alexa
 
logo logo

03/05/2025 - Aggiornato alle ore 03:45:43

vuoi contribuire con un tuo articolo? mandalo a redazione.mag@ilas.com
// Pagina 3 di 12
21.02.2024 # 6394

DRAMA. Cesare Accetta, un manipolatore della luce in mostra

Dopo otto anni dall‘ultima mostra, torna Cesare Accetta. Al Blu di Prussia

di Marco Maraviglia

Fino al 6 aprile in mostra alla galleria Al Blu di Prussia, DRAMA, di Cesare Accetta.

 


Conobbi Cesare Accetta di persona solo nel ‘97 in occasione di uno degli appuntamenti dei Lunedì della fotografia organizzati da Vera Maone e ospitati presso l‘Archivio Parisio.

Quel pomeriggio mostrò un video che consisteva in una panoramica circolare che non era di 360° ma, in maniera surreale, riprendeva più piani verso l‘infinito.

La ricerca fotografica di Cesare Accetta è sempre stata prevalentemente sul “movimento” sperimentando le varie opportunità che esso propone.

Un movimento fotografico che non si ferma esclusivamente sui tempi lunghi di esposizione dell‘otturatore ma basato anche sul movimento della fotocamera in fase di ripresa.

 

E non è tutto.

Cesare Accetta indaga da sempre anche il movimento della luce.
Se fotografia è “scrivere con la luce”, Accetta scrive le sue fotografie osservando le infinite variazioni della luce. In studio o in esterni. Plasmandone l‘immaterialità dei fotoni. Caratteristica essenziale per la conduzione della direzione della fotografia per il teatro e il cinema. Non a caso Accetta è wikipedizzato come Direttore della Fotografia.

E quando entri nella galleria di Al Blu di Prussia per visitare DRAMA, la sua attuale mostra, ti rendi conto che per la sistemazione della luce in sala c‘è la sua esperienza di light designer fatta in oltre quarant‘anni di esperienza.

Esperienza maturata come fotografo di scena per il Teatro Instabile di Napoli, per Falso Movimento di Mario Martone, per Antonio Neiwiller e tanti altri. Fino ad avere incarichi come fotografo di scena per Morte di un matematico napoletano e poi con L‘amore molesto di Martone.

E finalmente esordisce come direttore della fotografia nel cinema per le regie dei film di Antonietta De Lillo, Pappi Corsicato, Nina Di Majo e per lo stesso Martone.

 

Si parte dal nero per plasmare la luce:

 

Il nero è stato ed è il mio momento di ricerca privilegiato e continua ad essere presente nella mia ricerca; il teatro, inteso come scatola nera, è come la camera oscura. Tutto con la luce deve e può succedere. Quello che si vede e quello che si intravede, ma anche «quel che non si vede»,come diceva Antonio Neiwiller”.

 -  Cesare Accetta, dicembre 2023

 

Si entra nella galleria di Al Blu di Prussia e nel primo spazio vi sono fotografie in grande formato a colori. Un corpo femminile mosso, indefinito, tra le fronde di un bosco e anch‘esse mosse, fanno da contrappunto ai ritratti di attrici siti nello spazio successivo. Volti immersi in un nero intenso dai quali scorgere pathos espressivi e l‘occhio si spinge nel dettaglio delle immagini quasi a voler cogliere altre vibrazioni nella bassa luce che li illuminano.

In fondo, un video al rallenty che ricorda la tecnica delle installazioni di Bill Viola. Il ritratto femminile è unico, fisso, ma il lento movimento delle luci e ombre sul suo volto fanno scoprire l‘infinità della gamma emozionale dell‘immagine con le quasi impercettibili variazioni della luce.

 

In questa mostra ritornano tutte le coordinate e le costanti del lavoro di Cesare: il nero, la luce, il corpo, il colore, il tempo, la ricerca della costruzione di un‘idea incarnata sempre nella figura femminile, in un‘impostazione creativa dove la finzione, ed il soffermarsi innanzitutto sul dato emozionale che essa genera, conferma quanto determinante sia per lui il rapporto con la dimensione drammatica del teatro e del cinema.

- Maria Savarese

 

 

Cesare Accetta

Si approccia alla fotografia negli anni ‘70, intrecciando da subito la sperimentazione personale con il teatro di ricerca come fotografo di scena dei principali gruppi e teatri d‘avanguardia napoletani e italiani.

Cesare Accetta ha esposto negli anni il suo lavoro in diverse gallerie e musei italiani. Vanno ricordate alcune importanti mostre, come 03 – 010 nel 2010 al Museo di Capodimonte di Napoli; Dietro gli occhi nel 2012 al PAN| Palazzo delle arti Napoli, in cui ha raccontato vent‘anni di teatro di ricerca napoletano dal 1976, attraverso fotografie per lo più inedite tratte dal suo prezioso archivio di teatro; In luce nel 2016 al Museo Madre di Napoli, opera acquisita nella collezione permanente.

 

 

CESARE ACCETTA – “DRAMA”

A cura di Maria Savarese

ideato e realizzato in collaborazione con Alessandra D‘Elia

Al Blu di Prussia – Fondazione Mannajuolo

Via Gaetano Filangieri, 42

dal 9 febbraio al 6 aprile 2024

Orari: martedì-venerdì 10.30-13/16-20; sabato 10.30-13.00 



Nella stessa categoria
30.01.2024 # 6387

Brassaï. L’occhio di Parigi

Milano, Palazzo Reale, dal 23 febbraio al 2 giugno 2024

di Paolo Falasconi

Dal 23 febbraio al 2 giugno, un‘importante esposizione artistica è in programma presso Palazzo Reale, intitolata "Brassaï. L’occhio di Parigi". Questa mostra è promossa dal Comune di Milano – Cultura e prodotta con la collaborazione di Palazzo Reale e Silvana Editoriale, insieme all‘Estate Brassaï Succession.

La retrospettiva, curata con grande maestria da Philippe Ribeyrolles, studioso e nipote del celebre fotografo, presenta una straordinaria collezione di oltre 200 stampe d‘epoca, sculture, documenti e oggetti appartenuti a Brassaï. Questo eclettico assortimento offre uno sguardo inedito sull‘opera dell‘artista, con particolare enfasi sulle iconiche immagini dedicate alla vita parigina.

Nato ungherese con il nome Gyula Halász, Brassaï ha adottato lo pseudonimo in onore della sua città natale, Brassó, diventando un parigino d‘adozione. Definito da Henry Miller come "l‘occhio vivo" della fotografia, Brassaï ha giocato un ruolo chiave nella scena fotografica del XX secolo.

In stretta relazione con figure come Picasso, Dalí e Matisse, e vicino al movimento surrealista, Brassaï ha catturato l‘atmosfera notturna della Parigi dell‘epoca, immortalando lavoratori, prostitute, clochard, artisti e girovaghi solitari. La sua opera del 1933, "Paris de Nuit" (Parigi di notte), è considerata fondamentale nella storia della fotografia francese.

Collaboratore della rivista surrealista "Minotaure", Brassaï ha interagito con noti scrittori e poeti come Breton, Éluard, Desnos, Benjamin Péret e Man Ray. Philippe Ribeyrolles, curatore della mostra, sottolinea l‘importanza di esporre Brassaï oggi, esplorando la diversità dei soggetti affrontati e immergendosi nell‘atmosfera culturale di Montparnasse, dove l‘artista si mescolava con altri intellettuali, tra cui il connazionale André Kertész.

Brassaï appartiene alla "scuola" francese di fotografia definita "umanista", caratterizzata dalla sua attenzione ai protagonisti dei suoi scatti. Oltre alla fotografia di soggetto, Brassaï ha esplorato i muri di Parigi e i loro graffiti, testimonianza del suo legame con le arti marginali e l‘art brut di Jean Dubuffet.

La sua notorietà cresce ulteriormente nel 1956, quando Edward Steichen lo invita a esporre al Museum of Modern Art (MoMA) di New York con la mostra "Language of the Wall. Parisian Graffiti Photographed by Brassaï". Successivamente, la collaborazione con la rivista "Harper’s Bazaar" consolida i legami di Brassaï con l‘America.

La mostra sarà arricchita da un catalogo curato da Silvana Editoriale e Philippe Ribeyrolles, con un testo introduttivo di Silvia Paoli.



