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03.03.2023 # 6218
Eve Arnold: L‘opera. Una grande mostra al Camera di Torino fino al 4 giugno

Marco Maraviglia //

Eve Arnold: L‘opera. Una grande mostra al Camera di Torino fino al 4 giugno

Conosciuta più per le fotografie scattate a Marilyn Monroe, la fotografa della scuderia Magnum determinò uno stile tecnico ed estetico indagando fenomeni della società americana e internazionale

«È stata la prima donna a entrare in Magnum» così scrivono. Come dire «è stato il primo extraterrestre a…». Una donna è una persona. Una donna che fotografa è una fotografa e credo che non conti oggi precisare il genere di chi produce immagini. Del resto stesso lei non sopportava la dizione che le attribuivano come “fotografa donna”. Eh, ma ai tempi della Magnum era altra cosa. Era il 1951 quando H. Cartier Bresson, pioniere della fotografia umanista e fondatore della Magnum, la notò e la coinvolse come freelance nella più grande agenzia fotografica del mondo per poi renderla socia nel 1957. La prima associata donna della Magnum. Ecco, ci sono cascato anch‘io, ho precisato “donna”. Era più difficile di oggi, per una donna, avere una giusta collocazione per meriti. Come Mary Jackson, la prima ingegnera di colore della NASA (1958) la cui storia è raccontata nel film Il diritto di contare.

Il merito di Eve Arnold non era essere donna ma il suo modo di osservare all‘interno del mondo. Uno sguardo che evidentemente colpì Bresson quando gli capitò di vedere i suoi scatti fatti ad Harlem in occasione delle sfilate di moda di modelle e stilisti di colore, totalmente ignorate dal fashion-mainstream statunitense, o quelli realizzati durante le manifestazioni dei Black Muslims e di Malcom X che acconsentì di farsi seguire a distanza ravvicinata durante i più importanti raduni.

Una bella botta per l‘epoca: “donna bianca fotografa neri!”. Una roba che i giornali americani non pubblicavano. E infatti quegli scatti furono stampati dal Picture Post di Londra nel 1951 e da altre riviste europee.

 

Le persone attraversano momenti della vita che, nel bene o nel male, segnano il proprio campo emotivo. Episodi che formano la persona ampliando via via il proprio background esperienziale. Tutti input che, per chi svolge lavori creativi, si riflettono sul proprio operato.

Eve Arnold, nata nel 1912 a Philadelphia da genitori russi immigrati con madre ebrea, ha vissuto una vita con grandi ristrettezze economiche. A 31 anni decide di interrompere gli studi universitari per lavorare in uno stabilimento di sviluppo e stampa di fotografia.

 

Chi ha vissuto una vita fatta di stenti, una vita in cui magari pensi che fine avrebbero fatto i tuoi genitori se avessero vissuto in Europa durante il periodo nazista, le corde dell‘anima sono toccate nel profondo. Realizzi che il mondo non è facile per tutti abitarlo e costruisci in te una certa dose di umiltà ed empatia. Eve Arnold era sensibile alla discriminazione razziale. Osservava le persone e non il loro status sociale o politico. Ascoltava le persone con gli occhi.

 

Non vedo nessuno come ordinario o straordinario.

Li guardo semplicemente come persone davanti al mio obiettivo.

 

Quando Adrian Lyne girò 9 Settimane e ½ (1986), ci fu un certo scalpore non solo per la storia ad alto impatto erotico per l‘epoca ma per il fatto che molte scene del film fossero state girate con luce ambiente. Non si era inventato nulla in realtà. Barry Lyndon (1975) di Kubrick fu interamente realizzato a luce ambiente, interni compresi. A lume di candela.

Ma già anni prima Eve Arnold fece della luce ambiente uno dei suoi cavali di battaglia. Probabilmente, forte di quell‘esperienza nei laboratori fotografici della Stanbi, una delle caratteristiche del lavoro di Eve era trascorrere molte ore in camera oscura per trattare le sue fotografie, tutte scattate senza flash. Restituendo atmosfere intense e naturali, riprese anche in condizioni di luce critica.


Marilyn Monroe in the Nevada desert during the filming of “The Misfits. USA, 1960

© Eve Arnold / Magnum Photos


Ha fatto fotogiornalismo d‘inchiesta, ha affrontato il razzismo negli Stati Uniti, ha seguito l‘emancipazione femminile, un progetto sull‘uso del velo in Medio Oriente, l‘interazione fra le differenti culture del mondo, fotografa nei reparti di maternità degli ospedali di tutto il mondo, soggetto a cui ritorna costantemente per esorcizzare il dolore subito con la perdita di un figlio avvenuta nel 1959.

