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17.04.2023 # 6249
Gianni Berengo Gardin. L‘occhio come mestiere

Marco Maraviglia //

Gianni Berengo Gardin. L‘occhio come mestiere

Oltre 200 fotografie che raccontano l‘Italia dal dopoguerra a oggi. Un mondo estinto o che sta scomparendo

Tenetevi forti! L‘uomo da quasi 2milioni di scatti fotografici è qui.

Quello che non usa mai il 50 mm perché preferisce il 35 mm per stare più dentro la scena. Quello che timbra dietro le sue stampe fotografiche “vera fotografia”, antagonista del digitale, perché lavora solo con pellicola e stampe ai sali d‘argento. Perché solo così sa che può toccarla e avvertirne il possesso. È il fotografo dai quasi 260 libri pubblicati tra cui 30 con il Touring Club Italiano. Perché i giornali lo facevano lavorare poco anche se ha collaborato con riviste come Domus, Epoca, Le Figaro, L‘Espresso, Time, Stern.

È quello che, dopo aver fotografato Giuseppe Ungaretti durante una manifestazione studentesca a Venezia, la polizia caricò e un poliziotto gli spappolò il pollice con una manganellata. E gli è rimasto il bitorzolo. E anche la foto del poliziotto che immortalò con la sua Leica mentre era rincorso.

Quello che ebbe da Ugo Mulas un simpatico rimprovero perché non conosceva la differenza tra una fotografia bella e una buona fotografia.

È quel fotografo che quando propose le sue prime fotografie di Venezia, otto editori che contattò gliele bocciarono perché non era una Venezia “turistica”. Ma gli pubblicò il libro un editore svizzero e fece il botto.

 

Eh sì, c‘è Gianni Berengo Gardin a Napoli. Classe 1930. In realtà a Napoli c‘è già stato diverse volte di persona per fotografare e alcuni degli scatti che ha fatto, sono presenti tra le oltre 200 fotografie in mostra alla Casa della Fotografia in Villa Pignatelli andando a implementare le immagini già esposte al MAXXI di Roma nel 2022.

Si suggerisce di andarci con un paio di tramezzini e acqua per osservarle tutte con calma.

Perché non è una passeggiata. Cioè sì, lo è ma lunga, nello spazio e nel tempo. Perché si attraversa l‘intero stivale, da Nord a Sud, dagli anni ‘50 a oggi.

Una faticata? No. Un piacevole viaggio che inizia dalle gigantografie che ritraggono i dettagli del suo atelier mansardato. Ordinato in maniera quasi maniacale: in una di queste foto non si vede perché è in bianconero, ma gli attrezzi per bricolage ritratti sono tutti dipinti in rosso per avere un certo ordine. Un ordine forse scaturito da un‘esperienza sgradita, se non traumatizzante: di quando durante un trasloco perse alcune foto che fece a Parigi, comprese quelle fatte a Jean Paul Sartre.

E poi si attraversano le altre sale con fotografie esposte in un percorso volutamente non cronologico. Ragazzi che ballano in spiaggia con un vecchio grammofono; un lungo bacio di una coppia sotto i portici e la durata di quel bacio è determinata dai piccioni a terra che sono mossi.

 

Sono un guardone. Il fotografo deve essere un guardone, un curioso, con uno sguardo che vada oltre la fisicità dei soggetti.

 

Le foto di Gianni Berengo Gardin sono tutte rigorosamente in bianconero. Perché è cresciuto col cinema, la tv, la fotografia in bianconero e il colore, come lui e altri grandi fotografi della sua generazione sostengono, distrae l‘attenzione dalle scene ritratte.

Nelle sue immagini vediamo un mondo che, per certi versi, sta scomparendo o è già finito. È la missione consapevole e progettuale di Berengo Gardin: lavorare per l‘archivio per tramandare ai posteri il “come eravamo”.

Come stava, cosa faceva, come viveva la gente nelle città italiane. Per le strade, sulle spiagge, durante le feste, i lavori in strada o, come quella di un basso napoletano da lui immortalato: un negozio di scarpe nella casa.  I villaggi Rom, i luoghi rurali, l‘Aquila colpita dal terremoto, i personaggi che ha incontrato come Cesare Zavattini che scrisse per lui alcuni testi dei suoi libri, Peggy Guggenheim, Sebastiao Salgado, Ugo Mulas, Dario Fo… E poi, gli operai delle fabbriche e dei cantieri. Indagini sociali e urbanistiche di un‘Italia che andava rinnovandosi, si trasformava durante il babyboom, fino a giungere negli ultimi anni alle foto di denuncia delle grandi navi a Venezia.

 

Amavo molto Venezia, poi è stata assassinata dal turismo.

 

Documenti fotografici che fanno ormai parte dell‘iconografia del Belpaese. Come le immagini realizzate per l‘Olivetti che mostrano l‘umanità della fabbrica con spazi destinati a servizi sociali e culturali per le famiglie dei dipendenti.

O quelle sulle condizioni dei degenti nei manicomi italiani, realizzate per il libro Morire di classe, in tandem con Carla Cerati. Immagini struggenti che sensibilizzarono ulteriormente l‘opinione pubblica e lo stesso Franco Basaglia che si batté per la Legge 180.