INFO

Brassaï. L’occhio di Parigi
Milano, Palazzo Reale Piazza Duomo 12
23 febbraio - 2 giugno 2024
 
Orari
Da martedì a domenica 10:00 -19:30
Giovedì chiusura alle 22:30 Lunedì chiuso
 
Biglietti
Open: € 17,00 Intero: € 15,00 Ridotto: € 13,00
 
Per informazioni
palazzorealemilano.it  mostrabrassaimilano.it
 
Social IG, FB @silvanaeditorialeprojects
 
Ufficio stampa Mostra
Studio ESSECI di Sergio Campagnolo
tel. 049.66.34.99 - ref. Simone Raddi simone@studioesseci.net
 
Ufficio stampa Silvana Editoriale
Alessandra Olivari – press@silvanaeditoriale.it
 
Ufficio Stampa Comune di Milano
Elena Conenna - elenamaria.conenna@comune.milano.it


in copertina: Brassaï: Soirée Haute couture, Paris 1935 © Estate Brassaï Succession - Philippe Ribeyrolles

Nella stessa categoria
31.10.2023 # 6360

Alfa Castaldi, un outsider della fotografia

Al Blu di Prussia per conoscere il lavoro di uno dei fotografi più trasversali del ‘900

di Marco Maraviglia

E poi ci si vedeva come le star a bere qualcosa al Jamaica bar, citando Vita Spericolata di Vasco Rossi. Intellettuali, artisti, politici, gente di spettacolo, tutti passavano di lì, in via Brera a Milano. Dove si formavano parte dei fermenti culturali milanesi e italiani del dopoguerra.

Il Jamaica era frequentato anche dal fotografo Alfa Castaldi. Classe 1926, eccentrico, dinamico nonostante la sua mole robusta, dalla simpatia contagiosa, era versatile, eclettico. Un professionista della fotografia conosciuto come “fotografo di moda” ma che ha abbracciato reportage, ritrattistica, fotografia sociale, pubblicità, ricerca e sperimentazione. E le sue immagini riflettono il suo essere esuberante, creativo, ironico, affabile. Un grande comunicatore che portò nella fotografia una ventata di fresca innovazione.

 

La fotografia di Alfa è stata davvero un grande contenitore di moda a – suo – modo, vissuta sempre con l‘occhio del reporter, con l‘etica del ricercatore, con il “clin d‘oeil” degli amici artisti del bar Giamaica…

- Anna Piaggi, 2005

 

Alfa Castaldi, nato a Milano, è stato un riferimento della fotografia dagli anni ‘50 fino alla sua morte avvenuta nel 1995.

Allievo prediletto a Firenze del grande storico e critico d‘arte Roberto Longhi che gli stava creando la possibile opportunità di un incarico ministeriale, Castaldi preferì correre da solo per intraprendere la carriera di fotografo.

Quando torna a Milano inizia a frequentare il Jamaica che diventa il suo punto di riferimento dove poter anche lasciare in deposito le sue attrezzature non avendo ancora uno studio fotografico. Lì incontra i fotografi Mario Dondero, Ugo Mulas, Carlo Bavagnoli coi quali discute di fotografia immaginando nuovi scenari che ben presto iniziò a creare anche grazie alle osservazioni che faceva sui lavori dei fotografi della Magnum.

Perché lo scambio di idee, la loro condivisione, il guardarsi intorno, non poteva non portare una mente creativa come quella di Alfa a una contaminazione nel suo stile: quello di non arrugginirsi in un‘etichetta. Perché il suo stile era innanzitutto determinato da libertà, curiosità, interesse per tutto ciò che stimolava la sua creatività.

 

Alfa Castaldi shakerava la fotografia di moda col reportage.

Nel 1968 realizzò a Praga, per la rivista “Arianna”, il primo shooting di moda italiano ambientato nell‘Europa orientale in quel momento di grande cambiamento storico che conosciamo. Facevano da sfondo agli abiti di alcuni pionieri del fashion made in Italy come Krizia, Ken Scott e tanti altri, i monumenti come il municipio di Starè Mesto e la casa natale di Franz Kafka.

Per Uomo Vogue realizzò alla fine degli anni ‘70 Compagnia di Stile Popolare, una serie di ritratti a pastori sardi ed abruzzesi, contadini tirolesi e tabarri emiliani. Realizzati con banco ottico in grande formato e sempre in esterni. 

 

Cercavo le radici della naturale eleganza maschile e ritrovavo, di volta in volta, la purezza del disegno e dell‘esecuzione artigianale, da sempre ragione prima dello stile. Così come riscoprivo l‘autenticità di tessuti, panni, cotoni: tessuti fabbricati con estrema attenzione – con una cura essa pure artigianale – per gente che della qualità faceva una ragione di vita.

- Alfa Castaldi (1995)

 

La fotografia di moda per Alfa Castaldi era dinamica, le modelle erano spontanee, le faceva ridere, muovere, mentre ricaricava la fotocamera con una velocità stupefacente.

 

Non si accontenta di riprendere abiti e modelle secondo i canoni tradizionali. È un ricercatore.

- Giuliana Scimè; 2013 (critica di fotografia)

 

Il lavoro di Alfa Castaldi è immenso nella sua varietà di argomenti trattati. E la mostra, che consta di 80 fotografie selezionate, non è un‘antologica o una retrospettiva, ma una sintesi che offre gran parte del ventaglio artistico della sua carriera.

Una carriera, quella di Castaldi, che fa capire anche di aver avuto l‘intuizione di ritrarre personaggi di cui all‘epoca non era scontato il loro successo. E possiamo vedere i giovanissimi fotografi Ugo Mulas, Oliviero Toscani e Bruce Weber; Monica Vitti ritratta nel 1960 all‘alba dei suoi inizi cinematografici. E altri personaggi del mondo della moda, dell‘arte, dello spettacolo, ritratti agli inizi della loro carriera.

Una parete di Al Blu di Prussia è un omaggio a Napoli con scene di strada e vedute che sembrano citazioni della Scuola di Posillipo, Migliaro, Irolli, Scarfoglio. Perché Castaldi tra gli interessi per l‘architettura, i murales parigini, le manifestazioni contro il nucleare a Parigi, aveva l‘arte nel sangue e grazie anche a Roberto Longhi.

 

Nella sala di proiezione della galleria, un video che riserva altre sorprese come i ritratti realizzati con obiettivo soft focus, senza lenti e montato su un soffietto. Oppure la sua sperimentazione sulle fotografie cubiste realizzate su lastre 20x25 e con un lungo lavoro di esposizioni multiple inserendo maschere nello chassis.

Gli spot dei caroselli della Facis in cui è protagonista interpretando se stesso.

E poi ancora, i testi del suo romanzo rimasto incompiuto, Ali Joo, che scorrono su immagini inedite.

Un filmato in cui si percepisce tutta la stima e amore per il padre, da parte del figlio Paolo Castaldi anch‘egli fotografo, e che cura l‘Archivio Alfa Castaldi.

 

Ci sarebbe tanto altro da dire, questo articolo è riduttivo di fronte a quel vulcano di Alfa Castaldi.

Bisogna vedere la mostra per comprendere parte del suo mondo intimo e professionale.

 

La mostra è realizzata grazie alla collaborazione della Fondazione Mannajuolo con l‘Archivio Alfa Castaldi che da anni compie un meticoloso lavoro di catalogazione, archiviazione, conservazione e gestione dell‘opera del fotografo milanese, composta da oltre 12.000 immagini.

 

 

Alfa Castaldi

a cura di Maria Savarese

Al Blu di Prussia

via Gaetano Filangieri, 42 - Napoli

dal 27ottobre 2023 al 5 gennaio 2024

Orari: martedì-venerdì 10.30-13/16-20; sabato 10.30-13

Nella stessa categoria
27.10.2023 # 6359

Anders Petersen in mostra alla Spot home gallery

Lo sguardo di un artista svedese su una Napoli fatta di bianconeri da decodificare

di Marco Maraviglia

Anders Petersen, classe 1944, è il pioniere della prima residenza d‘artista fortemente voluta da Cristina Ferraiuolo gallerista della Spot home gallery. Un progetto ideato nel 2019 ma, causa pandemia, rimasto in sospeso e poi finalmente andato in porto.

Circa 60 fotografie bianconero di medie e grandi dimensioni realizzate dall‘artista durante due fasi per un totale di 35 giorni, tra il maggio 2022 e ottobre/novembre 2022.

Un lavoro in cui Cristina Ferraiuolo ha fatto da fixer girando con Petersen per Napoli, seguendo le sue ispirazioni e suggerendogli luoghi in cui sapeva che avrebbe individuato spunti per il progetto.