Ma purtroppo è nota principalmente per le sue foto realizzate alle star del cinema: da Marlene Dietrich a Marilyn Monroe, da Joan Crawford a Orson Welles.

Una Marlene Dietrich fotografata in backstage durante la registrazione di alcune delle canzoni care alle truppe alleate. Incallita fumatrice, espressioni insolite e ironiche mai viste nei film che interpretava, Eve Arnold riuscì a tirare fuori un servizio fotografico che le aprì le porte per fotografare altre star.

«Se sei riuscita a fotografare in maniera così intima e naturale Marlene Dietrich, dovresti saper fotografare anche me» disse più o meno Marilyn Monroe a Eve quando la incrociò a una festa in un locale nel 1954. E divennero amiche per sempre. E infatti conosciamo Eve Arnold per le splendide fotografie scattate a Marilyn in vari momenti anche della sua vita intima o in quelle fuori scena fatte sul set di The Misftis che nel mentre ebbe una terribile premonizione: «Il mio ricordo più toccante di Marilyn è di quanto apparisse angosciata, turbata e ancora radiosa quando sono arrivato in Nevada».

 

Sono stata povera e ho voluto documentare la povertà; Avevo perso un figlio ed ero ossessionata dalla nascita; Mi interessava la politica e volevo sapere come influiva sulle nostre vite; Sono una donna e volevo sapere delle donne.

 

Copertina: Bar girl in a brothel in the red light district, Havana, Cuba, 1954© Eve Arnold / Magnum Photos


Accessibilità della mostra:

 

·       Un percorso tattile, che consente ai visitatori interessati, in particolare per le persone con disabilità visiva, di fare un‘esperienza tattile in piena autonomia con una selezione di sette pannelli visivo tattili posizionati in corrispondenza delle fotografie esposte. Ogni disegno a rilievo è corredato dalla relativa audio-video descrizione, attivabile tramite QR code o NFC (Near Field Communication);

·       La trasposizione audio dei testi di sala, attraverso l‘apposito QR code, che offre una descrizione sintetica delle tematiche esposte in ogni sezione della mostra;

·       Un video introduttivo sulla vita e il lavoro di Eve Arnold in Lingua dei Segni Italiana, accessibile mediante QR code o su tablet. L‘interprete del video è l‘artista Nicola Della Maggiora.

·       Inoltre, le opere esposte sono posizionate a un‘altezza media inferiore rispetto al passato cercando un compromesso fra i differenti punti di osservazione dei visitatori. Mentre si è scelto di evitare espositori con piani orizzontali per consentire una fruizione ottimale di tutti i materiali esposti anche alle persone su sedia a ruote e ai bambini.

 

 

Eve Arnold

L‘opera, 1950-1980

Dal 25 febbraio al 4 giugno 2023

Aperta tutti i giorni

CAMERA - Centro Italiano per la Fotografia

Via delle Rosine 18, 10123 - Torino www.camera.to | camera@camera.to

Orari di apertura (Ultimo ingresso, 30 minuti prima della chiusura)

Lunedì 11.00 - 19.00

Martedì 11.00 - 19.00

Mercoledì 11.00 - 19.00

Giovedì 11.00 - 21.00

Venerdì 11.00 - 19.00

Sabato 11.00 - 19.00

Domenica 11.00 - 19.00

13.03.2023 # 6224
Eve Arnold: L‘opera. Una grande mostra al Camera di Torino fino al 4 giugno

Marco Maraviglia //

Pino Grimaldi: Fotodesign. Didascalie d‘autore con immagini (1972-2017)

L‘ideatore del blur design in una insolita mostra fotografica quasi autobiografica. Un album fotografico collettivo

Didascalie con foto. Come dire «toga con avvocato» oppure «arredamento con casa» o ancora, «acqua con bottiglia». Il soggetto è contenuto o contenitore?

Pino Grimaldi è stato una delle punte di diamante dello scenario del graphic design nazionale che purtroppo ci ha lasciati giusto tre anni fa. Nel pieno delle sue attività professionali.

Pensare all‘inverso è un modo di progettare la soluzione prima che si presenti il problema. Significa andare oltre. Arrivare alla luna senza badare nemmeno al dito che la indica.

Pino Grimaldi quando iniziò a pensare questo progetto probabilmente immaginò la famosa massima di Ansel Adams «Ho sempre pensato che la fotografia sia come una barzelletta, se devi spiegarla vuol dire che non è venuta bene». Perché sapeva che questa non poteva essere un principio assoluto.

Pino aveva un altro (ma anche alto) concetto della fotografia. Con l‘avvento del digitale, si era reso conto delle opportunità che si presentavano.

