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07.02.2019 # 5184

A Napoli “Francesca Woodman. Fotografie dalla collezione di Carla Sozzani”

Non c’è limite al buco nero nel quale è possibile cadere dentro l’atto fotografico

di Federica Cerami


LA MOSTRA

Nella mostra  sono presenti una selezione di quindici opere tra le quali: una (Untitled, 1980, Diazotype print, 360,5×97 cm), esposta per la prima volta a Napoli, un cammeo sulla ricerca estetica della fotografa statunitense Francesca Woodman che si focalizza nel rapporto fra corpo e spazio e tre video realizzati dall’artista fra il 1975 e il 1978 accompagnano le fotografie

“Io vorrei che le mie fotografie potessero ricondensare l’esperienza in piccole immagini complete, nelle quali tutto il mistero della paura o comunque ciò che rimane latente agli occhi dell’osservatore uscisse, come se derivasse dalla sua propria esperienza.” (Francesca Woodman)

BIOGRAFIA

La breve vita della fotografa Francesca Woodman, si è interrotta a soli ventitré anni, riuscendo a fermare nei suoi struggenti scatti delle immagini che le hanno dato l’immortalità.

Francesca Woodman nasce a Denver il 3 aprile 1958, da una coppia di artisti che sin dall’infanzia le fa respirare i sapori, i colori, le sensazioni e le emozioni dell’arte.

A tredici anni riceve in regalo la prima macchina fotografica e da lì prende avvio la sua carriera artistica.

Dedica la sua giovane vita agli studi d’arte e al suo lavoro di esplorazione fotografica.

Il 19 gennaio del 1981 si suicida buttandosi da un palazzo di New York, nello stesso mese è pubblicata la sua prima raccolta di fotografie dal titolo Some Disordered Interior Geometries – Alcune disordinate geometri interiori.  

Nelle sue fotografie predilige nudi femminili ritratti in bianco e nero, tipico del suo stile è l’indugiare su ciò che la circonda sino a diventare tutt’uno con l’ambiente grazie a effetti sfocati ottenuti con lunghi tempi di esposizione

Le immagini di Francesca Woodman appaiono come emblematiche denunce di quel male di vivere che ha attraversato tutto il Novecento, la scelta di un mondo altro, diverso dal mondo reale, con la scelta di quell’unica alternativa possibile per uscire dalla prigionia che la vita impone. Figure sole, decontestualizzate, appaiono avvicinate tra loro apparentemente senza un preciso significato, ma è proprio questo corto circuito semantico che conduce all’armonia.



CONSIDERAZIONI A MARGINE

Un occhio veloce e poco incline all’idea di perdersi dentro le immagini, con difficoltà riesce a trovare nel lavoro della Woodman un filo al quale aggrapparsi per arrivare a percepire il punto della sua riflessione. Per amare la Woodman bisogna lasciarsi andare dentro ogni sua immagine, per poi, magari, ritrovare frammenti di sé persi nel tempo della propria memoria.

Non c’è limite al buco nero nel quale è possibile cadere dentro l’atto fotografico: ogni visione rivolta verso l’esterno è, per la Woodman, il momentaneo punto di arrivo di un dolore silente che non si ferma mai.

Fotografare se stessi può essere un gesto rassicurante quando si riesce a rintracciare anche una vaga idea della propria presenza ma, al tempo stesso, può generare una sofferenza senza fine, quando tutti i propri ritratti, messi assieme, non compongono quel grande mosaico al quale pensavamo di essere destinati.

Dentro le tracce di questa eterea presenza nel mondo della Woodman è facile trovare le anticipazioni di quello che sarà poi il meraviglioso lavoro di autoritratto terapeutico realizzato dagli anni 90 in poi dalla fotografa Spagnola Cristina Nunez.

La Woodman, pur aprendo le porte a una incredibile idea di ricerca di se, non è riuscita a salvarsi dentro queste sue visioni all’apparenza molto delicate e, prematuramente, decise di tirarsi fuori da tutti quei piccoli quadrati di vita che non le restituivano la sua dignità di donna.