 

Anders Petersen non poteva che essere il primo artista in residenza in galleria. Napoli, con il suo caos e la sua  umanità variegata, era il luogo ideale per un fotografo come lui. Nella sua lunga carriera ha fotografato tantissime città, da Tokyo a Londra, da Valparaiso a Sète. Napoli, città-mondo, con le sue mille sfaccettature, le contiene un po‘ tutte.

- Cristina Ferraiuolo

 

Qui non trovate foto “di” Napoli ma foto “a” Napoli.

Immagini scattate a Napoli ma che seguono la poetica tipica di Anders Petersen che cerca estemporaneità, emozioni, dettagli con i quali entrare in empatia per sentirsi lui stesso il soggetto ritratto.

Sembrano fotografie scattate a Parigi, Londra, New York o altre città del mondo, ma è Napoli. Colta in una sua esclusiva intimità attraverso gli occhi del fotografo svedese.

Perché non vi è quasi alcun riferimento architettonico che possa far risalire alla città. Ma il carattere verace, surreale e sanguigno della città, è quel che emerge. Quello che normalmente non “ascoltiamo” vivendola tutti i giorni.

Scorgerete un vassoio per i dolci immaginando che sia stato ritratto in uno dei più famosi caffè di Napoli, ma non è importante sapere se è quello. C‘è da riflettere invece sul perché Petersen l‘abbia ritratto e coglierne la sua bellezza che non va descritta ma vista di persona con quella stessa attenzione metafisica che lui ha percepito.

Riconoscerete Pompei, il Cimitero di Poggioreale o Piazza Mercato, ma non è quello che l‘autore voleva mostrare. Bisogna entrare invece in quell‘empatia tipica che accompagna Petersen da sempre tra lui e i soggetti che catturano la sua attenzione.

Sono immagini senza luogo e atemporali. Evergreen. Potrebbero essere state scattate negli anni ‘60 o su di lì perché sono indatabili.

Alcune sembrano scattate allo Studio 54 di New York o nella Factory di Andy Warhol, ma qui è Napoli. Forse una città universale come lo sono le immagini? Probabile. È lo stile e la ricerca del fotografo che rende il tutto fuori dal tempo restituendoci una Napoli al di fuori dei luoghi comuni.

Il look di alcuni ritratti che richiama atmosfere hippy, situazioni da burlesque o da vecchio circo. Forme insolite, come l‘enorme siepe a poltrona davanti al Museo di Capodimonte o come quella “cosa” maculata di cui non capisci se è un polpo o un pesce. Lo potevi fotografare anche tu? Non l‘hai fatto e vince chi arriva primo: chi osserva dentro ciò che normalmente è innanzi ai nostri occhi ma che ci sfugge.

Perché l‘agave? Perché le teste di pescespada? E quelle bambole forse in attesa di essere “curate”?

L‘allestimento in galleria è come un puzzle di ritagli di vita minimalista. Come un album di appunti visivi scritti in maiuscolo. Vederli raggruppati è come sentire un‘unica essenza che tocca le corde di tutti i sentimenti della città con i suoi odori, suoni e rumori.

 

Dettagli… mani spesso protagoniste che si intrecciano, carezzano, fermano; braccia che armonizzano l‘inquadratura, il contatto fisico tra i soggetti ritratti. E poi sorrisi cogliendo la bellezza della vecchiaia. Un elegante uomo anziano, in giacca e cravatta con una gerbera nella mano che attende l‘ascensore, assorto da chissà quali pensieri; i gemelli per incrementare la sua “collezione” sul genere.

Fotografie verticali, molte con inquadratura leggermente inclinata, dove la loro diagonale è percorsa dal centro emozionale della composizione.

Bianconeri un po‘ lomography, contrasti alti, vignettature. Scattate con Contax T3 a pellicola, con obiettivo 35 mm perché Peterson preferisce stare dentro la scena che riprende.

 

Voglio essere il  più vicino possibile in modo  da  poter  sentire che  qualunque cosa io fotografi assomigli il più possibile a un autoritratto. Voglio che  le mie foto siano  una  parte  di me, voglio riconoscervi i miei sogni,  le mie paure, i miei desideri.

 

Biografia

Anders Petersen (Stoccolma,1944) è uno dei più importanti fotografi contemporanei, noto per le sue immagini in bianco e nero  dallo stile documentario intimo e personale. Il suo esordio internazionale è avvenuto nel 1978  con la pubblicazione di Café  Lehmitz, uno  dei libri fotografici più influenti di tutti i  tempi, in cui ha ritratto la  vita quotidiana in una  bettola  di Amburgo  alla fine degli anni Sessanta. Café  Lehmitz è entrato a far parte  della cultura pop quando Tom Waits ne ha utilizzato una foto come copertina del suo album Rain Dogs del 1985. Ad oggi Petersen ha pubblicato più di 40 libri, molti dei quali sono diventati parte integrante della storia della fotografia. Tra i premi e i riconoscimenti ricevuti  si possono citare: Il premio Photographer of the Year, ai  Rencontres d‘Arles 2003;  il premio speciale della giuria per la mostra Exaltation of Humanity, al festival internazionale di fotografia di Lianzhou, Cina, 2007; il premio Dr. Erich Salomon della Deutsche Gesellschaft für Photographie, 2008; il premio al miglior libro del 2009 ai Rencontres d‘Arles Book Award insieme a JH Engström per From Back Home. Inoltre, Petersen ha ricevuto  il Paris Photo e l‘Aperture Foundation Photo  Book of the Year Award 2012, per City Diary, e il premio Lennart af Petersen, 2019. Il lavoro di Anders  Petersen è rappresentato nelle collezioni di Fotografiska Stockholm, The Museum of Modern Art New York, Hasselblad Center Göteborg, Bibliothèque nationale de France Paris, Centre Pompidou Paris,  Museo di Arte Contemporanea Roma, Museum of Fine Arts Houston, Moderna Museet Stockholm, Maison Européenne de la Photographie Paris, Museum Folkwang Essen e Fotomuseum Winterthur, tra gli altri. Dal 1969 ha tenuto regolarmente mostre personali e collettive in tutto il mondo.

 

 

Napoli / Anders Petersen

A cura di Cristina Ferraiuolo

Spot home gallery

Via Toledo,  66 - Napoli

dal 21 ottobre 2023 al 31 gennaio 2024

 

Contatti

+39 081 9228816

info@spothomegallery.com

www.spothomegallery.com

Nella stessa categoria
24.10.2023 # 6358

The 1950s, storie americane e rock‘n‘roll

14 fotografi della Magnum Photos in mostra con 82 fotografie che raccontano il sogno americano

di Marco Maraviglia

Per la prima volta le fotografie di 14 grandi fotografi della Magnum sono esposte insieme dal 7 ottobre al 10 dicembre per una Mostra fotografica dedicata alla cultura americana degli anni Cinquanta.

Ecco chi sono gli autori delle 82 immagini esposte: Dennis Stock, Elliott Erwitt, Werner Bischof, Wayne Miller, Philippe Halsman, Inge Morath, Burt Glinn, Bob Henriques, Rene Burri, Cornell Capa, Leonard Freed, Erich Hartmann, Bruce Davidson, Eve Arnold.

 

La guerra era finita. C‘era la Guerra Fredda, la “spina nel fianco” della rivoluzione cubana, erano anni segnati dalla segregazione razziale, ma si guardava al futuro. Esplodeva il benessere economico americano. Il miracolo americano. L‘alfabetizzazione ebbe un‘impennata. Nelle case prendevano posto gli elettrodomestici che miglioravano la qualità della vita delle casalinghe. Entrava nella cultura americana quel simbolismo poi sceneggiato anche nella serie tv di Happy Days.

Era tutto rock‘n‘roll. Una società al ritmo di Cadillac cabriolet, drive-in e ragazzine che si strappavano i capelli ai concerti di Elvis Presley mentre Joe Di Maggio faceva le sue ultime battute a baseball. Mentre Gregory Peck, Paul Newman, Audrey Hepburn, James Stewart, Charlton Heston, Grace Kelly e tanti altri, recitavano in quelli che sono divenuti cult movie della storia del cinema americano.

La vita era leggera, spensierata e allegra, rappresentata dai film con Marilyn Monroe ma c‘erano anche ombre di una Gioventù Bruciata. Un delirio collettivo di una società americana che andava al massimo e che riusciva finanche a esportare quello stile di vita in gran parte del mondo occidentale.