 

Oggi la fotografia è totalmente digitale (i nostalgici tecnofobi se ne facciano una ragione); la fase di produzione seriale è scandita da una filiera che non è più lo sviluppo e stampa, ma è ancora molto più complessa di prima e attraversa diverse fasi.

Dell‘antica scansione binaria: Ripresa + Sviluppo e Stampa è diventata una ragnatela di momenti, tutti delicatissimi, tutti molto, molto dipendenti dalla tecnologia e dalla capacità di controllarla allo scopo di avere un output che coincida con l‘intenzione dell’autore. Anche se l‘autore, se appena è un poco consapevole, sa che il lavoro una volta consegnato al sistema dei media non gli appartiene più e va a ricollocarsi in un nuovo senso che è quello del contesto nel quale è inserito.

 

È nella consapevolezza di quella sua idea di fotografia che la immagina come fonte progettuale di design. Un‘opportunità creativa per fotografi, grafici, designer, comunicatori. Qualcosa che può non essere solo a sé stante per illustrare o documentare, ma diventare fruibile in maniera partecipata, un prodotto interattivo. Utile, come un qualsiasi oggetto di design ben progettato.

 

Pino Grimaldi aveva selezionato fotografie da lui scattate tra il 1972 e il 2017 che fermavano quarantacinque anni di alcuni momenti da lui vissuti. Documentavano sintesi di storie che solo lui o una ristretta cerchia di persone, potevano (ri)conoscere e ricordare. Le foto pubblicate sui giornali sono a corredo degli articoli, in fondo, ma Fotodesign di Pino non sono pagine di giornale con fotografie, ma è come un album di memorie fotografiche. Di quelli dove si annotano frasi, ricordi, note storiche in calce alle foto stesse. Ma con la particolarità che quelle didascalie sono scritte non da chi ha “attaccato” le foto nell‘album, ma da chi era lì al momento dello scatto o perché coinvolto per altri motivi.

Il contenuto diventa packaging. Apoteosi della simbiosi tra prodotto e suo contenitore. Quell‘album fotografico veicola storie nella sua totalità. Le foto non hanno ragione di esistere senza quei pensieri scritti.

 

E allora ecco le “annotazioni” del critico d‘arte Achille Bonito Oliva, della gallerista Lia Rumma, dell‘artista Lello Esposito e, ancora, qualcuno scrive citazioni per un ritratto fatto a Marina Abramovich durante una performance nel ‘72 alla Galleria Morra. E poi altre didascalie che accompagnano le foto scritte da Daniela Piscitelli, Giovanna Cassese, Angelo Trimarco, Massimo Bignardi, Anty Pansera, Luciana Libero, Alba Palmiero, Alfonso Amendola, Franco Tozza, Andrea Manzi, Carlo Pecoraro, Maria De Vivo, Giuseppe Durante, Paolo Apolito, Paola Fimiani, Rino Mele, Silvana Sinisi,Marcello Napoli, Cettina Lenza, Antonella Fusco, Maria Rosaria Greco, Rossella Bonito Oliva.

Tutti cari amici di Pino Grimaldi conosciuti negli anni e con i quali ha condiviso quei momenti fotografici.

 

Sono esposte trentaquattro fotografie con relative didascalie. Non hanno la pretesa di essere tecnicamente perfette. Alcune non sono state riprodotte e ritoccate per eliminare imperfezioni tecniche per ristamparle, ma sono le stampe originali ai sali d‘argento. Nude e crude, così come erano state conservate da Pino.

Ogni didascalia è accanto alla foto e occupa la stessa grandezza dello spazio della foto. Citazioni, ricordi, riflessioni, spunti di dibattiti.

 

L‘apporto di Ilaria e Daria Grimaldi, figlie di Pino, è stato fondamentale per la messa in opera di questa mostra. Ne parlavano insieme, durante la fase progettuale, e la successiva scoperta e lettura degli appunti del padre, le ha portate a definire il tutto nei dettagli per questa mostra. C‘era un‘ottima intesa tra loro e Pino credo che avrebbe apprezzato il risultato finale.

Un progetto che non resterà solo appeso alle pareti del Palazzo Fruscione di Salerno per soli quindici giorni, ma è già un libro che sarà presentato il 15 marzo alle 18.00 nella stessa sede espositiva alla presenza di Vincenzo Napoli, Sindaco di Salerno, e altre personalità del mondo dell‘arte e della cultura.

 

Pino Grimaldi è stato un grande designer che è riuscito a disegnare anche questo delizioso progetto in maniera condivisa, con empatia, con i suoi amici, pur avendoci lasciati prima. E sarà un‘occasione per i giovani graphic designer per conoscere questa sua idea e per ricordarlo insieme, tra vecchi amici, con i sorrisi nella mente.