Alcuni suoi libri già documentano un‘Italia che non c‘è più, altri saranno documenti per il futuro.

 

Il vero DNA della fotografia è la documentazione.

Non sono un artista, non voglio passare per un artista, assolutamente… io sono uno che racconta quel che mi succede intorno, sono un testimone della mia epoca.

 

La fotografia per Gianni Berengo Gardin, non è un divertimento, ma un vero e proprio impegno sociale. Non ha frequentato scuole di fotografia, si è formato dalla lettura dei libri, entrando in contatto con i luoghi e le realtà sociali in essi descritte. A tal fine, furono per lui utili persino le figurine della Liebig di cui possiede ancora la collezione. E poi ha imparato da centinaia di libri di fotografia. Di vecchi fotografi e qualcuno tra i più giovani. E considera suo maestro assoluto Willy Ronis (1910-2009) per l‘aspetto della fotografia umanista.

 

L‘Italia di Giani Berengo Gardin è un mondo che scompare e, per certi versi è già finito. Come disse Goffredo Fofi, nelle sue fotografie vi sono volti dell‘epoca che non esistono più. Quelle espressioni di un popolo povero ma felice, laborioso in cerca di riscatto, creativo, intraprendente, è un‘altra storia.

Ma nulla scompare per sempre. Perché restano come testimoni gli oltre 250 libri che Gianni Berengo Gardin ha pubblicato. A volte collaborando con fotografi come Gabriele Basilico, Luciano D‘Alessandro, Ferdinando Scianna, l‘architetto Renzo Piano.

E alcuni di quei libri sono esposti in questa mostra, da vedere da soli o con i figli. Per mostrar loro “come eravamo”.

Magari inquadrando il QR code per essere accompagnati dalla voce di Gianni Berengo Gardin che racconta in prima persona aneddoti e ricordi legati alla sua vita personale e professionale.

 

 

 

L‘occhio come mestiere, Gianni Berengo Gardin

a cura di Margherita Guccione, Alessandra Mauro, Marta Ragozzino

Villa Pignatelli, Casa della fotografia- Napoli,

6 aprile - 9 luglio 2023

 

Foto di copertina: Una grande nave in bacino San Marco, Venezia, 2013; © Gianni Berengo Gardin/Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia

 

UFFICIO STAMPA DIREZIONE REGIONALE MUSEI CAMPANIA

+39 081 2294478 | drm-cam.comunicazione@cultura.gov.it

UFFICIO STAMPA MAXXI

+39 06 324861 | press@fondazionemaxxi.it

UFFICIO STAMPA CONTRASTO

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11.04.2023 # 6244
Gianni Berengo Gardin. L‘occhio come mestiere

Marco Maraviglia //

Luca Stoppini, Tra il muro della terra e i martìri

Fino al 13 aprile nella chiesa di San Giuseppe delle Scalze, le alchimie visive dell’invisibile

Nulla è come sembra.

Non tutto è visibile di fronte all‘occhio guidato dalla razionalità della mente. Sei abituato a riconoscere lo spazio e il suo contenuto secondo regole e canoni standardizzati da sovrastrutture matematiche, estetiche, biologiche, esperienziali, ma non è tutto lì il mondo. Non finisce dove arriva l‘occhio.

Eppure è la stessa matematica che ci “promette” l‘infinito. Oltre il quale due rette possono incontrarsi.

È una strada, è LA strada da percorrere per superare la ragione affinché l‘irragionevolezza possa poi diventare ragione conclamata. Lì dove l‘invisibile diventi visibile.

Tra due specchi paralleli ci riflettiamo duplicandoci a perdita d‘occhio. L‘Io si annulla oltre l‘ultimo riflesso che non riusciamo a scorgere.

 

Proprio questo movimento ondulatorio fluido che la rifrazione crea è quello che io costantemente cerco di cristallizzare con le manipolazioni-distorsioni nelle mie immagini cercando di “vedere” anche quell‘immagine che la luce ha trasportato nella nostra parte inconscia e che muove le nostre emozioni più forti. Sono immagini quindi che riflettono il profondo costantemente agitato dal nostro inconscio.

- Luca Stoppini

 

Le immagini di Luca Stoppini è come se sfidassero l‘equilibrio frattale. C‘è in esse armonia e ritmo anche se lontane dall‘omotetia geometrica. Del resto, chi ha lavorato per oltre 30 anni per la Condé Nast come art director, non poteva non avere un senso rivoluzionario dell‘estetica, addestrato e maturato per catturare l‘attenzione dell‘osservatore.

Fotografie, o porzioni di esse, distorte, deformate, fino a privarle di ogni riferimento tangibile, concreto, visibile. Parti di corpo umano divengono materiale fluido, come colori a olio sulla tavolozza e da avvicinare tra di loro, componendo forme sinuose, tortuose e a spirali ma senza mescolarli. Senza diluirli, anzi, alternando vuoto e pieno affinché il momento finale di questa danza emotiva, si compia. Sembrano bocche di piantine carnivore o fiori tropicali? La risposta è ciò senti.