Gli orari della mostra: Da venerdì 11 gennaio al 10 marzo 2019, apertura al pubblico mar-ven 10.30-13/16-20, sab.10.30-13. Ingresso libero. Brochure della mostra in galleria, Paparo Edizioni.


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Archivi fotografici aperti per tutti

La IX edizione di Archivi Aperti, un‘iniziativa di Rete Fotografia

di Marco Maraviglia

Rete Fotografia ha organizzato la IX edizione di Archivi Aperti che si svolge dal 13 al 22 ottobre 2023 in numerose città italiane. La manifestazione si rivolge a un pubblico non solo specialistico e coinvolge archivi fotografici storici e contemporanei pubblici e privati, istituzioni note e realtà conosciute solo territorialmente, dal nord al sud della penisola.

La nuova edizione, dal titolo Gli archivi dei fotografi italiani: un patrimonio da valorizzare, ha lo scopo di portare all‘attenzione del pubblico un tema sempre più attuale e di grande interesse sia per i fotografi, sempre più consapevoli del valore del loro lavoro, sia per gli stessi enti di conservazione e le istituzioni pubbliche.

 

Ma cosa sono gli archivi fotografici? Chi li allestisce e come? Ma, innanzitutto, a cosa servono?

Non esisterebbe l‘iniziativa Archivi Aperti se non ci ponessimo domande del genere.

Il patrimonio dell‘umanità non è fatto solo di paesaggio, beni storico-culturali. Il mondo si trasforma e la sua catalogazione serve a tenere traccia di quel che è stata l‘umanità. Come esistono i libri di storia, storia dell‘arte, filosofia e quant‘altro custoditi e catalogati nelle biblioteche, come esistono emeroteche, video-archivi e cineteche, esistono gli archivi fotografici.

Si tratta di avere l‘opportunità, attraverso il materiale presente negli archivi fotografici, di osservare visivamente le nostre radici, gli eventi che abbiamo vissuto, attraversato e che hanno determinato cambiamenti socio-tecno-culturali. Aiutano a comprendere dove eravamo, dove siamo, dove stiamo andando.

Non è raro, ad esempio, che scenografi e costumisti di produzioni cinematografiche consultino archivi fotografici per risalire a dettagli d‘epoca da ricostruire.

In assenza, di archivi fotografici, di tracce visive, è come essere orfani di genitori. Senza una propria identità. Un gap che si ripercuoterebbe anche sulla nostra sfera psicologica. Un edificio senza fondazioni è impossibile tenerlo sospeso nel vuoto. La fotografia fa parte delle nostre fondazioni, racconta le nostre storie.

 

Un popolo senza la conoscenza della propria storia, origine e cultura è come un albero senza radici

- Marcus Garvey

 

Un fotografo che infila tutte le foto negli hard disk senza criteri, non ha un archivio fotografico ma uno “stanzino” dove ha accumulato di tutto e, al momento che gli occorre qualcosa, riuscirà a trovare solo lui ciò che cerca. Forse. E i posteri saranno invece belli e fregati.

Vale lo stesso per chi ha pellicole o lastre conservate nelle veline e in scatole. Senza nemmeno una data di riferimento.

Ma non è soltanto la data che fa l‘archivio.

Ogni foto andrebbe catalogata con una serie di parole chiave. E quanti più riferimenti descrittivi si danno alle immagini, maggiori saranno le possibilità di ritrovare quelle che servono al momento opportuno.

Per una ricerca filologica, storica, atropologica, urbanistica, paesaggistica, sociale e così via.

Fino a prima del digitale si usavano schedari cartacei. Su ogni scheda si scriveva il numero che si dava anche alla pellicola e relativo provino a contatto, il titolo del servizio fotografico/argomento e poi il nome del soggetto presente in ogni singolo fotogramma ed eventualmente altri dettagli come luogo, descrizione della scena e altri elementi presenti in quello scatto.