 

Copertina: Marina Abramovich - performance Galleria Lia Rumma 1972 © Ph. Pino Grimaldi

Foto sotto: Achille Bonito Oliva - 1972 © Pino Grimaldi




 

Fotodesign-Didascalie d‘autore con immagini - 1972 -2017

Mostra fotografica di Pino Grimaldi

Dal 15 al 31 marzo Palazzo Fruscione (Sa)

vicolo Adelberga  19

Inaugurazione 15 marzo ore 17.30

Ingresso libero

dal martedì al venerdì: ore 11.00 - 13.00 e dalle ore 17.00 alle ore 20.00.

Il sabato e la domenica dalle ore 10.30 alle 20.30 in orario continuativo.

Info: comunicazione@blendlab.it

Blendlab

08.03.2023 # 6220
Eve Arnold: L‘opera. Una grande mostra al Camera di Torino fino al 4 giugno

Marco Maraviglia //

Roberto Lavini espone 13 fotografie stampate al Carbone al Museo della Fotografia di Brescia

Fotografia duratura, tattile, uno dei processi fotografici dell‘800 mostrati da vicino

È solo polvere elettronica quella che conservi. Non le vedi se non accendendo un dispositivo elettronico di visualizzazione e attivando un software. Se non c‘è corrente elettrica, restano invisibili. Qualcuno direbbe che se non si possono toccare, non esistono. Qualcun altro dice che scompaiono quando meno te l‘aspetti da un hard disk o da un dischetto. Sono le foto digitali. Facili da fare, belle da vedere ma indipendenti. Figlie che non ti appartengono se non le stampi per tenerle con te. Inserendole in un album cartaceo o per metterle in cornice appendendole a una parete. O per farne un libro. Stampato su carta!

 

Roberto Lavini, classe 1956, originario di Salerno ma che vive in un piccolo borgo a Civitella in Val di Chiana provincia di Arezzo, è cresciuto nell‘era analogica della fotografia. Pur lavorando nella fotografia commerciale e per privati, fin da ragazzo è a contatto con la camera oscura, ingranditore, bacinelle, luce rossa e chimici. Un‘esperienza che non ha mai interrotto perché gli sembrava «la strada migliore per percorrere un approccio consapevole allo studio della fotografia». Si concentra negli ultimi anni sullo sviluppo di suoi progetti creativi, condividendo le sue ricerche attraverso articoli per riviste di settore, dimostrazioni pratiche e offre servizi di consulenza per la stampa con i procedimenti alternativi a fotografi artisti.

 

Si laurea al DAMS di Bologna dove, studiando storia della fotografia, si appassiona alle antiche tecniche dei processi fotografici.

 

Quegli studi furono per me una vera fonte di ispirazione perché sentivo l‘esigenza di un maggiore coinvolgimento nel processo creativo, di “connettermi sensorialmente” con i lavori che stavo eseguendo; in pratica volevo immergermi nella sperimentazione con lo stesso fervore delle generazioni di fotografi che mi avevano preceduto. Oggi i materiali sono diversi rispetto a quelli che usavano i fotografi dell‘800, quindi ho dovuto provare a percorrere nuove strade, non ultima quella del digitale per la produzione di negativi di grande formato per la stampa a contatto.

 

Negli anni Roberto Lavini ha dovuto studiare nuovi materiali e chimici per emulare i processi fotografici dell‘800 perché nel frattempo non più disponibili anche per questioni ecologiche.

 

Dal 2017 la Comunità Europea ha vietato utilizzo dei bicromati perciò numerosi sono stati i tentativi per sostituirli con altre sostanze più sostenibili per l‘ambiente.

Il sensibilizzante Das (della famiglia dei Diazido) risponde a questa esigenza in quanto non è nocivo per l‘uomo e per l‘ambiente e in più ha un‘azione indurente sui colloidi migliore dei bicromati. Questa sostanza, con semplici modifiche al processo, ci consente di eseguire ancora ottime stampe al carbone.

 

Riguardo la produzione di negativi di grande formato per la stampa a contatto, Roberto Lavini ha percorso la strada del digitale. In un‘era ancora ibrida in cui convivono e-book e libri in carta, banconote e carta di credito, pennelli e tavoletta grafica, se la tecnologia digitale può essere di supporto per ottenere un risultato visivo finale, tattile e di qualità nel dettaglio, ben venga.