Sono alchimie foto-grafiche. «Pittografie in cui si avverte il sapore di un‘attesa che riposa, per esplodere negli occhi di chi guarda» (Maria Savarese). Produzione dell‘invisibile, dell‘inesistente per (di)mostrare che può esistere e avere un suo perché. Come in una ricerca di laboratorio dove si manipolano molecole per guarirne o produrne delle altre. Qui il laboratorio è il software, si usano gli strumenti digitali di elaborazione dell‘immagine come lo strumento “altera” o il filtro “fluidifica” del Photoshop, introducendo ulteriori livelli che vanno ad interagire con i pre-esistenti, fin dove il tutto si compie. Dove la fotografia, il pieno, si annulla nel vuoto rigenerando altro pieno nel colore.

 

Immagino esista una ventiquattresima coppia di cromosomi. Molecole che riempiendosi e svuotandosi costantemente modificano e rendono fluide le geometrie del corpo. Le emozioni sono il motore che genera questo movimento. Il mio continuo scansirlo vuole renderle visibili. Appena entrato alle Scalze lo scambio tra pieno e vuoto mi ha colpito fisicamente. Come quando per la prima volta percepisci fisicamente le onde sui cui corre la musica. La forma del tuo corpo viene plasmata dall‘emozione; pieno e vuoto sono lì, davanti a te. Immobili, immediatamente reattivi alle tue emozioni. Luce e buio, enorme e microscopico, rumore e silenzio. Sacro e umano. Esiste lì una decadenza che vive di luce propria. Attraversandola ti fai dieci volte più alto, nello scoprirla minuscolo. Voglio in questa mostra entrare leggero come l‘aria che muove una tenda, violento come il vento che fa sbattere la finestra, che rompe i vetri. Come uno specchio in queste immagini voglio riflettere l‘emozione che ha modificato il mio corpo durante questi anni.

- Luca Stoppini

 

Un sottile concept intimo ed emotivo maturato negli spazi che ospitano la mostra dove i grandi spazi sono un‘alternanza di pieno e vuoto. E dove le stesse immagini di Luca Stoppini, si alternano nei vuoti degli spazi della chiesa.

Tre grandi fotografie (3x4 m) a terra e in controfacciata una di altrettanti dimensioni mentre lungo tutto il perimetro delle pareti, sette opere di grandezza inferiore.

Fotografie che sembrano un tutt‘uno con il contesto circostante e che avviano un dialogo visivo capace di riempire quel senso di smarrimento che si avverte quando si percorre la chiesa.

 

In questo luogo il pieno e il vuoto è lì, davanti a te pronto allo scambio. Apparentemente immobile ma immediatamente reattivo alle tue emozioni. La luce e il buio, l‘enorme e il microscopico, il suono e il silenzio e ovviamente il sacro e il profano. Esiste lì una decadenza che vive di luce propria. Attraversandola ti fai alto più di dieci volte la tua statura e minuscolo nello scoprirla.

- Luca Stoppini

 

La Chiesa di San Giuseppe degli Scalzi è quindi il luogo che si presta all‘esposizione. Un HUB di rigenerazione urbana che, grazie al Forum Tarsia, dal 2005 lavorò per restituire alla cittadinanza “Le Scalze”.

 

Bio (dal comunicato stampa)

Nasce a Milano nel 1961. Vive e lavora tra Milano e Parigi

Luca Stoppini è un professionista dell‘immagine a 360°. Per più di trent‘anni direttore artistico di Vogue Italia e de L‘Uomo Vogue, oggi direttore creativo di ICON Mondadori, ha curato il concept visuale di molte campagne e pubblicazioni della moda, affiancando sul set molti dei più grandi e conosciuti fotografi di moda e vanta collaborazioni con case editrici internazionali come Skira, Rizzoli International, Thames&Hudson e musei come Triennale di Milano, Victoria and Albert Museum di Londra. Designer grafico, ma anche artista puro, Stoppini ha sperimentato una varietà di materiali e di tecniche, per realizzare opere immagini bi e tridimensionali che sono state esposte nel contesto di personali e collettive in diverse parti del mondo, entrando a far parte di

alcune importanti collezioni d‘arte contemporanea. Fra i suoi strumenti più consoni, veloce e versatile per prendere appunti visivi non stop, per annotare estemporaneamente situazioni e momenti, ma anche per registrare e trasporre soggetti, suggestioni, colori e patine della vita nel suo lavoro d‘artista, la macchina fo­tografica digitale si è trasformata in una congeniale, irrinunciabile estensione dello sguardo di Luca Stoppini. Un mezzo per accostare, rilevare e penetrare situazioni diverse, un modo di accostare, decodificare, penetra­re le forme della vita vita e le dinamiche dell‘arte.