 

Con l‘avvento delle tecnologie digitali sono entrati nel mercato diversi software per l‘archiviazione fotografica. Alcuni predisposti come “client/server”, ovvero con la possibilità di gestire l‘archivio da remoto: contemporaneamente più fotografi contribuiscono alla crescita dell‘archivio pur trovandosi in luoghi differenti. Effettuando upload dei file fotografici e l‘inserimento dei tag giusti per la ricerca secondo un thesaurus prestabilito. Un po‘ come funzionano le agenzie di stock online. Alcuni di questi archivi digitali sono adattati anche per ricerche booleane come per un catalogo bibliotecario nazionale o per una ricerca su Google.

Alcuni enti hanno preferito farsi programmare ad hoc tali software. Perché il problema è sempre quello dell‘obsolescenza: cambiano i sistemi operativi per i computer e i vecchi software non potrebbero più girare sui nuovi SO.

Qualcuno ha economizzato catalogando il proprio archivio usando un semplice documento in Word con più colonne: n° hard disk, n° cartella, evento, soggetto principale, nome personaggio, data, luogo… Basta poi inserire la parola chiave nel campo di ricerca del documento per trovare tutti i file corrispondenti. Senza però le anteprime delle immagini. Una soluzione rudimentale ma economica.

 

Archivi Aperti è un‘operazione che intende far conoscere l‘importanza della presenza degli archivi fotografici qui accennata, la loro tutela, l‘accessibilità per studi e ricerche, sensibilizzando gli stessi fotografi affinché il loro patrimonio possa essere fruibile e conosciuto da tutti. Alcuni fotografi presenteranno le scelte operate per la valorizzazione del proprio archivio.

Convegni, tavole rotonde, visite in loco presso 65 archivi sparsi su tutta la penisola di cui 24 in più rispetto alla precedente edizione. Alcuni consultabili online.


Tra gli Istituti e le associazioni presenti si citano l‘Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD); MAXXI - Museo nazionale delle arti del XXI secolo; Soprintendenza Archivistica e Bibliografia della Lombardia; AitArt - Associazione Italiana Archivi d‘Artista; Società Italiana per lo Studio della Fotografia – SISF. Per gli Archivi dei fotografi ci saranno, tra gli altri, quelli di Gabriele Basilico, Gianni Berengo Gardin, Mario Cresci, Guido Guidi, Mimmo Jodice, Lelli & Masotti e la Fondazione Nino Migliori.


L‘appuntamento conclusivo - presso la sede milanese di Fondazione AEM, domenica 22 ottobre 2023 alle ore 17 – partirà dalle considerazioni emerse durante l‘incontro di apertura per riflettere su tutta la manifestazione. Diversi gli autori coinvolti grazie alla collaborazione di TAU Visual - Associazione Nazionale Fotografi Professionisti, AFIP International - Associazione Fotografi Professionisti e GRIN - Gruppo Redattori Iconografici Nazionale, soci di Rete Fotografia.

 

 

 

INFO:

www.retefotografia.it | segreteria@retefotografia.it

Ufficio stampa | Alessandra Pozzi Tel. +39 338.5965789, press@alessandrapozzi.com

 

 

Foto di copertina: “I fotografi del servizio interno del Corriere della Sera”

Franco Gremignani, 1963

Archivio storico Fondazione Corriere della Sera

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Chernobyl Herbarium di Anaïs Tondeur in mostra alla Spot Home Gallery

L’alchimia delle connessioni tra sapere scientifico, filosofia, antropologia e arte per un contatto tra passato e futuro di una identità umana smarrita





Un laboratorio di Bruxelles. Protocolli di massima sicurezza. Anaïs Tondeur indossa una tuta a prova di radiazioni nucleari. Probabilmente sente solo il suo respiro mentre si dirige verso una delle darkroom più insolite del pianeta ubicata in quel laboratorio del Nord Europa. Completamente a tenuta stagna e non solo dalla luce. Qui non si stampano semplici fotografie destinate al mondo dell’informazione. 

Anaïs ha tra le mani inguantate un “oggetto prezioso”. Blindato in un contenitore al piombo.