 

Un mondo che gettava i semi della POP Art e che lo stesso Andy Warhol ne descrisse alcuni dettagli, di quelli messi sotto al tappeto (America. Un diario visivo). Un mondo che avrebbe dovuto fare poi i conti con le contestazioni degli anni ‘60 contro la guerra in Vietnam e la fobia del comunismo. Ma questa è un‘altra storia.

Era il mito americano ciò che contava. Industrie, consumismo, benessere, emancipazione femminile, tutto concorreva ad alimentare il sogno americano.

In quegli anni i grandi fotografi della Magnum Photos documentavano la società americana a 360°.

 

Artisti che hanno catturato lo spirito della società d‘Oltreoceano di quei tempi, restituendocene intatta la bellezza, la potenza delle trasformazioni in atto insieme alle profonde contraddizioni che ancora la caratterizzavano, tracciando così una nuova mappa dell‘identità americana ed esplorando le sue dimensioni sociali, culturali, economiche.

- dal comunicato stampa

 

Gli scatti selezionati in mostra pongono l‘attenzione principalmente sull‘essere umano, in relazione al contesto culturale, sociale, economico e paesaggistico di un decennio felice. Sono immagini a volte in chiave umanista, oppure in stile pubblicitario e fashion, o semplicemente documentarie. O anche ibride, dove il mix di stili erano interscambiabili rendendole più universali, naturali, vive, americane come quella di James Dean in Times Square che è allo stesso tempo ritratto, foto di moda e streetphotography.

Perché è tutto rock‘n‘roll, baby. C‘è dello swing in quelle storie in bianconero. Ed è per questo che The 1950s è prodotta e organizzata dal Summer Jamboree: il Festival Internazionale di musica e cultura dell‘America anni ‘40 e ‘50 più grande d‘Europa.


Un happening, che si terrà dal 7 al 10 dicembre, per tutti gli appassionati di quei favolosi 1950s americani, tra concerti live di Rock‘n‘Roll, Swing, Country, Rockabilly, Rhythm‘n‘Blues, Hillbilly, Doo-wop, Western swing e i classici di Natale suonati da artisti provenienti da tutto il mondo al Pala Verdi.

E, negli spazi delle Fiere di Parma, in alcuni padiglioni sarà possibile fare rifornimento di regali vintage e prelibatezze enogastronomiche. E poi ancora, esibizioni di ballo, Burlesque Show e Dance Camp, Tatoo Convention con i maestri del tatuaggio 24h.

Il Summer Jamboree sarà per la prima volta in versione Christmas edition#1.

 

Pronti a partire? Chiudete gli occhi e immaginatevi già in questo viaggio nel sogno americano a bordo di una chopper o di una Cadillac, entrando in un libro di Jack Kerouac. Tra fotografie da osservare al ritmo di Johnny B. Goode di Chuck Berry e White Christmas cantata da Pelvis.

 

 

THE 1950s

Storie americane dei grandi fotografi Magnum

un progetto espositivo originale, prodotto e organizzato dal Summer Jamboree in collaborazione con l‘agenzia Magnum Photos

a cura di Marco Minuz per Suazes insieme con Summer Jamboree

dal 7 ottobre al 10 dicembre 2023

Palazzo del Governatore, Parma

Info

www.summerjamboree.com

Tel. 0521/218035

Orari: da mercoledì a domenica dalle 10 alle 19

Biglietto

Intero 8,00 euro

Ridotto 6 euro 

-       Studenti universitari dai 18 ai 25 anni con documento e tesserino universitario

-       Visitatori con invalidità

-       Convenzioni con aziende e/o partner della Mostra

-       Gruppi scuole

Gratuito

-       Minori di 14 anni

-       Guide turistiche abilitate con tesserino di riconoscimento

-       Un accompagnatore per ogni gruppo anche scolastico

-       Un accompagnatore per disabili che presenti necessità

-       Giornalisti accreditati dall‘ufficio stampa degli organizzatori della Mostra e del Comune di Parma




Foto:

Copertina: Wyoming, USA, 1954; © Elliott Erwitt/Magnum Photos 

Al centro: James DEAN in Times Square, New York, USA, 1955; © Dennis Stock/Magnum Photos

In calce: Beauty class at the Helena Rubinstein Salon, New York, USA, 1958; © Inge Morath/Magnum Photos 



Nella stessa categoria
27.09.2023 # 6340

I futuri possibili di Pino Dal Gal

In esposizione 20 fotografie che immaginano futuri visionari, forse non auspicabili

di Marco Maraviglia

Pino Dal Gal è un giovanottone veronese di 86 anni che non smette mai di stupirsi di fronte a ciò che ha innanzi alla sua fotocamera. Direi che ci sono tre età per ogni individuo: anagrafica, biologica e mentale. E l‘età mentale di Dal Gal sembra quella di un ragazzino puro. Di quelli che si pone sempre domande per scoprire il mondo. Il suo punto di vista di ciò che fotografa non è mai, quasi mai, dall‘esterno, ma dentro.

Rileva e poi rivela ciò che il soggetto che riprende vorrebbe raccontare di sé. Sposta, accantona, scavalca le sovrastrutture normalmente inviolabili e terrene dove si ferma l‘occhio umano, per insinuarsi in uno spettro invisibile di informazioni non dette, non descritte, ma percepibili. Come rallentare i battiti del cuore. Respirare lentamente. Distaccarsi da se stesso. Abbassare la soglia dei sensi per mettersi in contatto con una realtà irreale, surreale, metafisica. Immaginando di ascoltare racconti nella brezza delle energie che emanano i suoi soggetti. Senza parole ma fatti di essenze da ricostruire in significati da restituire attraverso le immagini.

Sembrerebbe una pratica mistica, stregonesca, sciamanica e forse lo è.

 

Immaginate di trovarvi a 86 anni. Avete visto quasi tutto della vita. Bellezza e bruttezza. Avete vissuto la parte più bella della vita italiana. A 30 anni vivevate il pieno del boom economico. Osservavate comunque con coscienza la rivoluzione cubana e la Guerra Fredda, la guerra in Vietnam, la rivoluzione studentesca e il movimento hippy. Un mondo che vi è corso dietro per 86 anni. A 50 anni avete vissuto il boom delle tv private e l‘apoteosi della pubblicità. Un mondo dove i grandi fenomeni culturali facevano a cazzotti con gli anni di piombo, il terrorismo ecc. ecc. Poi raggiungete l‘età in cui le nuove tecnologie iniziano a cambiare il mondo, i computer, internet, la fotografia digitale, gli smartphone, i riconoscimenti facciali, l‘intelligenza artificiale ma nel frattempo l‘Amazzonia viene disboscata e osservi tutte le altre le problematiche dell‘ambiente.

Ecco, a un certo punto della vita ti rendi conto di averne viste tante e immagini quel che potrebbe essere il futuro prossimo imminente e quello più lontano.

 

Futuri possibili ma non necessariamente auspicati.

La curiosità di un fotografo ma innanzitutto un uomo che immagina un futuro deprivato spesso della componente etica, morale e umana e quindi di un mondo depravato.

 

E nell‘inquietudine di un quadro apocalittico e catastrofico Dal Gal, in questo suo ultimo lavoro, presenta un “quadro” visivo della scena contemporanea che guarda al futuro, con una concreta e possibile visione che investe le persone e le cose, l‘ambiente e il paesaggio, i territori e le nostre città.

Il conflitto bellico, esteso in più parti del pianeta, la difficoltà a pensare un‘ecosostenibilità dell‘ambiente e la spersonalizzazione dell‘individuo, trovano nelle opere di Dal Gal una propria linea e idealità della rappresentazione visiva, attraverso figure e paesaggi che il fotografo veronese rilancia quale prospettiva sul mondo grazie al suo attento e profondo sguardo”.

- Enrico Gusella

 

È come osservare una macchina del tempo che spara cartoline dal futuro i cui destinatari sono quelli che dovrebbero salvaguardare il presente per costruire un futuro sostenibile e a misura d‘uomo.

“Cartoline” che fanno da monito. Immagini che sembrano voler anticipare paesaggi desertificati, automi ormai inservibili. Una prospettiva che Pino Dal Gal non auspica di certo ma che con il suo occhio da “sciamano” ci pone avanti affinché resti la volontà di non perdere bussola e timone per arginare i disastri planetari e la spersonalizzazione dell‘individuo.

 

 

Breve Biografia (dal comunicato stampa)

Pino Dal Gal (1936) vive e lavora a Verona.