 

 

LUCA STOPPINI

Tra il muro della terra e i martìri

mostra fotografica a cura di Maria Savarese

Con il sostegno di Kiton

Chiesa S. Giuseppe delle Scalze

Salita Pontecorvo, 65 - Napoli

Dall‘1 aprile al 13 aprile 2023

orario: 10.00 - 16.00

domenica chiuso

ingresso libero

per ulteriori informazioni:

Ufficio stampa

Guardans-Cambó

tel. 02 43990159

press@guardanscambo.com



13.03.2023 # 6224
Gianni Berengo Gardin. L‘occhio come mestiere

Marco Maraviglia //

Pino Grimaldi: Fotodesign. Didascalie d‘autore con immagini (1972-2017)

L‘ideatore del blur design in una insolita mostra fotografica quasi autobiografica. Un album fotografico collettivo

Didascalie con foto. Come dire «toga con avvocato» oppure «arredamento con casa» o ancora, «acqua con bottiglia». Il soggetto è contenuto o contenitore?

Pino Grimaldi è stato una delle punte di diamante dello scenario del graphic design nazionale che purtroppo ci ha lasciati giusto tre anni fa. Nel pieno delle sue attività professionali.

Pensare all‘inverso è un modo di progettare la soluzione prima che si presenti il problema. Significa andare oltre. Arrivare alla luna senza badare nemmeno al dito che la indica.

Pino Grimaldi quando iniziò a pensare questo progetto probabilmente immaginò la famosa massima di Ansel Adams «Ho sempre pensato che la fotografia sia come una barzelletta, se devi spiegarla vuol dire che non è venuta bene». Perché sapeva che questa non poteva essere un principio assoluto.

Pino aveva un altro (ma anche alto) concetto della fotografia. Con l‘avvento del digitale, si era reso conto delle opportunità che si presentavano.

 

Oggi la fotografia è totalmente digitale (i nostalgici tecnofobi se ne facciano una ragione); la fase di produzione seriale è scandita da una filiera che non è più lo sviluppo e stampa, ma è ancora molto più complessa di prima e attraversa diverse fasi.

Dell‘antica scansione binaria: Ripresa + Sviluppo e Stampa è diventata una ragnatela di momenti, tutti delicatissimi, tutti molto, molto dipendenti dalla tecnologia e dalla capacità di controllarla allo scopo di avere un output che coincida con l‘intenzione dell’autore. Anche se l‘autore, se appena è un poco consapevole, sa che il lavoro una volta consegnato al sistema dei media non gli appartiene più e va a ricollocarsi in un nuovo senso che è quello del contesto nel quale è inserito.

 

È nella consapevolezza di quella sua idea di fotografia che la immagina come fonte progettuale di design. Un‘opportunità creativa per fotografi, grafici, designer, comunicatori. Qualcosa che può non essere solo a sé stante per illustrare o documentare, ma diventare fruibile in maniera partecipata, un prodotto interattivo. Utile, come un qualsiasi oggetto di design ben progettato.

 

Pino Grimaldi aveva selezionato fotografie da lui scattate tra il 1972 e il 2017 che fermavano quarantacinque anni di alcuni momenti da lui vissuti. Documentavano sintesi di storie che solo lui o una ristretta cerchia di persone, potevano (ri)conoscere e ricordare. Le foto pubblicate sui giornali sono a corredo degli articoli, in fondo, ma Fotodesign di Pino non sono pagine di giornale con fotografie, ma è come un album di memorie fotografiche. Di quelli dove si annotano frasi, ricordi, note storiche in calce alle foto stesse. Ma con la particolarità che quelle didascalie sono scritte non da chi ha “attaccato” le foto nell‘album, ma da chi era lì al momento dello scatto o perché coinvolto per altri motivi.

Il contenuto diventa packaging. Apoteosi della simbiosi tra prodotto e suo contenitore. Quell‘album fotografico veicola storie nella sua totalità. Le foto non hanno ragione di esistere senza quei pensieri scritti.

 

E allora ecco le “annotazioni” del critico d‘arte Achille Bonito Oliva, della gallerista Lia Rumma, dell‘artista Lello Esposito e, ancora, qualcuno scrive citazioni per un ritratto fatto a Marina Abramovich durante una performance nel ‘72 alla Galleria Morra. E poi altre didascalie che accompagnano le foto scritte da Daniela Piscitelli, Giovanna Cassese, Angelo Trimarco, Massimo Bignardi, Anty Pansera, Luciana Libero, Alba Palmiero, Alfonso Amendola, Franco Tozza, Andrea Manzi, Carlo Pecoraro, Maria De Vivo, Giuseppe Durante, Paolo Apolito, Paola Fimiani, Rino Mele, Silvana Sinisi,Marcello Napoli, Cettina Lenza, Antonella Fusco, Maria Rosaria Greco, Rossella Bonito Oliva.

Tutti cari amici di Pino Grimaldi conosciuti negli anni e con i quali ha condiviso quei momenti fotografici.

 

Sono esposte trentaquattro fotografie con relative didascalie. Non hanno la pretesa di essere tecnicamente perfette. Alcune non sono state riprodotte e ritoccate per eliminare imperfezioni tecniche per ristamparle, ma sono le stampe originali ai sali d‘argento. Nude e crude, così come erano state conservate da Pino.

Ogni didascalia è accanto alla foto e occupa la stessa grandezza dello spazio della foto. Citazioni, ricordi, riflessioni, spunti di dibattiti.