In quella darkroom non c’è luce rossa perché non si stampa in bianconero. Si lavora al buio se non il tempo di quella manciata di attimi durante i quali i fotoni impressioneranno un foglio di carta fotografica a colori.


Anaïs Tondeur apre quel contenitore di piombo. Dentro c’è una di quelle piantine che dal 2011 le dona il biogenetista Martin Hajduch col quale ha intrapreso uno dei suoi progetti artistici: Chernobyl Herbarium.

Piante ormai secche, forse geneticamente mutate. Forse non del tutto morte. O forse morte ma ancora rivelatrici di qualcosa. Piantine prelevate dalla Zona di Esclusione di Chernobyl. Vegetazione cresciuta in una terra maledetta con la rabbia e l’energia di chi vuole vivere. Anche solo sopravvivere. Perché la Natura è più forte. Più del bene e del male della mente umana. Quella che cortocircuita il sistema-Natura, per intenderci.


Il 26 aprile 1986 un incidente a un reattore della centrale nucleare di Chernobyl provocò il più grande disastro ambientale che una centrale nucleare avesse mai potuto provocare.

C’è ampia letteratura su quell’episodio. E se ne continua a scrivere. E si continuano a studiare i suoi effetti. Anche in maniera creativa e interdisciplinare come il progetto di Tondeur.


Mentre fuori c’è tutto un mondo che si rincorre, Anaïs Tondeur in quella camera oscura super blindatissima, poggia il delicato relitto vegetale su un foglio di carta emulsionata a colori e vi lascia passare un breve e intenso fascio di luce.

Sviluppa il foglio nei chimici. Ottiene un rayogramma. Ogni volta il risultato è diverso. 

L’incontro chimico-fisico di quel processo è imprevedibile. Luce, emulsione del foglio, liquido rivelatore e residui di radiazioni interagiscono restituendo esplosioni grafiche che raccontano l’invisibile. Come sacre Sindone di una parte di natura del mondo che sta ancora attraversando il suo calvario.


Chernobyl Herbarium è un progetto in itinere, un erbario rayografico con il quale cerco di svelare, tramite la materia stessa delle fotografie, le stigmate dell‘esplosione nucleare sui corpi delle piante di Chernobyl.

- Anaïs Tondeur


Molti dei progetti di Anaïs Tondeur nascono dalla sua capacità di percepire certi accadimenti intorno a lei con un’attenzione particolarmente sensibile. Amplifica e rimescola il reale con l’immaginario, intreccia scienza, filosofia, arte, poesia usando la fotografia come supporto che ricongiunga attività multidisciplinari. Mostrando punti di vista alternativi. Magari utili agli stessi studi scientifici delle persone che via via avvicina per percorrere le sue narrazioni visive.

E così intraprende con il filosofo ambientalista Michael Marder, contaminato dall‘esplosione del reattore nel 1986, il progetto Chernobyl Herbarium.

Nel 2021, in occasione del 35° anniversario dall’esplosione, viene pubblicato il libro Chernobyl Herbarium, La vita dopo il disastro nucleare. L’edizione comprende trentacinque “pièce” comprensive di testi e rayogrammi composti da Michael Marder e Anaïs Tondeur. Ho scritto “pièce” perché meriterebbero di essere recitati in teatro, magari da un Marco Paolini, con proiezione delle immagini sullo sfondo.


…Grazie alla sua pratica estetica, Tondeur fa detonare e dunque rilascia le esplosioni di luce intrappolate nelle piante, le cui linee disperse attraversano i fotogrammi in ogni direzione. Libera tracce luminescenti senza violenza, schivando la reiterazione del primo evento invisibile di Chernobyl e, allo stesso tempo, catturandone frammenti. Liberazione e preservazione; preservazione, memoria, e liberazione: per grazia dell’arte. 

- Michael Marder

 


Cenni biografici (dal comunicato stampa)


Nata nel 1985, Anaïs Tondeur vive e lavora a Parigi. 

Laureata alla Central Saint Martins (2008) e poi al Royal College of Arts (2010) di Londra, ha ricevuto il Prix Art of Change 21 (2021) e la menzione d‘onore Ars Electronica CyberArts (2019).