Il processo al carbone è noto per la stabilità delle stampe, in termini di durata nel tempo e per l‘ampia gamma tonale che restituisce. «Nel mondo dell‘arte e del collezionismo fotografico, le stampe al carbone sono considerate tra le più preziose». Si presentano come se fossero a rilievo, specie nelle zone dei neri, vien voglia di toccarle, carezzarle con le dita.

 

Roberto Lavini espone 13 stampe al Carbone (a colori e monocromatiche). I formati vanno dal 24x30 cm al 40x50 cm.

Senza cornici e senza passepartout. Esposte orizzontalmente all‘interno di vetrinette.

Insomma, una chicca per gli appassionati della fotografia vintage.

 

 

 

I Colori Del Carbone

a cura di Gabriele Chiesa

dall‘11 marzo all‘8 aprile 2023 (inaugurazione mostra Sabato 11 Marzo ore 17:00)

Museo Nazionale della Fotografia di Brescia

Contrada del Carmine, 2F

ingresso libero

orari:

Lunedì e Venerdì chiuso.

Martedì, Mercoledì e Giovedì ore 9:00 - 12:00

Sabato, Domenica e festivi ore 16:00 - 18:45

Info:

www.museobrescia.net Tel. 030 49137

 

 

Il 12 marzo, presso lo stesso museo, avrà luogo un workshop condotto da Roberto Lavini:

 

LA STAMPA AL CARBONE SENZA CROMO

 

·       Premessa. Ai partecipanti si richiede di realizzare ed inviare a infocorsi@cameracreativa.it entro mercoledì 1 marzo, un autoritratto (foto digitale, anche smartphone). Il file servirà per produrre la matrice 7x10,5 cm (rapporto tra i lati 1,5) che verrà impiegata per stampare, durante il workshop, un segnalibro fotografico personalizzato in bicromia al carbone. A conclusione del workshop ciascuno dei partecipanti riceverà il proprio.

·       Mattina: storia e panoramica del processo. Evoluzione e le principali innovazioni. L‘uso del DAS al posto dei bicromati. La scelta dei pigmenti, ricette e taratura degli ingredienti. Preparazione della carta carbone (tissue): mescola degli ingredienti e stesa della soluzione di gelatina.

·       Pomeriggio: esecuzione di una Stampa al Carbone BN su due strati di gelatina pigmentata. Messa a registro della Carta Carbone sulla Carta da Trasporto e Sviluppo.


"Prometeo" - stampa al carbone © Roberto Lavini


In copertina: "Magic bus" - stampa al carbone © Roberto Lavini

23.02.2023 # 6217
Eve Arnold: L‘opera. Una grande mostra al Camera di Torino fino al 4 giugno

Marco Maraviglia //

Rossella Mutone espone “in Fede”, 29 fotografie bianconero all‘Art Garage

Tra sacro e profano, la religiosità di Napoli espressa attraverso una ricerca visiva dell‘autrice

Napoli è la città italiana con più chiese dopo Roma. È detta “la città delle mille chiese”.

Chiese medievali, rinascimentali, barocche, chiese sconsacrate, chiese chiuse, interi monasteri destinati ad attività ludico/sociali, c‘è persino la copia della Basilica di San Pietro del Vaticano… Ma quanta religiosità c‘è qui?

 

C‘è traccia di religiosità a Napoli visibile in ogni angolo del centro storico. Edicole sacre, piccole o grandi statue di Padre Pio innanzi ai bassi. San Gennaro è dipinto sui muri in tutte le salse: di fianco a Caravaggio, con la mascherina, in versione Superman o in versione da guerriero di Jorit.

Fedele, laica, prosaica, profana, superstiziosa, passionale, festaiola, la religiosità napoletana è una filosofia a sé. Perché contaminata da credenze popolari, danze e riti mistici.

Anche chi non è un cristiano praticante, o forse nemmeno credente, si infila nel portone della Chiesa del Gesù Nuovo per lasciare un obolo e farsi il segno della croce davanti la tomba di Giuseppe Moscati. Il medico Santo.

Chi non va a messa, chi non si confessa, non si perde comunque la liquefazione del sangue di San Gennaro. Perché a volte non si tratta di essere fedeli ma di far parte di quel sottile fil rouge che unisce sotto lo stesso cielo i più superstiziosi. Se il sangue non si scioglie, il napoletano come minimo tocca scaramanticamente la punta del “corniciello” che ha probabilmente in tasca.

E poi le capuzzelle di Napoli. I teschi della chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco o quelli del Cimitero delle Fontanelle alla Sanità. Da adottare, omaggiare con una monetina, un rosario o l‘icona di un santino. Tra grazia ricevuta, desideri di vincite al lotto e di buona salute.

 

È in questo contesto che Rossella Mutone indaga la religiosità di Napoli fotografando in solitudine e con discrezione attimi di intimità.

