse in mini-formato attaccandole sulle piastrine di un diamino, il corrispettivo del nostro “paroliere”. Alcune le divise per poterle poi ricomporre. Realizzò un patchwork di quadratini fotografici che, quando vide di aver raggiunto una certa armonia, lo riprodusse in formato più grande sottoponendo una stampa unica del Pont des Arts. Anche quello era il suo modo di giocare con la realtà. Estratta in maniera minimalista e da ricomporre tassello per tassello.

 

Mio padre si prendeva gioco della realtà di cui, in fondo, gli importava poco. A partire dalla realtà inventava un mondo più dolce, più tenero, più armonioso, più fraterno.

- Francine Deroudille, figlia di R. Doisneau

 

Robert Doisneau muore nel 1994 a 82 anni. In vita una volta misurò il suo successo in secondi:

 

300 foto a 1/100 di secondo. Tre secondi di successo in 50 anni. C‘è poco da congratularsi.

 

La mostra

La mostra presenta oltre 130 fotografie ai sali d‘argento in un percorso che comprende le sue immagini più iconiche insieme a scatti meno noti ma altrettanto straordinari, selezionati fra gli oltre 450.000 negativi di cui si compone il suo archivio.

La mostra si articola in 11 sezioni tematiche:

Bambini, 1934 - 1956

Occupazione e Liberazione, 1940 - 1944

Il dopoguerra, 1945 - 1953

Il mondo del lavoro, 1935 -1950

Il teatro della strada, 1945 - 1954

Scene di interni, 1943 - 1970

Portinerie, 1945 - 1953

Ritratti, 1942 - 1961

Una certa idea della felicità, 1945 -1961

Bistrot, 1948 - 1957

Moda e mondanità, 1950 - 1952

 

Completa l‘esposizione, un‘intervista video al curatore Gabriel Bauret e la proiezione di un estratto dal film realizzato nel 2016 dalla nipote del fotografo, Clémentine Deroudille: Robert Doisneau, le révolté du merveilleux (Robert Doisneau. La lente delle meraviglie).

 

 

 

ROBERT DOISNEAU

A cura di Gabriel Bauret

Con la collaborazione dell‘Atelier Robert Doisneau

11 ottobre 2022 – 14 febbraio 2023 | Aperti tutti i giorni

CAMERA - Centro Italiano per la Fotografia

Via delle Rosine 18, 10123 - Torino www.camera.to | camera@camera.to

Biglietti
Ingresso Intero € 12
Ingresso Ridotto € 8, fino a 26 anni, oltre 70 anni

Sconti e convenzioni: contattare www.camera.to | camera@camera.to


Robert Doisneau: Un regard oblique, Paris 1948 © Robert Doisneau


In copertina:

Robert Doisneau: Le baiser de l’Hôtel de Ville, Paris 1950 © Robert Doisneau

15.11.2022 # 6180
Mauro Palumbo, cacciatore di vuoti e silenzi millenari del sottosuolo di Napoli, stupisce con Il Vuoto e la Lava

Marco Maraviglia //

Luigi Cipriano osservatore di tracce urbane espone ventinove fotografie

Immagini scattate con smartphone, un diario urbano postpandemico che racconta un probabile mondo giovanile fatto di disagi e amori

«Non so cosa scrivere». Sembra la sintesi del dramma di uno scrittore in crisi creativa, quello di trascorrere giorni e giorni col foglio bianco avanti, senza riuscire ad andare avanti col proprio romanzo. Intanto qualcuno, che probabilmente non era uno scrittore, lo ha scritto su un muro: non so cosa scrivere. L‘ossimoro di aver scritto qualcosa pur non avendo nulla da raccontare.

È una delle tracce immortalate da Luigi Cipriano, lungo i suoi percorsi tra i luoghi dell‘avellinese, beneventano e Napoli. Scrivere, ma non solo a prescindere perché “scrivo dunque sono”, ma perché si ha qualcosa da dire. Perché c‘è chi ha bisogno di lasciare una traccia di sé. O perlomeno di un suo pensiero. Anche se consapevole di restare inascoltato. Una data, una breve poesia. Un monito.

Muri, paline dei segnali, sassi di una scogliera, tronchi d‘albero, banchi di scuola, panchine, portoni e quant‘altro diventano pagine di diario. Frammentato. “Pagine” che, se si volessero trascrivere tutte in un libro cartaceo alcune potrebbero avere un fil rouge che riconduce ai temi principali di una società fatta di invisibili. Di arrabbiati contro un sistema in cui non si riconoscono. Di innamorati di amori non sempre corrisposti. Di un mondo parallelo, vandalistico per certi aspetti, che vuole affermare una propria identità.