Inizia il suo percorso fotografico con il neorealismo degli anni Cinquanta e Sessanta, conseguendo numerosi riconoscimenti e premi nazionali.  Negli anni Settanta lavora  ai servizi editoriali della A.Mondadori e, in seguito, apre a Verona la prima agenzia di pubblicità e marketing, attiva fino al 2008. Nella propria ricerca fotografica Dal Gal, ispirandosi al cinema di Michelangelo Antonioni ha narrato costumi e società, persone e solitudini, con i “racconti” La Mensa, Cimitero d‘auto, Alberi, ma anche noti artisti come Paloma Picasso, lo scultore spagnolo Miguel Berrocal con il quale ha avuto un lungo sodalizio e una Mostra dedicata alla Galleria Il Diaframma/MI 1972 (testo di Lanfranco Colombo), oltre all‘artista australiana Vali Myers (V.Myers Trust, Melbourne).  Successivamente si focalizza su denunce sociali, come testimoniano le foto di “Chicken Story” e “La Cava”, esposte nel 1976/77 al Museo di Castelvecchio di Verona nella mostra antologica curata dal direttore  Licisco Magagnato. Affascinato dalla potenza della natura ha immortalato le rocce antropomorfe di Capo Testa e pubblica il suo primo libro “Là dove parla il silenzio” (testo di Italo Zannier).

Dalla fine degli anni ‘70 è presente alla HRC Gernsheim‘s Collection di Austin (Texas) - la più importante collezione mondiale di fotografia – che nel 2013 espone all‘Hengelhorn Museen di Hildesheim in Germania nella mostra internazionale “The Birth of Photography” (curatori e catalogo Wieczorek, Claude W.Sui).

Nel 2000 a Verona, al Centro Internazionale di Fotografia Scavi Scaligeri,  la sua grande mostra antologica a cura di Lanfranco Colombo, Flaminio Gualdoni e Giorgio Cortenova, allora direttore della Galleria d‘Arte Moderna di Verona. Nello stesso anno pubblica il libro “Emozioni. Immagini luci e silenzi sul Po”, con una presentazione di Alberto Bevilacqua e Italo Zannier a cui segue la Mostra personale “Chicken Story”, testo di Piero Racanicchi, alla Keith De Lellis Gallery  a N.Y.C. Nel 2003 presenta “Soul Shapes” Mostra personale p/ Swinger Art Gallery Verona (testo catalogo (Flaminio Gualdoni). Sue recenti mostre hanno avuto luogo al C.R.A.F di Spilimbergo “Il fiume e altri racconti” testo  di Luigi Meneghelli (2018/2019);  Senigallia con “Mattatoi” Fotografie di Pino Dal Gal e Mario Giacomelli” (2021) cura e testo di Simona Guerra.

 

 

Un futuro possibile. 20 fotografie

di Pino Dal Gal

Villa da Porto Barbaran

Via L. da Porto, 36050 Montorso vicentino VI

Inaugurazione venerdì 29 settembre 2023 ore 19.00

Fino al 15 ottobre

Nella stessa categoria
25.09.2023 # 6339

Quando Stefania Adami decise di andare adagio sui Quartieri Spagnoli

I vicoli più fotografati di Napoli dove gli abitanti non sono folklore

di Marco Maraviglia

Stefania Adami con la sua personale Adagio Napoletano, visitabile fino al 12 ottobre, apre il nuovo ciclo di mostre fotografiche presso Movimento Aperto in via Duomo 290/c, dell‘artista e gallerista Ilia Tufano.

 

«Sono foto fatte sui Quartieri Spagnoli»

«Eh, ma ce le ho anch‘io»

«Sì, ma queste non sono “street photography”»

«Io ho il ritratto di Tarantina»

«Sì, ma è frontale, asettica, un semplice “trofeo”. Giusto per dire che l‘hai fotografata. E poi tutte le tue foto sono in bianconero e non so perché o forse lo immagino»

 

Più o meno questa potrebbe essere una breve conversazione con chi ha scattato spesso foto in uno dei quartieri di Napoli più battuto da decine di fotografi dal dopoguerra ad oggi. Del tipo “lo potevo fare anch‘io”.

Tanti i documenti fotografici di denuncia sociale, di esaltazione folkloristica, di ironia popolare che non raramente ridicolizzano certi aspetti locali restituendo l‘apoteosi dell‘oleografia partenopea. Il pittoresco banale. Come quelle cartoline, ormai sbiadite dal sole, esposte fuori la bottega di souvenir e messe a basso prezzo per improbabili collezionisti del vintage.

 

Si tratta di un territorio che negli ultimi anni si è trasformato divenendo di alta curiosità turistica. Dove finanche i turisti stranieri, tra pizzerie, trattorie, panni stesi, “via Totò e Peppino” (via Portacarrese a Montecalvario) e palazzi del ‘600, vanno a visitare il “tempio di D10S” con annesso murale che negli anni pure è stato soggetto a trasformazioni e restauri.

Stefania Adami nelle sue foto non ha ripreso nulla di turistico, non ha spettacolarizzato un luogo per compiacere turisti a caccia di folklore, antropologi, urbanisti, detrattori e denigratori di una parte di Napoli.

A 27 anni venne da Lucca per lavorare a Napoli. Prese casa a ridosso dei Quartieri e la mattina, per evitare le attese dei trasporti pubblici, li attraversava per andare al lavoro. Senza guardare in faccia a nessuno, con gli occhi sui basalti. A passo svelto. Era un periodo in cui percorrere quei vicoli sembrava come addentrarsi in un territorio astioso dove “bisognava stare attenti”.

Poi Stefania Adami, con la sua indole un po‘ ribelle, decise nel tempo di rallentare, guardarsi intorno e…

 

…passo dopo passo, con sorpresa, quei “malfamati” vicoli senza sole diventarono la melodia più accogliente. Si tinsero di colore umano ai miei occhi, offrendomi un ventre materno popolato di sorrisi nuovi e d‘inverosimile generosità.

 

 Volse quindi una nuova modalità di osservazione che cavalcava i versi di una vecchia canzone:

 

Si vuje vulite bbene a ‘stu paese, fermateve ‘nu poco rint‘ e viche, guardate rint‘ ‘e vasce e for‘ ‘e cchiese. Venite insieme a me, pe‘ strade antiche, invece e cammenà vicino ô mare…

(Se volete bene a questa città, fermatevi un poco nei vicoli, guardate dentroai bassi e fuori le chiese. Venite con me, per le strade antiche, invece di camminare vicino al mare)

- Roberto Murolo “Adagio Napoletano”

 

E nasce il suo progetto: Adagio Napoletano.

Gli occhi di una toscana fermano il tempo tra i vicoli più fotografati d‘Italia in un‘atmosfera ovattata, senza rumori, con immagini dall‘intonazione calda. Come caldo è il rapporto che è riuscita a stabilire tra lei e i soggetti ritratti.

Passeggia con la fotocamera tra quei vicoli scrollandosi di dosso i pregiudizi e inizia a conoscere gli abitanti dei bassi. Da vicino. Dentro i loro sorrisi. Attraversando i loro occhi. Per ritrarli in maniera confidenziale. E loro collaborano per le pose.

Salvatore nel frattempo a 58 anni, «se n‘è juto». Viveva tra icone religiose di madonne, Padre Pio e Gesù Cristo. E il quadretto di Marilyn Monroe ai suoi piedi nella foto è quello che dà contemporaneità al suo volto avvolto da una nuvola di fumo.

In un quartiere popolare si fuma tanto per trascorrere il tempo, ma una signora fuma fuori casa per rispetto del figlio che dorme. E se lo guarda con occhi materni che possiamo solo immaginare perché è di spalle.

Tarantina assorta nei suoi pensieri, sembra non avere le rughe che in tanti conosciamo, la luce radente sul suo profilo ne esalta una bellezza dolce e vissuta che probabilmente lei sente di avere.

Una corona di palloncini dopo la festa, di quelle che adornano i portoni per un matrimonio o una comunione, non viene distrutta scoppiando i palloncini stessi, ma è accantonata su un muro, come due paia di scarpe da donna. Perché “possono servire sempre a qualcun altro”. Quasi a voler raccontare quel fil rouge di solidarietà che lega gli abitanti. Perché i bassi dei Quartieri sono una grande casa, un‘unica famiglia con finestre i cui affacci sono interconnessi. Immaginando un «favorite, buon appetito» che si dicono forse a ora di pranzo come quando si pranzava sulle pedane delle cabine al mare.