 

Ho cominciato a notare che le chiese con le loro luci e le loro ombre, i volti dei fedeli assorti a pregare non durante una messa ma in situazioni intime attiravano la mia attenzione. Sarà che amo entrare nei luoghi di culto quando non c‘è quasi nessuno perché mi sembra di sentire maggiormente la presenza e la vicinanza ad un‘entità superiore, sono cristiana ma non praticante alla ricerca di risposte.

 

È un lavoro di ricerca visiva iniziato nel 2018, interrotto causa pandemia e poi ripreso.

Immagini che rappresentano devozione per i santi, idolatria per simboli religiosi, una città che venera Maradona come un Dio, o adotta una capuzzella coltivando un amore mistico per l‘anima di uno sconosciuto.

E Rossella sviluppa questa ricerca su più percorsi le cui sezioni restituiscono l‘insieme: Riflessioni, Devozione, Simboli ed esoterismo, Idoli e credenze.

 

Fotografie con riflessi che fondono i confini del quotidiano con quelli religiosi in atmosfere che si sospendono in un tempo mentale senza tempo.

Devozione, dettagli, campi lunghi, presenze di luci divine. Persone che pregano. C‘è chi in raccoglimento religioso quasi sembra che si sia appisolato nel silenzio di una chiesa.

Ecco: silenzio. Il silenzio è l‘anima portante di queste fotografie. Dove già lo stesso silenzio che ci arriva osservandole, è qualcosa di mistico ed esoterico.

Non sono fotografie prese durante le messe. Sono talvolta scatti rubati. Un reportage sommesso tra esterni e interni.

Perché la religiosità non è posseduta dai confini di una chiesa. La si percepisce anche nelle strade. Tra edicole votive e altarini e murales per venerare Maradona.

Tra sacro e profano.

 

 

 

in Fede | Napoli ricerca fotografica di Rossella Mutone

Art Garage

Viale Bognar 21 Pozzuoli

Inaugurazione Sabato 4 marzo ore 18

Ingresso Libero.

Fino al 17 marzo 2023

Lun > Ven 16,30-20.00 Sabato e Domenica su appuntamento.

Nell‘ambito di FOTOARTinGARAGE VI edizione rassegna di fotografia coordinata da Gianni Biccari.

14.02.2023 # 6212
Eve Arnold: L‘opera. Una grande mostra al Camera di Torino fino al 4 giugno

Marco Maraviglia //

Valeria Sacchetti: “Journey to the lowlands, Fra la via Emilia e il West”

Un libro foto-narrante che documenta la vita quotidiana della bassa padana dopo il terremoto del 2012

Journey to the lowlands, Fra la via Emilia e il West è l‘ultimo libro di Valeria Sacchetti, fotografa che, dall‘inizio del suo interesse per la fotografia, indaga sugli aspetti sociali della gente determinati da eventi politici e naturali.

 

Valeria, nativa di Modena e trasferitasi a Carpi, si avvicinò alla fotografia consultando libri di grandi fotografi nelle biblioteche. E comprese che il mondo andava visto da vicino, non solo attraverso i libri.

Frequentò il suo primo corso di fotografia a Bologna dove imparò anche le tecniche di camera oscura.

 

Il viaggio è una cosa seria e non serve per raccontare com‘era buono il kebab che potevi mangiare in qualsiasi città del mondo. Valeria Sacchetti, nata negli anni ‘70, laureata in storia e insegnante di lettere, ha sempre viaggiato per approfondire l‘inglese e per realizzare servizi fotografici che raccontassero storie vere, a volte misconosciute ai più. Almeno non così dentro come invece raccontano le sue immagini. (Ri)costruendo una memoria destinata a volte a dissolversi nel tempo.

 

Storie che per lei nascono da relazioni, come quando nel 2000 partì per il Cile ed entrò in contatto con una ONG fondata da donne uscite dal carcere dopo la dittatura di Pinochet. Donne che aiutavano donne. Che intraprendevano un lavoro di sindacalizzazione e sensibilizzazione per far prendere coscienza dei propri diritti sul lavoro. Per tutte le lavoratrici: dalle donne che lavoravano in casa, a chi aveva piccole botteghe e quelle che lavoravano nei campi, a rischio per i pesticidi che nel frattempo erano già stati proibiti in altri paesi.

 

Ed è in Cile che realizza il suo primo lavoro, un reportage sugli indiani mapuche.

Ma Valeria Sacchetti ha un‘indole nomade. Le piace spostarsi, viaggiare. Per studio e per lavoro. La fotografia è per lei lo strumento che le consente di conoscere storie, documentarle e raccontarle. Vive lunghi periodi anche in Irlanda, a Napoli, Roma, a Bordeaux per l‘Erasmus, in Messico, Iraq.