 

L‘apporto di Ilaria e Daria Grimaldi, figlie di Pino, è stato fondamentale per la messa in opera di questa mostra. Ne parlavano insieme, durante la fase progettuale, e la successiva scoperta e lettura degli appunti del padre, le ha portate a definire il tutto nei dettagli per questa mostra. C‘era un‘ottima intesa tra loro e Pino credo che avrebbe apprezzato il risultato finale.

Un progetto che non resterà solo appeso alle pareti del Palazzo Fruscione di Salerno per soli quindici giorni, ma è già un libro che sarà presentato il 15 marzo alle 18.00 nella stessa sede espositiva alla presenza di Vincenzo Napoli, Sindaco di Salerno, e altre personalità del mondo dell‘arte e della cultura.

 

Pino Grimaldi è stato un grande designer che è riuscito a disegnare anche questo delizioso progetto in maniera condivisa, con empatia, con i suoi amici, pur avendoci lasciati prima. E sarà un‘occasione per i giovani graphic designer per conoscere questa sua idea e per ricordarlo insieme, tra vecchi amici, con i sorrisi nella mente.

 

Copertina: Marina Abramovich - performance Galleria Lia Rumma 1972 © Ph. Pino Grimaldi

Foto sotto: Achille Bonito Oliva - 1972 © Pino Grimaldi




 

Fotodesign-Didascalie d‘autore con immagini - 1972 -2017

Mostra fotografica di Pino Grimaldi

Dal 15 al 31 marzo Palazzo Fruscione (Sa)

vicolo Adelberga  19

Inaugurazione 15 marzo ore 17.30

Ingresso libero

dal martedì al venerdì: ore 11.00 - 13.00 e dalle ore 17.00 alle ore 20.00.

Il sabato e la domenica dalle ore 10.30 alle 20.30 in orario continuativo.

Info: comunicazione@blendlab.it

Blendlab

08.03.2023 # 6220
Gianni Berengo Gardin. L‘occhio come mestiere

Marco Maraviglia //

Roberto Lavini espone 13 fotografie stampate al Carbone al Museo della Fotografia di Brescia

Fotografia duratura, tattile, uno dei processi fotografici dell‘800 mostrati da vicino

È solo polvere elettronica quella che conservi. Non le vedi se non accendendo un dispositivo elettronico di visualizzazione e attivando un software. Se non c‘è corrente elettrica, restano invisibili. Qualcuno direbbe che se non si possono toccare, non esistono. Qualcun altro dice che scompaiono quando meno te l‘aspetti da un hard disk o da un dischetto. Sono le foto digitali. Facili da fare, belle da vedere ma indipendenti. Figlie che non ti appartengono se non le stampi per tenerle con te. Inserendole in un album cartaceo o per metterle in cornice appendendole a una parete. O per farne un libro. Stampato su carta!

 

Roberto Lavini, classe 1956, originario di Salerno ma che vive in un piccolo borgo a Civitella in Val di Chiana provincia di Arezzo, è cresciuto nell‘era analogica della fotografia. Pur lavorando nella fotografia commerciale e per privati, fin da ragazzo è a contatto con la camera oscura, ingranditore, bacinelle, luce rossa e chimici. Un‘esperienza che non ha mai interrotto perché gli sembrava «la strada migliore per percorrere un approccio consapevole allo studio della fotografia». Si concentra negli ultimi anni sullo sviluppo di suoi progetti creativi, condividendo le sue ricerche attraverso articoli per riviste di settore, dimostrazioni pratiche e offre servizi di consulenza per la stampa con i procedimenti alternativi a fotografi artisti.

 

Si laurea al DAMS di Bologna dove, studiando storia della fotografia, si appassiona alle antiche tecniche dei processi fotografici.

 

Quegli studi furono per me una vera fonte di ispirazione perché sentivo l‘esigenza di un maggiore coinvolgimento nel processo creativo, di “connettermi sensorialmente” con i lavori che stavo eseguendo; in pratica volevo immergermi nella sperimentazione con lo stesso fervore delle generazioni di fotografi che mi avevano preceduto. Oggi i materiali sono diversi rispetto a quelli che usavano i fotografi dell‘800, quindi ho dovuto provare a percorrere nuove strade, non ultima quella del digitale per la produzione di negativi di grande formato per la stampa a contatto.

 

Negli anni Roberto Lavini ha dovuto studiare nuovi materiali e chimici per emulare i processi fotografici dell‘800 perché nel frattempo non più disponibili anche per questioni ecologiche.

 

Dal 2017 la Comunità Europea ha vietato utilizzo dei bicromati perciò numerosi sono stati i tentativi per sostituirli con altre sostanze più sostenibili per l‘ambiente.

Il sensibilizzante Das (della famiglia dei Diazido) risponde a questa esigenza in quanto non è nocivo per l‘uomo e per l‘ambiente e in più ha un‘azione indurente sui colloidi migliore dei bicromati. Questa sostanza, con semplici modifiche al processo, ci consente di eseguire ancora ottime stampe al carbone.