 

Le tracce di Luigi Cipriano sono spesso segni di un disagio giovanile. Molte delle sue foto sono state prese durante il periodo post-pandemico e la sua riflessione si è soffermata sullo stato psicologico di quei ragazzi che hanno perso due anni della loro vita tra lockdown, didattica a distanza, divieti e stop and go.

È vero, il graffitismo c‘è stato anche prima del 2020 ma alcune di quelle tracce immortalate da Cipriano, riconducono inevitabilmente a quel periodo buio della nostra vita che un adulto riesce a superare forse meglio di una gioventù che appena iniziava ad affacciarsi nel mondo. Un mondo per loro divenuto improvvisamente distopico e senza la maturità di poterlo affrontare scavalcandone i danni psico-fisici.

Due ragazze sedute a distanza “di sicurezza” sul muretto del lungomare di Napoli, su quel muro c‘è una data: 2 maggio 2020. Fino a quel giorno, c‘erano ancora forti restrizioni anti-covid. In quella data scritta a spray si avverte il disagio, la sofferenza di chi l‘ha scritta. Per non dimenticare.

Scritte, segni, poesie, che deturpano il paesaggio, su portoni, alberi, monumenti. Un mondo minimalista di un universo psicologico che si mostra.

 

Luigi Cipriano inizia un po‘ per gioco a fotografare queste tracce con uno smartphone e poi man mano si ritrova con un progetto aperto. Da poter estendere all‘infinito. Perché ovunque vi sono tracce che occupano le superfici urbane.

E lo fa con un‘osservazione lenta: slow watching. Quando camminiamo, normalmente guardiamo ma senza osservare. Distratti dai nostri pensieri, dalla meta da raggiungere, da una conversazione con un amico, senza soffermarci su ciò che attraversiamo. Abbiamo la percezione dei volumi presenti intorno a noi ma spesso non alziamo la testa per notare balconi pittoreschi. Vale anche per le visite nei musei: il pubblico non si sofferma sempre sui dettagli di un dipinto magari anche solo per capire dal tratto del pennello se l‘artista poteva essere mancino o per scovare il cosiddetto “intruso”, il gattino presente tra i piedi di un commensale di una scena.

Luigi Cipriano osserva. Anzi, legge quelle tracce. Cercando di immaginare il filone antropologico che possa esserci dietro quelle presenze. Diventa raccoglitore di pensieri, di “messaggi in bottiglia” talvolta con destinatari consapevoli.

Esistenze deturpanti ma paradossalmente silenziose e inosservate, che a volte arricchiscono l‘immaginario del suo lettore che diventa cacciatore di storie. Tracce come urla nel silenzio.

 

Chi è Luigi Cipriano

Luigi Cipriano nasce a Guardia Lombardi (AV) nel 1968, si laurea nel 1993 in Economia e Commercio con tesi di Laurea in Geografia Urbana ed Organizzazione Territoriale presso l‘università Federico II di Napoli, vive e lavora ad Avellino.
Si appassiona alla fotografia già all‘età di 16 anni, quando gli viene regalata la prima reflex (una Olympus OM10) e, successivamente, inizia a viaggiare.
La fotografia diventa il suo hobby preferito, installa in casa una piccola camera oscura dedicandosi alla stampa in bianco e nero, nel suo percorso di foto-amatore predilige, come genere fotografico: la fotografia di paesaggio, la fotografia di osservazione nei luoghi, l‘esplorazione urbana e la street photography.
Anche se ha intrapreso lo studio della fotografia da autodidatta, ha approfondito le sue conoscenze seguendo diversi seminari e workshop.

Le sue fotografie sono state pubblicate da due enti accreditati che fanno capo al Progetto del Ministero dei beni culturali e del turismo fotografia.italia.it

 

Le fotografie

Ventinove fotografie formato 30x40 realizzate con smartphone e post-prodotte con l‘App Snapseed.

Stampe realizzate con Canon PIXMA PRO-10S con inchiostri Lucia rifinite con inchiostro trasparente Chroma Optimizer.

Carta Hahnemuhle William Turner 190 Gr.