Il suo approccio artistico è profondamente radicato nel pensiero ecologico e si inserisce in una pratica interdisciplinare attraverso la quale Tondeur esplora nuovi modi di raccontare il mondo, che permettano di trasformare la nostra relazione con gli altri esseri viventi e con i grandi cicli della terra. Incrociando scienze naturali, antropologia, creazione di miti e nuovi media, costruisce una sorta di laboratorio di attenzione e percezione che, attraverso l‘indagine e la finzione, si traduce in percorsi, installazioni, fotografie, esperienze sensoriali o processi alchemici. 


I suoi progetti di ricerca l’hanno portata in spedizioni attraverso l‘Oceano Atlantico, sui confini tra le placche tettoniche, nella zona di esclusione di Chernobyl, sotto la superficie di Parigi, attraverso suoli urbani inquinati o sotto il flusso atmosferico di particelle antropiche. Quando i territori delle sue indagini sono inaccessibili, crea veicoli immaginari che si muovono per lei. È così che ha mandato un sogno nello spazio a bordo di Osiris Rex, una navicella della NASA.


Ha risieduto come Artista in Ricerca e Creazione presso l‘ex deposito di semi della Famiglia Vilmorin (Verrières-le-Buisson, 2020-21), presso Chantiers Partagés a cura di José-Manuel Goncalves, presso 104 (2018-19), Artlink (Irlanda, 2019), al Musée des Arts et Métiers (2018-17), al CNES (2016), al Laboratoire de la Culture Durable avviato dal COAL al Domaine de Chamarande (2015-16), al Muséum National d‘Histoire Naturelle, all‘Institut Pierre et Marie Curie (COP 21, 2015) e a La Chaire Arts & Sciences (École Polytechnique, 2013-15). 


Le sue opere sono state esposte presso istituzioni internazionali come il Kröller-Müller Museum (Paesi Bassi), il Center Pompidou (Parigi), La Gaîté Lyrique (Parigi), il MEP (Parigi), il Frac Provence-Alpes-Côte d‘Azur, le Serpentines Galleries (Londra), il Bozar (Bruxelles), la Biennale di Venezia – Padiglione Francia, (Lieux Infinis), lo Houston Center of Photography (Stati Uniti) e il Nam June Paik Art Center (Seoul).






Esplosioni di luce

Chernobyl Herbarium

Anaïs Tondeur 

Dal 16 giugno al 14 ottobre 2022 

Spot home gallery

Via Toledo, 66 – Napoli


+39 081 9228816

info@spothomegallery.com

www.spothomegallery.com


Ufficio stampa

Costanza Pellegrini 

costanzapellegrini2@gmail.com




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Il Carnevale di Atella a Sant’Arpino, di Salvatore Di Vilio

Quando la fotografia può far rinascere un evento. Un libro di successo per gli amanti del Carnevale

di Marco Maraviglia

Chi è Salvatore Di Vilio

Classe 1957. Nato a Succivo. Diploma liceo artistico studi in architettura.

Lo zio lo appassiona alla fotografia e inizia a realizzare i primi book fotografici e alcuni amici azzardarono a chiedergli di immortalare il loro matrimonio. Da lì il tam tam con gli amici degli amici, poi gli amici degli amici degli amici ecc. ecc. e si ritrova ad essere professionista aprendosi in poco tempo la P. IVA.

Nel frattempo fa ricerca fotografica di carattere antropologico, riprendendo feste popolari e riti tradizionali della Campania.

Salvatore Di Vilio ha sempre dato un’impronta stilistica molto personale caratterizzando i suoi lavori cerimoniali al punto da avere diversi riconoscimenti nazionali.

Durante una chiacchierata che feci con lui qualche anno fa mi fece notare quanto sia complicato, per chi non vive e lavora in una grande città, riuscire a stare dietro a certi canali che ti consentono di rendere adeguatamente visibili i tuoi meriti professionali.