 

Riguardo la produzione di negativi di grande formato per la stampa a contatto, Roberto Lavini ha percorso la strada del digitale. In un‘era ancora ibrida in cui convivono e-book e libri in carta, banconote e carta di credito, pennelli e tavoletta grafica, se la tecnologia digitale può essere di supporto per ottenere un risultato visivo finale, tattile e di qualità nel dettaglio, ben venga.

Il processo al carbone è noto per la stabilità delle stampe, in termini di durata nel tempo e per l‘ampia gamma tonale che restituisce. «Nel mondo dell‘arte e del collezionismo fotografico, le stampe al carbone sono considerate tra le più preziose». Si presentano come se fossero a rilievo, specie nelle zone dei neri, vien voglia di toccarle, carezzarle con le dita.

 

Roberto Lavini espone 13 stampe al Carbone (a colori e monocromatiche). I formati vanno dal 24x30 cm al 40x50 cm.

Senza cornici e senza passepartout. Esposte orizzontalmente all‘interno di vetrinette.

Insomma, una chicca per gli appassionati della fotografia vintage.

 

 

 

I Colori Del Carbone

a cura di Gabriele Chiesa

dall‘11 marzo all‘8 aprile 2023 (inaugurazione mostra Sabato 11 Marzo ore 17:00)

Museo Nazionale della Fotografia di Brescia

Contrada del Carmine, 2F

ingresso libero

orari:

Lunedì e Venerdì chiuso.

Martedì, Mercoledì e Giovedì ore 9:00 - 12:00

Sabato, Domenica e festivi ore 16:00 - 18:45

Info:

www.museobrescia.net Tel. 030 49137

 

 

Il 12 marzo, presso lo stesso museo, avrà luogo un workshop condotto da Roberto Lavini:

 

LA STAMPA AL CARBONE SENZA CROMO

 

·       Premessa. Ai partecipanti si richiede di realizzare ed inviare a infocorsi@cameracreativa.it entro mercoledì 1 marzo, un autoritratto (foto digitale, anche smartphone). Il file servirà per produrre la matrice 7x10,5 cm (rapporto tra i lati 1,5) che verrà impiegata per stampare, durante il workshop, un segnalibro fotografico personalizzato in bicromia al carbone. A conclusione del workshop ciascuno dei partecipanti riceverà il proprio.

·       Mattina: storia e panoramica del processo. Evoluzione e le principali innovazioni. L‘uso del DAS al posto dei bicromati. La scelta dei pigmenti, ricette e taratura degli ingredienti. Preparazione della carta carbone (tissue): mescola degli ingredienti e stesa della soluzione di gelatina.

·       Pomeriggio: esecuzione di una Stampa al Carbone BN su due strati di gelatina pigmentata. Messa a registro della Carta Carbone sulla Carta da Trasporto e Sviluppo.


"Prometeo" - stampa al carbone © Roberto Lavini


In copertina: "Magic bus" - stampa al carbone © Roberto Lavini

03.03.2023 # 6218
Gianni Berengo Gardin. L‘occhio come mestiere

Marco Maraviglia //

Eve Arnold: L‘opera. Una grande mostra al Camera di Torino fino al 4 giugno

Conosciuta più per le fotografie scattate a Marilyn Monroe, la fotografa della scuderia Magnum determinò uno stile tecnico ed estetico indagando fenomeni della società americana e internazionale

«È stata la prima donna a entrare in Magnum» così scrivono. Come dire «è stato il primo extraterrestre a…». Una donna è una persona. Una donna che fotografa è una fotografa e credo che non conti oggi precisare il genere di chi produce immagini. Del resto stesso lei non sopportava la dizione che le attribuivano come “fotografa donna”. Eh, ma ai tempi della Magnum era altra cosa. Era il 1951 quando H. Cartier Bresson, pioniere della fotografia umanista e fondatore della Magnum, la notò e la coinvolse come freelance nella più grande agenzia fotografica del mondo per poi renderla socia nel 1957. La prima associata donna della Magnum. Ecco, ci sono cascato anch‘io, ho precisato “donna”. Era più difficile di oggi, per una donna, avere una giusta collocazione per meriti. Come Mary Jackson, la prima ingegnera di colore della NASA (1958) la cui storia è raccontata nel film Il diritto di contare.

Il merito di Eve Arnold non era essere donna ma il suo modo di osservare all‘interno del mondo. Uno sguardo che evidentemente colpì Bresson quando gli capitò di vedere i suoi scatti fatti ad Harlem in occasione delle sfilate di moda di modelle e stilisti di colore, totalmente ignorate dal fashion-mainstream statunitense, o quelli realizzati durante le manifestazioni dei Black Muslims e di Malcom X che acconsentì di farsi seguire a distanza ravvicinata durante i più importanti raduni.

Una bella botta per l‘epoca: “donna bianca fotografa neri!”. Una roba che i giornali americani non pubblicavano. E infatti quegli scatti furono stampati dal Picture Post di Londra nel 1951 e da altre riviste europee.

 

Le persone attraversano momenti della vita che, nel bene o nel male, segnano il proprio campo emotivo. Episodi che formano la persona ampliando via via il proprio background esperienziale. Tutti input che, per chi svolge lavori creativi, si riflettono sul proprio operato.