 

 

 

Tracce (2015-2022)

Di Luigi Cipriano

Rassegna Foto Art in Garage a cura di Gianni Biccari

Dal 12 novembre al 2 dicembre 2022

dal lunedì al venerdì dalle 16:30 alle 20:00
Mattino, Sabato e Domenica su Appuntamento

Art Garage

Viale Bognar, 21 Pozzuoli – Napoli


10.11.2022 # 6179
Mauro Palumbo, cacciatore di vuoti e silenzi millenari del sottosuolo di Napoli, stupisce con Il Vuoto e la Lava

Marco Maraviglia //

Denis Piel espone “Down to Earth” alla Casa della Fotografia di Napoli

Il ritorno a una dimensione naturale della vita, senza rinnegare lo stile fotografico del passato, fatto di ricerca dell‘intimo delle cose

Denis Piel ha scattato in un decennio oltre 1.000 servizi editoriali per Vogue americano, tedesco, italiano, francese, inglese, Vanity Fair, Marie Claire, Vôtre Beaute, Self e Gentlemen‘s Quarterly. Ha ritratto molte celebrità come Sigourney Weaver, Christopher Lambert, Andie MacDowell, Uma Thurman, Jamie Lee Curtis e tanti altri.

Nei lavori di moda ha una caratteristica saliente che consiste nel ritrarre i soggetti, seppur in posa, con spontaneità e naturalezza quasi fossero lì per caso e colti con scatti rubati. Un‘estetica fotografica nata dall‘evidente passione per il cinema. Quello del “non si guarda in macchina da presa” e una fotografia da lui realizzata non è che la sintesi congelata di una storia raccontata ai modelli che devono poi trasformarla in azione.

E infatti Denis Piel è stato anche collaboratore per il cinema:

 

I registi sono stati la mia ispirazione e quando ho avuto l‘opportunità di lavorare direttamente su un lungometraggio come consulente tecnico, ho colto al volo l‘occasione. Il film era Exposed di James Toback, con Rudolf Nureyev e Nastassja Kinski, nel ruolo di una modella e l‘attore Ian McShane nel ruolo di un fotografo di moda.

- Denis Piel

 

Un‘esperienza che lo stimolò a sviluppare il suo bisogno innato di “costruttore di storie” fino a crearsi una casa di produzione propria per la realizzazione di spot pubblicitari. Nel 1985 fonda e dirige la Jupiter Films, società di produzione cinematografica di successo, con cui realizza molti spot pubblicitari e documentari per clienti internazionali.

Questa cosa della naturalezza, del desiderio di non artificiare le scene delle sue fotografie con pose inusuali, non forzare la luce lasciandola naturale, quando possibile, fa ovviamente parte della personalità di Denis Piel. Schietto, spontaneo, affabile, all‘indomani del tragico 11 settembre 2001 ha sospeso il mondo di prima della sua carriera rifugiandosi con la famiglia nel suo castello francese: Chateau de Padiès, a Lempaut, nel sud-ovest della Francia.

Ci sono artisti che a un certo punto della loro vita si sentono a disagio in un mondo fatto di spregiudicate ipocrisie e avidità e, se possono, si allontanano da quell‘establishment che non sentono più ben calzato su di loro. Gauguin “fuggi” a Thaiti. Stanley Kubrick lasciò Hollywood per trasferirsi in Childwickbury Manor, fortezza che teneva alla larga qualsiasi ospite indesiderato con maniacali sistemi di sicurezza. Ma non sono che alcuni casi.

E così Denis Piel decise di dedicare gli anni successivi della vita alla natura, trasferendosi nella sua fattoria francese che era in restauro dal 1992. Riscoprendo la genuinità dei valori che può restituire la coltivazione della terra.

Piel si dedica quindi col figlio all‘agroecologia secondo i principi della permacultura e dello sviluppo sostenibile. Attività che diventa fonte di ispirazione e centro della sua attuale pratica fotografica.

 

Il titolo della mostra, Down to Earth, evoca una caduta, un ritorno all‘essenziale, al realismo, al mito dell‘origine: il progetto del fotografo è, infatti, una celebrazione della natura e della fertilità, che mette in correlazione corpi e terra, crescita e morte, rurale e urbano, natura e cultura, apparenti opposti che si compenetrano negli scatti da lui realizzati in digitale con una Hasselblad H4D a Chateau de Padiès.