E in quell‘umanità varia si scorge l‘autoironia, una nascosta eleganza dignitosa anche nello stare in vestaglia per strada. Dove la tv è accesa 24h e si prepara da cucinare fin dalle 10.00 del mattino. Tra sedie fuori i bassi, “bancarielli” (banchetti) e edicole sacre. Mentre qualcuno si arrangia in casa con qualche lavoretto.

 

Sono i Quartieri Spagnoli di Stefania Adami. Intimi. Morbidi. Lenti. Adagi. Un Adagio Napoletano.

 

 

Stefania Adami

Fotografa per passione dall‘età di 11 anni.

Numerose le mostre personali e collettive in tutta Italia e le pubblicazioni di libri fotografici.  L‘opera “L‘inquiLinea del 2014” è esposta in via permanente nel Museo a cielo aperto di “Bibbiena Città della Fotografia”.

 

 

 

Adagio Napoletano

di Stefania Adami

a cura di Giovanni Ruggiero

Movimento Aperto, via Duomo 290/c, a Napoli

dal 20 settembre al 12 ottobre 2023

il lunedì e il martedì ore 17-19, il giovedì ore 10.30-12.30 e su appuntamento chiamando i numeri 3332229274 - 3356440700

Nella stessa categoria
18.09.2023 # 6336

Il Real Albergo dei Poveri visto da Giancarlo De Luca

Dieci anni di esplorazione fotografica lenta nel più grande edificio di Napoli

di Marco Maraviglia

Venerdì 22 settembre alle 16.00 sarà inaugurata al MANN – Museo Archeologico Nazionale di Napoli la mostra fotografica di Giancarlo De Luca “Il Real Albergo dei Poveri” a cura di Roberta Fuorvia.

Una mostra con oltre venti fotografie in bianconero che documentano i dieci anni di esplorazione di De Luca nel maestoso edificio a ridosso del Real Orto Botanico che affaccia su piazza Carlo III.

 

È il palazzo più grande di Napoli. Uno dei più maestosi d‘Europa. Centodiecimila metri quadrati di superficie coperta. La Reggia di Caserta, per intenderci, è di quarantasettemila metri quadrati.

La costruzione del Real Albergo dei Poveri fu voluta dal re Carlo III di Borbone che molti storici, in prima linea Benedetto Croce, ne hanno apprezzato particolarmente la sua visione politica.

Detto anche Palazzo Fuga, dal nome dell‘architetto a cui fu affidato l‘incarico per la sua costruzione, servì ad accogliere la popolazione povera del Regno di Napoli. E così fu.

Ospitò anche orfani e quei bambini abbandonati nella ruota degli Esposti del Complesso Monumentale dell‘Annunziata, una volta fattisi grandicelli.

Ospiti che avevano l‘opportunità di istruirsi, formarsi, imparare un mestiere. Un grande progetto di sussistenza che poteva portare all‘autonomia quotidiana chi non aveva altre strade da intraprendere per vivere.

 

Giancarlo De Luca per dieci anni ha frequentato il Real Albergo dei Poveri in occasione di eventi, visite guidate, festival, aperture occasionali, approfittando ogni volta di scoprire in esso nuovi punti di vista, scorgendo qualche dettaglio insolito, scorci, angoli per tanti anni obliati e non battuti dai consueti visitatori.

 

ho spiato dalle finestre tra i frantumi dei vetri immedesimandomi negli ospiti che avevano riempito di voci e corpi quei luoghi così fuori posto nella loro attuale vuota vastità.

 

Nonostante alcuni spazi siano messi a regime e funzionanti, Giancarlo De Luca principalmente ci mostra con le sue fotografie le zone più abbandonate e che in parte saranno oggetto di restauro grazie anche ai fondi del PNRR. Finestre murate che dopo il restauro probabilmente saranno ripristinate. Scheletri di sedie da scuola accatastate. Erbacce selvagge sparse sui tufi e generate dagli escrementi di piccioni. Zone ancora puntellate in seguito al terremoto dell‘80. E poi ancora, corridoi a tunnel che portavano alle camere degli ospiti. Stanze con volte a botte con rimanenze di affreschi settecenteschi. Dettagli di trompe-l‘oeil.

Immagini da scrutare per scoprire tanti dettagli e giocare mentalmente a intercettare quali facciano parte dei vari periodi storici che si sono succeduti con i vari interventi costruttivi e di ristrutturazione. Tra contaminazioni di strutture in tufo e cemento armato. Se quel che resta di un pavimento sia del ‘700 o di metà ‘800 o più recente. Chiedersi perché nella parte di un muro in tufo c‘è come un rappezzo di mattoni in cotto. E immaginare, attraverso le vivicissitudini di chi ha abitato questo luogo, attraverso tracce come graffiti, lavatrici dismesse, scarpe e pentolame consumato dal tempo.

Perché la fotografia, insegna Walter Benjamin, è strumento documentale ma anche fonte per una lettura critica degli spazi.

Immagini da osservare come voler fare un‘autopsia a un gigante buono di cui presto, si spera, tornerà a vivere in buona parte.

 

… mi sembra doveroso affidare alla cultura collettiva un pezzo importante della sua memoria.

… da consegnare alle future generazioni, per ricordare cosa è stato e cosa può diventare un posto quando – nato per ospitare circa ottomila persone – finisce per essere dimenticato.

 

In esposizione 20 fotografie che restituiscono uno spaccato dell‘edificio monumentale e che è parte integrante della storia di Napoli.

Un lavoro che si integra con quello artistico-fotografico già svolto in passato da altri autori, offrendo un‘ulteriore narrazione per una filologia architettonica interpretabile da contemporanei e posteri. Per quando un giorno nulla sarà come prima.

 

Oggi che siamo, finalmente, alle porte di un‘attività di restauro e riqualifica dell‘Albergo, mi sembra doveroso affidare alla cultura collettiva un pezzo importante della sua memoria. Presto la necessaria e auspicata attività di ristrutturazione eliminerà calcinacci venuti giù sotto il peso del tempo, rimuoverà la vernice scolorita e screpolata che ancora resiste su qualche ringhiera, conferirà freschezza agli ambienti polverosi e desolati.

 

Non poteva mancare la pubblicazione del volume con le immagini più rappresentative di Giancarlo De Luca, che sarà presentato a dicembre, con testi suoi, del Sindaco Gaetano Manfredi, del Direttore del MANN Paolo Giulierini, della curatrice Roberta Fuorvia, dell‘arch. Francesca Brancaccio, del fotografo Luciano Ferrara e dello scrittore Gennaro Rollo,

 

… E dunque non poteva mancare il ricordo dell‘ultimo dei Direttori dell‘antica Fabbrica, Gennaro Luce, che recentemente ci ha lasciati, restando però impresso per sempre nelle immagini ingiallite donatemi dal figlio

 

 

Il Real Albergo dei Poveri

di Giancarlo De Luca

a cura di Roberta Fuorvia

MANN – Museo Archeologico Nazionale di Napoli

Piazza Museo 18/19 - Napoli

Collezione Farnese – Sale 25-26

dal 22 settembre all‘11 dicembre 2023

 

Inaugurazione venerdì 22 settembre 2023 ore 16.00

Nella stessa categoria
13.09.2023 # 6334

Straordinarie quelle donne!

Oltre 100 ritratti di Ilaria Magliocchetti Lombi per la campagna INdifesa di Terre des Hommes

di Marco Maraviglia

Oltre 100 fotografie realizzate da Ilaria Magliocchetti Lombi, su un‘idea della curatrice Renata Ferri, di donne che si sono affermate nel mondo dello spettacolo, della politica, dello sport, del giornalismo, letteratura, editoria, scienza, arte… saranno in mostra allo spazio Extra Maxxi di Roma dal 13 settembre al 6 ottobre.

Oltre cento storie di donne che, in barba ai pregiudizi e discriminazioni di cui sono spesso colpite, ce l‘hanno fatta.

 

Protagoniste contemporanee che hanno vinto battaglie professionali con sacrificio, studio, perseveranza, dedizione. Facendo slalom tra mobbing, indifferenza e spesso svolgendo contemporaneamente anche il “lavoro” più delicato e complesso di questo mondo: quello di madre. Ma c‘è chi ha rinunciato ai figli per la carriera. Perché, tra l‘altro, alcune aziende non accettavano donne decise a fare figli e il congedo parentale su modello svedese, era una lontana chimera.

 

Mediamente lo stipendio delle donne in Italia è dell‘11% in meno rispetto a quello degli uomini.