Eve Arnold, nata nel 1912 a Philadelphia da genitori russi immigrati con madre ebrea, ha vissuto una vita con grandi ristrettezze economiche. A 31 anni decide di interrompere gli studi universitari per lavorare in uno stabilimento di sviluppo e stampa di fotografia.

 

Chi ha vissuto una vita fatta di stenti, una vita in cui magari pensi che fine avrebbero fatto i tuoi genitori se avessero vissuto in Europa durante il periodo nazista, le corde dell‘anima sono toccate nel profondo. Realizzi che il mondo non è facile per tutti abitarlo e costruisci in te una certa dose di umiltà ed empatia. Eve Arnold era sensibile alla discriminazione razziale. Osservava le persone e non il loro status sociale o politico. Ascoltava le persone con gli occhi.

 

Non vedo nessuno come ordinario o straordinario.

Li guardo semplicemente come persone davanti al mio obiettivo.

 

Quando Adrian Lyne girò 9 Settimane e ½ (1986), ci fu un certo scalpore non solo per la storia ad alto impatto erotico per l‘epoca ma per il fatto che molte scene del film fossero state girate con luce ambiente. Non si era inventato nulla in realtà. Barry Lyndon (1975) di Kubrick fu interamente realizzato a luce ambiente, interni compresi. A lume di candela.

Ma già anni prima Eve Arnold fece della luce ambiente uno dei suoi cavali di battaglia. Probabilmente, forte di quell‘esperienza nei laboratori fotografici della Stanbi, una delle caratteristiche del lavoro di Eve era trascorrere molte ore in camera oscura per trattare le sue fotografie, tutte scattate senza flash. Restituendo atmosfere intense e naturali, riprese anche in condizioni di luce critica.


Marilyn Monroe in the Nevada desert during the filming of “The Misfits. USA, 1960

© Eve Arnold / Magnum Photos


Ha fatto fotogiornalismo d‘inchiesta, ha affrontato il razzismo negli Stati Uniti, ha seguito l‘emancipazione femminile, un progetto sull‘uso del velo in Medio Oriente, l‘interazione fra le differenti culture del mondo, fotografa nei reparti di maternità degli ospedali di tutto il mondo, soggetto a cui ritorna costantemente per esorcizzare il dolore subito con la perdita di un figlio avvenuta nel 1959.

Ma purtroppo è nota principalmente per le sue foto realizzate alle star del cinema: da Marlene Dietrich a Marilyn Monroe, da Joan Crawford a Orson Welles.

Una Marlene Dietrich fotografata in backstage durante la registrazione di alcune delle canzoni care alle truppe alleate. Incallita fumatrice, espressioni insolite e ironiche mai viste nei film che interpretava, Eve Arnold riuscì a tirare fuori un servizio fotografico che le aprì le porte per fotografare altre star.

«Se sei riuscita a fotografare in maniera così intima e naturale Marlene Dietrich, dovresti saper fotografare anche me» disse più o meno Marilyn Monroe a Eve quando la incrociò a una festa in un locale nel 1954. E divennero amiche per sempre. E infatti conosciamo Eve Arnold per le splendide fotografie scattate a Marilyn in vari momenti anche della sua vita intima o in quelle fuori scena fatte sul set di The Misftis che nel mentre ebbe una terribile premonizione: «Il mio ricordo più toccante di Marilyn è di quanto apparisse angosciata, turbata e ancora radiosa quando sono arrivato in Nevada».

 

Sono stata povera e ho voluto documentare la povertà; Avevo perso un figlio ed ero ossessionata dalla nascita; Mi interessava la politica e volevo sapere come influiva sulle nostre vite; Sono una donna e volevo sapere delle donne.

 

Copertina: Bar girl in a brothel in the red light district, Havana, Cuba, 1954© Eve Arnold / Magnum Photos


Accessibilità della mostra:

 

·       Un percorso tattile, che consente ai visitatori interessati, in particolare per le persone con disabilità visiva, di fare un‘esperienza tattile in piena autonomia con una selezione di sette pannelli visivo tattili posizionati in corrispondenza delle fotografie esposte. Ogni disegno a rilievo è corredato dalla relativa audio-video descrizione, attivabile tramite QR code o NFC (Near Field Communication);

·       La trasposizione audio dei testi di sala, attraverso l‘apposito QR code, che offre una descrizione sintetica delle tematiche esposte in ogni sezione della mostra;

·       Un video introduttivo sulla vita e il lavoro di Eve Arnold in Lingua dei Segni Italiana, accessibile mediante QR code o su tablet. L‘interprete del video è l‘artista Nicola Della Maggiora.

·       Inoltre, le opere esposte sono posizionate a un‘altezza media inferiore rispetto al passato cercando un compromesso fra i differenti punti di osservazione dei visitatori. Mentre si è scelto di evitare espositori con piani orizzontali per consentire una fruizione ottimale di tutti i materiali esposti anche alle persone su sedia a ruote e ai bambini.