Nonostante ciò, Salvatore Di Vilio ha lavorato, oltre che nel cerimoniale, anche nel campo pubblicitario negli anni novanta nel settore vitivinicolo e altre aziende. Ha firmato copertine per Eduardo De Crescenzo, Sal Da Vinci, Franco Del Prete e ha avuto una collaborazione assidua con la casa iscografica Ricordi. Ha all’attivo diverse mostre fotografiche e, tra queste, una delle più importanti a Orvieto nel 2007 con Prima del Ballo dedicata ai ragazzi di periferia che si recavano in discoteca.

Pubblicazioni a gogo e hanno scritto di lui, tra gli altri, Franco Arminio, Giulio Baffi, Pino Bertelli, Michele Buonuomo, Federica Cerami, Raffaele Cutillo, Antonio D’Agostino, Giuseppe Montesano, Gerardo Pedicini, Mario Schiavone, Maurizio Vitiello, Vincenzo Trione, Davide Vargas.


Il Carnevale. Una storia di allegria e libertà popolare

Il Carnevale ha un suo fascino che prende emotivamente adulti e bambini. In tutta Italia si svolgono eventi sotto forma di processioni, rappresentazioni teatrali, sfilate di maschere e carri allegorici, canti, balli. È una recita grottesca della vita in cui convivono sacro e profano. Satira e travestitismo. Vita e morte.

A Carnevale ogni scherzo vale. Tutto è consentito. Le parodie non hanno censure. È l’ultimo giorno prima della Quaresima in cui è consentito mangiare “grasso”.


Trionfo e morte di Carnevale – un Carnevale Atellano, Sant’Arpino 1982-1999

C’è questo libro di Salvatore Di Vilio che documenta fotograficamente il Carnevale di Atella a Sant’Arpino (CE). Le fotografie non invecchiano, per certi aspetti. Anzi, maturano nell’archivio come del buon vino nelle botti e dal loro invecchiamento possono nascere progetti editoriali che possono creare piccoli, grandi miracoli.

Infatti, nonostante il servizio fotografico fosse stato realizzato alla fine del XX secolo, solo nel 2009 prese luce questo documento che servì a incuriosire i giovani del territorio che non avevano mai vissuto questa loro antica tradizione.

E dalla curiosità stimolata dal libro alla rinascita di nuove edizioni di quel Carnevale, il passo fu breve.

Salvatore Di Vilio ricorda che si iniziava fin da novembre nella preparazione del Carnevale Atellano e collaborava lui stesso alla nascita:


Il Carnevale di Atella era ed è una mia identità culturale. Facevo parte dell’organizzazione, era un’esperienza che iniziava a novembre, facevo le prove per la rappresentazione della canzone di Zeza, mettevamo su dei laboratori musicali e di cartapesta per realizzare le maschere. Esperienze indimenticabili per quegli anni.  


Le immagini furono scattate su pellicola 35 mm ad alta sensibilità e poi tirate nella fase di sviluppo.

Scene che ricordano i mondi onirici e paradossali di Fellini, le follie surreali di Hieronymus Bosch, le folle contadine animate dalla fantasia nei dipinti di Bruegel. Un Carnevale locale ma non privo di dettagli nella sua rappresentazione. Ritratti in maschera e non, costumi, teatro, processioni, danze, canti, urla, suoni e rumori, e tutto si ascolta in queste fotografie. Magia delle sinestesie visive. Come se lo si vivesse stando tra il pubblico. Con taluni inevitabili mossi e sgranature che rendono più veraci e d’azione le stesse scene immortalate.

La bellissima presentazione del libro è del romanziere e critico letterario Giuseppe Montesano che addentra il lettore nel contesto storico-antropologico dell’evento.





Trionfo e morte di Carnevale – un Carnevale Atellano, Sant’Arpino 1982-1999

di Salvatore Di Vilio

Prefazione di Giuseppe Montesano

Formato: 24x28 brossura con sovracoperta

96 pagg.

92 fotografie

Prezzo: 25€

Contatti: info@salvatoredivilio.it - cell. 348 3958347


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