Donne pluri-laureate che, in certi ambienti di lavoro, sono appellate “signora” e non con il “dott” che sembra riservato stranamente solo agli uomini. O, peggio, usare l‘appellativo “giovane” per una donna quando si ritiene non abbia competenze ed esperienza per pregiudizio o voluta arroganza.

E il cat calling? Il body shaming? Le toccatine non consensuali nell‘ambiente di lavoro? E il non potersi sentire femminile e piacersi, coccolarsi, truccandosi un po‘ e indossare una minigonna andando al supermercato?

Senza parlare delle denunce per stalking, quelle rimaste inascoltate che rischiano di sfociare in finali tragici.

Per dire. Perché non è tutto. In certi luoghi del mondo le cose vanno anche peggio.

 

La mostra è una carrellata di ritratti tutti in verticale, in primo piano, figure intere, piani americani. Immagini sobrie senza essere state scattate con l‘intento di spettacolarizzare i soggetti che sono invece ripresi nella loro semplice personalità.

Perché la fotografa Ilaria Magliocchetti Lombi non ha bisogno di autocelebrarsi attraverso questo lavoro visto che la sua attività è ben consolidata con grandi referenze tra cui pubblicazioni su riviste anche internazionali come Vanity Fair, Rolling Stone, Der Spiegel, El Pais Semanal e tante altre.

Perché qui non si tratta di presentare un lavoro fine a se stesso, ma di un‘operAzione di sensibilizzazione.

 

“Straordinarie” è una sfida agli stereotipi di genere che trasforma il paradigma della donna-vittima in modello di riferimento culturale e politico. Protagoniste del nostro presente, hanno accolto l‘invito alla messa in scena del ritratto fotografico per fare di questa esposizione un corpo unico di volti e voci, una tessitura di memorie, confidenze e dediche.

- Renata Ferri, ideatrice e curatrice della mostra

 

Tra le tante donne ritratte ci sono Alessandra Ferri, Anna Bonaiuto, Concita De Gregorio, Elodie, Emma Bonino, Giovanna Botteri, Ilaria Capua, Ilaria Cucchi, Lella Costa, Liliana Cavani, Liliana Segre, Michela Murgia, Milena Gabanelli, Serena Dandini, Valeria Valente e tante altre personalità di cui alcune anche attiviste riguardo le criticità sulla condizione femminile.

Ogni foto è accompagnata da didascalie con breve biografia delle donne ritratte.

 

La mostra è parte della campagna “indifesa nata nel 2018 (una sorta di gioco di parola: in difesa di indifese), che Terre des Hommes porta avanti ormai da 12 anni per la protezione dei diritti delle bambine e delle ragazze in Italia e nel mondo, con progetti concreti sul campo tra cui anche iniziative di sensibilizzazione come questa mostra, rivolgendosi alle istituzioni e al grande pubblico.

 

Durante i giorni di apertura per le scuole verranno realizzati incontri e visite ad hoc e all‘interno del museo, la mattina del 6 ottobre, verrà presentato il XII Dossier indifesa, l‘annuale report pubblicato da Terre des Hommes, attiva dal 1960, sulla condizione delle bambine e delle ragazze nel mondo.

La mostra è stata realizzata grazie al prezioso sostegno di Deloitte con il patrocinio di Fondazione Deloitte, che ha sposato i valori promossi dal progetto ed è main partner dell‘iniziativa.

 

Foto di copertina

alcune tra le foto in mostra: Elodie, Alessandra Ferri e Serena Dandini; © Ilaria Magliocchetti Lombi

 

Straordinarie, protagoniste del presente

Ideata da Renata Ferri, fotografie di Ilaria Magliocchetti Lombi

Per Terre des Hommes

Spazio Extra MAXXI

Via Guido Reni, 4/A - Roma

dal 13 settembre al 6 ottobre 2023

Ingresso gratuito

Orari di apertura:

lunedì chiuso
da martedì a domenica 11.00 – 19.00

Nella stessa categoria
24.07.2023 # 6307

Dorothea Lange, oltre 200 fotografie al Camera di Torino

Racconti di vita e di lavoro. Fino all‘8 ottobre in mostra una grande retrospettiva di Dorothea Lange

di Marco Maraviglia

Migranti. Ci son sempre stati.

Da dove fuggono le persone, perché migrano, come vivrebbero se continuassero a restare nei loro territori? Facile dire «è la guerra e la povertà che li fanno andar via», ma dove sono i documentari che mostrano le vite all‘estremo di chi vuol scappare? Quante immagini riprese all‘interno dei centri d‘accoglienza abbiamo? Quante foto mostrano le condizioni di lavoro di chi ha lasciato famiglia e la propria terra? Esiste una filiera documentaria dal disagio in terra natia fino alla “sistemazione” finale del migrante?

 

Tra il 1931 e il 1939 in Canada e Centro America ci fu il Dust Bowl. Tempeste di sabbia causate da decenni di un‘agricoltura inadeguata. Mancanza di rotazione delle colture, terreni arati in profondità distruggendo l‘erba che garantiva idratazione e coesione. Terreni inizialmente fertili che si ridussero in polvere e sabbia e il forte vento ci mise il suo seppellendoli, devastando le case, i mulini, i granai furono abbandonati.

Ci fu un esodo di oltre mezzo milione di americani che restarono senza abitazione, senza terre e quindi senza più lavoro piombando nella totale povertà.

 

Dorothea Lange, proveniva dall‘esperienza di fotografa documentaria del periodo della Grande Depressione del 1929 che impattò economicamente anche sui ceti medi. Durante quel periodo immortalò gruppi di persone disoccupate in strada, gente che dormiva sull‘asfalto, senzatetto, file alle mense per poveri. Una tragedia umana i cui metodi di approccio per documentare con la fotografia gli effetti del Dust Bowl, furono analoghi.

Dorothea, con quel che divenne il suo secondo marito, Paul Taylor, iniziò a seguire l‘esodo da vicino per conto dello Stato della California. Le sue foto attirarono l‘attenzione del governo federale, che stava formando la Farm Security Administration (FSA) sotto il governo del presidente Roosvelt. L‘FSA faceva parte del programma New Deal, il piano economico per risollevare le popolazioni americane colpite dalla grande crisi. 

Dorothea Lange lavorò quindi più volte per la FSA ed oggi ci ritroviamo un patrimonio fotografico che documenta la crisi di quegli anni e che in parte sono in mostra al Camera di Torino.

Chiediamoci quali governi oggi incaricano i fotografi per documentare le trasformazioni sociali, del territorio per opera dell‘uomo o della natura. Chiusa parentesi.

 

Migrant Mother scattata nel 1936 è l‘immagine più conosciuta di Dorothea Lange. Ormai un‘icona di quell‘album dell‘immaginario collettivo dove vi sono le foto più famose del mondo.

Una giovane donna che mostra più dei suoi 32 anni, un volto sofferto per il dramma di aver perso tutto e trovarsi in un presente incerto. Si intravede un bambino tra le sue braccia e altri due le stanno vicini sulle spalle. Con i volti girati. Forse perché consapevoli di essere diventati “diversi”. Catapultati in una in un‘altra realtà, difficile, improvvisamente nomade.

Un‘icona, sì, ma tra le foto di Dorothea Lange ve ne sono ben altre che raccontano quel periodo.

Fattorie abbandonate sommerse dalla sabbia, baracche costruite alla buona con arredamento minimo, migranti a piedi in lunghe strade nel deserto con bagaglio essenziale in spalla, un cartello pubblicitario sembra prendersi gioco di loro con il claim “nex time try the train”, intere famiglie accampate in vecchi furgoni…

Dorothea Lange nel 1919 aprì uno studio come ritrattista. E quindi nei suoi reportage non potevano mancare anche i ritratti delle vittime dell‘esodo del Dust Bowl e dei momenti epocali che cambiarono l‘assetto economico americano.

Sguardi senza gioia, in quei ritratti. Persi nel vuoto. Impercettibili accenni di sorrisi e dove una chitarra o cuccioli di cani possono dare un senso alla vita che sarà.

E forse quell‘abilità di empatia ritrattistica si è maturata in seguito a due eventi che la segnarono: la poliomielite che le procurò un deficit permanente a una gamba e il padre che abbandonò la sua famiglia quando aveva appena 12 anni.

È fotografia documentaria. Quella di Dorothea Lange di cui John Szarkowski disse «per scelta un‘osservatrice sociale e per istinto un‘artista».