- dal comunicato stampa

 

Sono gigantografie che ritraggono l‘attività dei giardini intorno al castello, con l‘estro di chi ha sempre cercato naturalezza anche nella fotografia commerciale. Terreni coltivati, boschi, prodotti del raccolto, gesti contadini, corpi maschili e femminili a riposo, talvolta nudi, come ninfe e satiri. Il tutto in un paesaggio dal tempo azzerato ma in cui si avverte il vero senso della vita.

 

Vi sono inoltre le fotografie del progetto Padièscapes, una serie inedita di Denis che rappresenta un‘estensione sperimentale di Down to Earth e focalizzato su uno specifico elemento: l‘acqua, combinata con le immagini dei fiori.

 

Con questa nuova serie ho cercato di spingermi oltre il mio modo sicuro di produrre immagini, varcando nuovi orizzonti creativi. Usando come base un cubo d‘acqua in plexiglass (theWaterCube) mi sono divertito a giocare con i colori che, poi, si sono magicamente evoluti in Padièscapes. Il tutto senza fare uso di alcuna tecnologia, solo pura interpretazione visiva. In questo modo, ho raggiunto la tridimensionalità che tanto desideravo da bambino quando mi divertivo con i colori ricreando scenari ispirati all‘ambiente esterno. In qualche modo, è stata l‘occasione per ritrovare quell‘innocenza a cui tanti artisti vorrebbero ritornare.

- Denis Piel

 

«Denis, perché proprio un cubo e non un tronco di piramide o di esagono?» gli chiedo, «Potrebbe essere una buona idea» mi risponde sornione.

 

 

 

DOWN TO EARTH

di Denis Piel

a cura di Maria Savarese

dal 7 ottobre al 20 novembre 2022

Villa Pignatelli, Riviera di Chiaia, 200 – 80121 Napoli

Orari: mercoledì-lunedì 9.30-17.00 (martedì chiuso). La biglietteria chiude alle 16.00

Biglietti: intero 5€, ridotto 2€ (18-25 anni), gratuito under 18 e categorie secondo normativa vigente (cultura.gov.it/agevolazioni).

Contatti: drm-cam.pignatelli@cultura.gov.it, +39 0817612356

museicampania.cultura.gov.it



21.10.2022 # 6164
Mauro Palumbo, cacciatore di vuoti e silenzi millenari del sottosuolo di Napoli, stupisce con Il Vuoto e la Lava

Marco Maraviglia //

Pino Levano in mostra con Corpo Eretico/Project

Tracce di viaggi dell‘anima assediata da sacrifici, sfide e sofferenze che raggiungono il buio ma riscattandosi

Chi è Pino Levano

Pino Levano, classe 1974. Orgogliosamente di Napoli Est, «teatro di incontro e scontro fra culture diverse. La periferia come laboratorio di identità non/finite».

Da ragazzino smonta la fotocamera Kodak del padre per cercare probabilmente chissà quali segreti nascosti in quell‘oggetto. Poi, quando è ancora alle scuole medie, gli regalano una compatta analogica e inizia ad appassionarsi alla fotografia.

Si diploma al Liceo Artisico e poi si iscrive al corso di pittura dell‘Accademia di Belle Arti di Napoli dove, tra i docenti, c‘è Adachiara Zevi (figlia di Bruno) che contribuisce ad aprirgli un mondo diverso, con dinamiche creative opposte rispetto a quelle che stava seguendo in maniera più individuale e convenzionale.

Le conoscenze pittoriche lo aiuteranno poi a impostare l‘estetica per i suoi lavori fotografici a venire.

Di grande curiosità introspettiva dell‘animo umano, Pino Levano sperimenta nel corso degli anni varie tecniche espressive artistiche prima di approdare al suo ultimo lavoro: Corpo Eretico /Project.

 

Ricerche e sperimentazioni

Fotografia, stucchi, polveri, video, disegno, pittura, assemblaggi di materiali recuperati, manichini, sono state tutte sperimentazioni con il latente e persistente interesse della “geografia umana”, data la sua indole sensibile ed empatica.

Nel 1997 si laurea con la tesi Il cinema di Peter Greenaway – pittura, composizione, simmetria in cui analizza la filmografia dell‘artista. Incontra il britannico Greenaway in occasione di uno spettacolo al teatro Politeama che gli regala due ore di visione delle prove generali e Levano ne resta ulteriormente affascinato dalle sue contaminazioni espressive.

È il periodo in cui Pino Levano indaga l‘aspetto individuale della persona.

Studia la poetica di artisti come Francis Bacon, Lucian Freud, August Sander. Individua il corpo non come contenitore a sé ma è l‘anima che indossa il corpo.