Va tre volte in Bosnia dove partecipa e documenta la Marcia della morte di Srebrenica.

A Belgrado realizzò un servizio su un orfanatrofio che era in uno stato pietoso. I bambini non avevano nemmeno le lenzuola, le inservienti si sentivano giustificate dal loro esiguo guadagno prendendo parte degli aiuti che arrivavano in orfanatrofio. Fu un servizio che acquistò la Caritas e la cifra guadagnata le servì per andare a Parigi e frequentare un corso di fotografia di 6 mesi presso la Spéos. Ma a Parigi ci restò per un anno dove lavorò nella compagnia telefonica mentre aspettava la borsa di studio per andare in Messico. Altro viaggio, altre storie fotografiche narranti.

 

Tornata in Italia fece un lavoro, durato cinque anni, sul movimento partigiano di Modena e provincia. Andò a scovare partigiani ancora viventi ritraendoli e facendosi raccontare i loro ricordi. Scattò loro dei ritratti nei luoghi degli episodi raccontati dagli stessi soggetti. E nacque nel 2016 il libro Generazione resistente.


Valeria Sacchetti ha sempre lavorato principalmente con pellicola bianconero e dal 2010, passando al digitale, si è trovata altrettanto a suo agio. Durante un master nel 2017 a Roma entrò n contatto con il fotografo Giancarlo Ceraudo che le consigliò di portare le sue foto a colori in bianconero comprendendo che le foto di Valeria avevano più energia senza colore.

Adesso c‘è questo suo ultimo libro, Journey to the lowlands, Fra la via Emilia e il West che traccia un percorso foto-narrante, come nel suo stile, “coast to coast” della via Emilia. L‘antica strada romana che va da Piacenza a Rimini tagliando trasversalmente in due L‘Emilia Romagna, per intenderci.

Un lavoro durato sette anni. Realizzato in zone percorse da Valeria Sacchetti fin dalla sua infanzia, lì dove sono le sue radici. Una terra dove non c‘è solo mortadella, piadina e tortellini ma che fin dall‘antica Roma è abitata da gente con il culto del lavoro e dei rapporti umani vissuti in maniera gentile, gioviale, condivisa e con umiltà.

Perché capitò che nel maggio 2012 in Pianura Padana ci fu un terremoto che in tanti hanno dimenticato. Furono colpite zone rurali, fattorie, stalle e casali distrutti e la vita di molte persone dedite all‘agricoltura, agli allevamenti e persino industrie, subì danni non indifferenti.

L‘Emilia la rossa, un po‘ contadina, luoghi di campagna. Dove non esistono più le grandi famiglie allargate. L‘Emilia usurpata negli anni anche sotto l‘aspetto industriale e ambientale, subì anche questo affronto di Madre Natura. E Valeria iniziò il suo viaggio narrante, fra “la via Emilia e il West” con fotocamera al seguito.

 

Mi interessava mostrare anche i giovani che sono tornati in campagna. Famiglie che sono anche ibride con immigrazioni dal Sud. Il mio è più un viaggio onirico legato molto ai miei stati d‘animo.

 

Durante la lavorazione, Valeria Sacchetti ha ampliato la visione del suo progetto abbracciando anche tutta “la bassa”, una zona di pianura particolare posta sotto il livello del mare, attraversata da fiumi che tracimano durante il periodo invernale con estati afose e molto umide. Un luogo che le ha sempre ispirato le atmosfere western dei film con cieli sterminati e chilometri di terra piatta.

Il sottotitolo del libro è un tributo a Guccini, originario di queste zone, che ha pubblicato anche un album nel 1984 intitolato appunto: “Fra la Via Emilia e il West”.

Lavorato in varie stagioni dell‘anno. Ha iniziato ritraendo persone che già conosceva e poi allargando la narrazione a quelle incontrate durante le sue esplorazioni creando una trama unica‘ con dieci storie di vita quotidiana di alcune delle persone ritratte.

 

Realizzato grazie a un crowdfunding con Crowdbooks, 46 fotografie tra ritratti e foto attinenti ai paesaggi delle location trattate, 112 pagine al formato verticale 20,5x27 cm, stampa in bianco e nero in  bicromia, copertina rigida.

Disponibile nelle migliori librerie di catena e/o indipendenti oppure sul sito dell‘editore all‘indirizzo: cwbks.co/journey



08.02.2023 # 6207
Eve Arnold: L‘opera. Una grande mostra al Camera di Torino fino al 4 giugno

Marco Maraviglia //

Gli Enigmi di Lino Rusciano in mostra

Inaugurazione sabato 11 febbraio al FotoArt in Garage di Pozzuoli. Le foto tra Metafisica e Surrealismo.