 

 

Eve Arnold

L‘opera, 1950-1980

Dal 25 febbraio al 4 giugno 2023

Aperta tutti i giorni

CAMERA - Centro Italiano per la Fotografia

Via delle Rosine 18, 10123 - Torino www.camera.to | camera@camera.to

Orari di apertura (Ultimo ingresso, 30 minuti prima della chiusura)

Lunedì 11.00 - 19.00

Martedì 11.00 - 19.00

Mercoledì 11.00 - 19.00

Giovedì 11.00 - 21.00

Venerdì 11.00 - 19.00

Sabato 11.00 - 19.00

Domenica 11.00 - 19.00

23.02.2023 # 6217
Gianni Berengo Gardin. L‘occhio come mestiere

Marco Maraviglia //

Rossella Mutone espone “in Fede”, 29 fotografie bianconero all‘Art Garage

Tra sacro e profano, la religiosità di Napoli espressa attraverso una ricerca visiva dell‘autrice

Napoli è la città italiana con più chiese dopo Roma. È detta “la città delle mille chiese”.

Chiese medievali, rinascimentali, barocche, chiese sconsacrate, chiese chiuse, interi monasteri destinati ad attività ludico/sociali, c‘è persino la copia della Basilica di San Pietro del Vaticano… Ma quanta religiosità c‘è qui?

 

C‘è traccia di religiosità a Napoli visibile in ogni angolo del centro storico. Edicole sacre, piccole o grandi statue di Padre Pio innanzi ai bassi. San Gennaro è dipinto sui muri in tutte le salse: di fianco a Caravaggio, con la mascherina, in versione Superman o in versione da guerriero di Jorit.

Fedele, laica, prosaica, profana, superstiziosa, passionale, festaiola, la religiosità napoletana è una filosofia a sé. Perché contaminata da credenze popolari, danze e riti mistici.

Anche chi non è un cristiano praticante, o forse nemmeno credente, si infila nel portone della Chiesa del Gesù Nuovo per lasciare un obolo e farsi il segno della croce davanti la tomba di Giuseppe Moscati. Il medico Santo.

Chi non va a messa, chi non si confessa, non si perde comunque la liquefazione del sangue di San Gennaro. Perché a volte non si tratta di essere fedeli ma di far parte di quel sottile fil rouge che unisce sotto lo stesso cielo i più superstiziosi. Se il sangue non si scioglie, il napoletano come minimo tocca scaramanticamente la punta del “corniciello” che ha probabilmente in tasca.

E poi le capuzzelle di Napoli. I teschi della chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco o quelli del Cimitero delle Fontanelle alla Sanità. Da adottare, omaggiare con una monetina, un rosario o l‘icona di un santino. Tra grazia ricevuta, desideri di vincite al lotto e di buona salute.

 

È in questo contesto che Rossella Mutone indaga la religiosità di Napoli fotografando in solitudine e con discrezione attimi di intimità.

 

Ho cominciato a notare che le chiese con le loro luci e le loro ombre, i volti dei fedeli assorti a pregare non durante una messa ma in situazioni intime attiravano la mia attenzione. Sarà che amo entrare nei luoghi di culto quando non c‘è quasi nessuno perché mi sembra di sentire maggiormente la presenza e la vicinanza ad un‘entità superiore, sono cristiana ma non praticante alla ricerca di risposte.

 

È un lavoro di ricerca visiva iniziato nel 2018, interrotto causa pandemia e poi ripreso.

Immagini che rappresentano devozione per i santi, idolatria per simboli religiosi, una città che venera Maradona come un Dio, o adotta una capuzzella coltivando un amore mistico per l‘anima di uno sconosciuto.

E Rossella sviluppa questa ricerca su più percorsi le cui sezioni restituiscono l‘insieme: Riflessioni, Devozione, Simboli ed esoterismo, Idoli e credenze.

 

Fotografie con riflessi che fondono i confini del quotidiano con quelli religiosi in atmosfere che si sospendono in un tempo mentale senza tempo.

Devozione, dettagli, campi lunghi, presenze di luci divine. Persone che pregano. C‘è chi in raccoglimento religioso quasi sembra che si sia appisolato nel silenzio di una chiesa.

Ecco: silenzio. Il silenzio è l‘anima portante di queste fotografie. Dove già lo stesso silenzio che ci arriva osservandole, è qualcosa di mistico ed esoterico.

Non sono fotografie prese durante le messe. Sono talvolta scatti rubati. Un reportage sommesso tra esterni e interni.

Perché la religiosità non è posseduta dai confini di una chiesa. La si percepisce anche nelle strade. Tra edicole votive e altarini e murales per venerare Maradona.

Tra sacro e profano.

 

 

 

in Fede | Napoli ricerca fotografica di Rossella Mutone

Art Garage

Viale Bognar 21 Pozzuoli

Inaugurazione Sabato 4 marzo ore 18

Ingresso Libero.

Fino al 17 marzo 2023

Lun > Ven 16,30-20.00 Sabato e Domenica su appuntamento.

Nell‘ambito di FOTOARTinGARAGE VI edizione rassegna di fotografia coordinata da Gianni Biccari.

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