Partecipa a due edizioni di Corto Circuito. Nel ‘97 e nel ‘98. Presente in diverse mostre collettive fino a presentare Mask of breathe, una sua personale di fotografia a colori a Lacco Ameno (Ischia).

 

Ad arricchire il suo background artistico è l‘esperienza di consulente designer a 360° per un‘azienda che si occupava di realizzare paramenti sacri. Un “jolly creativo” che disegnava oggetti sacri anche per il Vaticano, li fotografava occupandosi della loro comunicazione cartacea e WEB. E mi piace pensare che tra talari, candelabri, tabernacoli che disegnava, non abbia immaginato un proprio confessionale ideale. Perché adesso finalmente vi racconto quel che ho capito di Corpo Eretico /Project…

 

Corpo Eretico /Project

Come raccontarsi in un confessionale.

L‘esercizio dell‘empatia matura ulteriormente nelle ore di insegnamento scolastico durante le quali Pino Levano entra in contatto con chi è totalmente avulso da conoscenze artistiche. Il dialogo, detto alla Erich Fromm, è un dare e avere. Disinteressatamente e con la massima attenzione e predisposizione all‘ascolto. Ascoltando magari ciò che non viene detto tra le parole. Ascoltando le vibrazioni, il timbro, il tono della voce. Cercando di non lasciare adito alle proprie interpretazioni ma di sintetizzare e sublimare l‘essenza di una “confessione”.

Levano inizia a ideare Corpo Eretico durante la pandemia. Il contatto con una persona cara colpita da Alzheimer lo avvicina a quel concetto di “anima indossata dal corpo”. Il corpo è solo un involucro che cela un mondo spesso sconosciuto. Un libro chiuso. Da aprire per leggerlo e con una narrazione che può cambiare, trasformarsi a seconda delle vicende che accadono.

Accade, per una serie di coincidenze e connessioni interpersonali, che Pino Levano entra in contatto con persone che iniziano a raccontargli storie intime della propria vita. Storie maledette. Storie di sacrifici, di rinunce, di malesseri non sempre superati. Emarginazione, mobbing, trapiantati, tragedie familiari, desiderio di un figlio mai avuto…

Ma molte di quelle storie hanno comunque arricchito la personalità e la coscienza di chi le ha vissute. Esorcizzandole, dopo la caduta morale, spirituale, si sono rialzate.

 

La fantasia abbandonata dalla ragione genera mostri impossibili: unita a lei è madre delle arti e origine delle meraviglie.

- Francisco Goya in riferimento alla sua incisione “Il sonno della ragione genera mostri”

 

Pino Levano decide allora di ritrarre queste storie. Sì, avete letto bene: ritrarre storie. Perché non si tratta di osservare i soggetti umani nelle immagini, ma i loro abiti invisibili del vissuto interiore. Qualcosa che si può scorgere, intuire, presumere. La presenza degli oggetti di scena nelle immagini possono aiutare a comprendere il senso delle storie. Oggetti e materiali allegorici, metafore della drammaticità trapelante. Intima. Non rivelata platealmente. I segreti restano nelle immagini, la codificazione resta criptata in corpi intenzionalmente derotizzati. L’osservatore è destinato a farsi domande sapendo che non avrà risposte certe se non direttamente dalla voce della persona ritratta.

Sono fotografie realizzate tutte a casa dei “confessati”. Un drappo di stoffa come fondale, poche luci preferendo spesso quella ambiente e il resto accadeva sequenzialmente durante le riprese.

E infatti è sulla sequenza che Levano pone l‘attenzione:

 

Non sono scatti unici ma sequenze. Riferimenti narrativi ripresi come storyboard. Indulgiare sul momento è perché si sta raccontando qualcosa di importante. I tempi dell‘azione sono prolungati perché sta avvenendo qualcosa che fa parte del tempo stesso.

- Pino Levano

 

Da ragazzino smontò la Kodak del padre per cercare chissà quali segreti nascosti. Adesso è custode di segreti più intimi e complessi. Senza aver smontato corpi umani ma semplicemente accogliendoli in quel suo confessionale immaginario.

 

 

 

Corpo Eretico / Project

Di Pino Levano

Coordinamento artistico di Gianni Biccari

FOTOARTinGarage

P.co Bognar, 21. 80078, Pozzuoli (Na)

Dal 22 ottobre all‘11 novembre 2022

Inaugurazione 22 ottobre h. 17.30

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