Il comunicato stampa di questa mostra di Lino Rusciano che mi è arrivato, è di sole quattro righe. Ma che nella loro brevità, dicono tutto.

Perché non si necessitano di spiegazioni. La Metafisica alla quale spesso si ispira il fotografo, può essere simbolica, straniante, semplicemente una ricerca di bellezza compositiva dove l‘armonia tra volumi e luci sono il significato stesso delle sue immagini. Memorabili perché inspiegabili. Specialmente quando sono attraversate da tracce di Surrealismo dove la realtà è manipolata nella stessa realtà.

«Ma quella bambola stava proprio in quel punto?», chiesi una volta a Lino guardando una sua foto; mi rispose, «Ho manipolato, c‘era ma l‘ho spostata di qualche metro per inquadrarla nella scena che volevo riprendere». Perché la realtà fosse più reale. Un‘amplificazione del reale che rende il possibile surreale.

 

La ragione può darci la scienza, ma solo l‘irrazionale può darci l‘arte. Dicevano i surrealisti. Qui, nelle foto di Lino Rusciano c‘è un connubio tra Metafisica e Surrealismo.

In esposizione ci sono trenta paesaggi marini del litorale domitio che l‘autore ha ritratto ispirandosi agli enigmi di Giorgio de Chirico. Con l‘unica differenza che gli elementi enigmatici, un materasso in gommapiuma ripiegato, una ghiacciaia da bar dismessa in mezzo la spiaggia, sono lì. Ritratti in fotografia e non dipinti. Elementi di una scenografia creata dall‘incuria dell‘uomo.

Enigmi. Costruzioni fatiscenti, erose dalla salsedine del mare. Strutture balneari viste d‘inverno. E viene in mente quando un ufficiale nazista, vedendo Guernica di Picasso chiese «Avete fatto voi questo orrore Maestro?» e il buon Pablo rispose «No, lo avete fatto voi!».

Ma nell‘orrore umano Lino Rusciano vede bellezza. La estrae in giochi di armonia compositiva, equilibri geometrici, accentuando i chiaroscuri, le ombre, evidenzia con giochi di luce le zone dove andrebbe l‘occhio in percorsi visivi musicali, dosa la vividezza del colore, alcune immagini sono portate in high key.

Un controllo di postproduzione necessario per il suo stile estetico, ormai inconfondibile, che altrimenti gli costerebbe l‘impiego di light designer del cinema per raggiungere gli stessi effetti.

 

La bellezza è armonia, equilibrio e tutto ciò che ti emoziona, la puoi trovare in tutte le cose,

anche quelle più semplici. Fotografare è anche una continua ricerca di essa.

 

Gli Enigmi di Lino Rusciano non fanno il verso ai dipinti di de Chirico. Sono emulazioni, nell‘accezione migliore del termine, espressioni personali che portano alla consapevolezza che la fotografia può e dovrebbe essere arte.

 

Credo che non esista il confine tra arte e fotografia. Infatti, a me interessa ricercare l‘arte tramite il mezzo della fotografia. La sensibilità della percezione individuale rende personale larte di ciascuno, icerco di esprimere la mia ricercandola nel mondo, nello sguardo che l‘obiettivo mi restituisce.

 

Ma adesso basta parole. Gli enigmi non è detto che vadano sempre risolti. Sono lì. Si prova ad addentrarvisi, cercando un perché, una motivazione o essere semplicemente contemplati.

 

Chi è Lino Rusciano

Conseguita la maturità classica al Liceo Vittorio Emanuele di Napoli, studia un anno a medicina. Ma il suo destino era designato verso la fotografia.

Ha una grande passione per gli animali e il suo giardino è abitato da oltre venti gatti.

A otto anni ebbe in regalo tre apparecchi fotografici con i quali cominciò a fotografare.

Appassionato di Man Ray, Bill Brandt, Yves Tanguy, Giorgio de Chirico, Dalì e il Surrealismo che hanno segnato profondamente il suo percorso.

Ha esposto in personali e collettive in tutta Italia.

 

 

 

 

ENIGMI

Fotografie di Lino Rusciano

Inaugurazione: sabato 11 febbraio 2023 alle ore 17:30

Fotoart in Garage – Parco Bognar 21 Pozzuoli Napoli

Coordinamento artistico di Gianni Biccari

L‘esposizione resterà aperta dall‘11 al 24 febbraio con il seguente orario:

tutti i giorni 16.30-20.00 (domenica chiuso)

Ingresso libero

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