 

 

Dorothea Lange (dal comunicato stampa)

(Hoboken, 1895 - San Francisco, 1965)

Dorothea Lange si avvicina alla fotografia nel 1915, imparandone la tecnica grazie ai corsi di Clarence H. White alla Columbia University. Nel 1919 apre il proprio studio di ritrattistica a San Francisco, attività che abbandona negli anni Trenta per dedicarsi a una ricerca di impronta sociale e a documentare gli effetti della Grande Depressione. Fra il 1931 e il 1933 compie diversi viaggi nello Utah, in Nevada e in Arizona. Nel 1936 si unisce alla Farm Security Administration (FSA). All‘interno di questo progetto epocale realizza alcuni dei suoi reportage più famosi, nonostante alcuni contrasti con Roy Stryker (a capo della divisione di informazione della FSA) in merito alle proprie scelte stilistiche. Nel 1940 ottiene un Guggenheim Fellowship (un importante riconoscimento concesso ogni anno, dal 1925, dalla statunitense John Simon Guggenheim Memorial Foundation a chi ha dimostrato capacità eccezionali nella produzione culturale o eccezionali capacità creative nelle arti.). All‘inizio degli anni Cinquanta si unisce alla redazione di Life e si dedica all‘insegnamento presso l‘Art Institute di San Francisco. Muore nel 1965, a pochi mesi dall‘importante mostra che stava preparando al Museum of Modern Art di New York. Fra le esposizioni più recenti si ricordano Politics of Seeing al Jeu de Paume di Parigi nel 2018 e Words & Pictures al MoMA nel 2020.

 

 

 

 

Dorothea Lange. Racconti di vita e lavoro

a cura di Walter Guadagnini e Monica Poggi

Visitabile in contemporanea: FUTURES 2023: nuove narrative

a cura di Giangavino Pazzola

CAMERA - Centro Italiano per la Fotografia

Via delle Rosine 18, 10123 - Torino www.camera.to

dal 19 luglio all‘8 ottobre

 

Orari di apertura (Ultimo ingresso, 30 minuti prima della chiusura)

Lunedì 11.00 - 19.00

Martedì chiuso

Mercoledì 11.00 - 19.00

Giovedì 11.00 - 21.00

Venerdì 11.00 - 19.00

Sabato 11.00 - 19.00

Domenica 11.00 - 19.00



Copertina:

Dorothea Lange Toward Los AngelesCalifornia, 1937 The New York Public Library | Library of Congress Prints and Photographs Division Washington

Foto sotto:

Dorothea Lange Destitute pea pickers in California. Mother of seven children. Age thirty-two. Nipomo, California, 1936 The New York Public Library | Library of Congress Prints and Photographs Division Washington



Nella stessa categoria
18.07.2023 # 6303

Pasquale Palmieri fotografo di scena del cinema di Mimmo Paladino

Una mostra fotografica di Pasquale Palmieri a Villa Campolieto svela alcuni retroscena dell‘arte di Mimmo Paladino

di Marco Maraviglia

C‘è qualcosa di cui molti non sanno.

L‘artista Mimmo Paladino, uno dei massimi esponenti della Transavanguardia italiana, quello della Montagna di sale in piazza Plebiscito nel ‘95, dei grandi cavalli stilizzati, dei “dormienti” che ricordano i resti dei pompeiani sepolti dalla lava, delle illustrazioni d‘arte dell‘Iliade e dell‘Odissea. L‘artista le cui opere sono tempestate di simbolismi arcani e universali. Quello che ritiene Don Chisciotte non un folle ma colui che riesce a guardare un mondo oltre che l‘uomo non è in grado di vedere e quindi metafora dell‘artista: «costruisce e inventa con la parola, con il segno e con il racconto un mondo che probabilmente esiste e che forse noi abbiamo perso la capacità di guardarlo».

 

Bene, molti forse non sanno che Mimmo Paladino tra colori, sabbia, pietra, tele, disegni e sculture, è anche autore di film. Ovvio, filmati d‘arte. Perché per lui il grande schermo è come una tela dove poter lavorare ed esprimersi utilizzando altri materiali: la musica e il suono, la coralità, la luce, i movimenti di macchina e quelli degli attori. Raccontando storie oniriche e surreali che toccano le corde dei sentimenti e dei pensieri del mondo terreno.

Artista a 360° quindi e, con i film Quijote (Don Chisciotte) e La Divina Cometa, raggiunge la vetta della sua espressione artistica in maniera totale.

 

E c‘è questa mostra di 45 grandi fotografie di scena a colori del cinema di Paladino scattate da Pasquale Palmieri, implementate da circa 40 fotografie in bianconero di backstage, che riservano non poche sorprese.

Immagini allestite, al primo piano di Villa Campolieto, non in senso cronologico, ma secondo tematiche, parallelismi tra un film e l‘altro di Paladino.

Quijote (2006), La divina cometa (2022), i corti Labyrintus (2013), Il Sembra l‘Alzolaio (2013) e Ho perso il cunto (2017) sono i filmati che Pasquale Palmieri ha seguito immortalando quelle fasi di lavorazione che normalmente restano segrete e sconosciute al pubblico: ciò che sta intorno la macchina da presa, le pause per decidere l‘inquadratura di una scena, il ripasso del copione, le prove fuori ciak, le chiacchiere tra attori, maestranze e Paladino. Che qui non considererei regista, ma un designer dell‘arte filmica. Perché dalle foto di Palmieri si evincono i dettagli delle scenografie e di oggetti di scena come le ali di un angelo che sono rami d‘orati, blocchi di ghiaccio, i suoi segni simbolici tipici, limbi di paesaggi senza tempo e altre invenzioni visive che rasentano o cavalcano il cinema surrealista e quello più recente di Fellini.

 

Le fotografie di Pasquale Palmieri non tendono a raccontare soltanto la cronaca di ciò che c‘è e avviene sul set, ma principalmente ciò che vede lui, ciò che lo incuriosisce, per comprendere le sue osservazioni in un dialogo con se stesso. Tende insomma a non ricostruire necessariamente, attraverso le sue fotografie, la storia dei film.

Perché le tipiche inquadrature girate dalla macchina da presa esistono già nel girato stesso. E allora va di controcampi, campi stretti, istanti che non vedremo mai nei film ma che arricchiscono la documentazione del lavoro di Paladino. Smaschera bugie del cinema, compiacendo lo spettatore che è ghiotto del “disvelamento dell‘inganno”.

 

Non di rado il regista si rammarica di non avere un buon controcampo che invece si ritrova nelle fotografie di scena. Insomma con la fotocamera si possono aggiungere alle bugie del cinema le proprie invenzioni: è un bel gioco, e a dirla tutta è il solo motivo per cui amo questo faticosissimo genere di fotografia!

- Pasquale Palmieri, conversazione con Maria Savarese

 

È sorprendente vedere in queste foto la presenza di Lucio Dalla e Francesco De Gregori al fianco di attori professionisti come Alessandro Haber o i fratelli Servillo. Contaminazioni artistiche che Palmieri non si fa sfuggire riuscendo a caratterizzarli, (de)contestualizzarli ed estraendone la loro personalità.

 

Pasquale Palmieri possiede 50.000 negativi e 100.000 fotografie digitali che documentano le ricerche del lavoro di artisti tra cui lo stesso Paladino, Luigi Mainolfi, Perino e Vele.

Un piccolo grande patrimonio archivistico della cultura contemporanea, tessera di quel grande mosaico degli archivi fotografici privati da conoscere, tutelare e valorizzare.

I suoi riferimenti fotografici non includono i maestri della fotografia di scena. La sua formazione si basa sull‘imprinting della letteratura, della pittura, musica e poesia che lo hanno appassionato. E di fotografi come Ugo Mulas, Luigi Ghirri, Chang Chao-Tang, Mark Coehn, Fan HoJosef Kudelka, Man Ray, Daido Moriyama, Robert Frank, Mario Dondero, Mario Giacomelli… tutti per motivazioni ben precise che hanno arricchito la sua formazione.

 

Incontrai Mimmo Paladino ai tempi dell‘università grazie ad un amico comune, che ci fece conoscere perché lui aveva bisogno di un fotografo per raccontare il suo ambiente, il suo modo di dipingere. Mi muovevo liberamente nel suo studio e ci andavo anche in sua assenza. Per me uno stage con il più grande fotografo del mondo non sarebbe stato più formativo della frequentazione di un grande artista. Il contatto con la creazione della bellezza mi bastava per definire la mia visione del mondo. Ho conosciuto l‘importanza del dubbio, dell‘incertezza, dell‘imperfezione, del vuoto che precede la creazione, del non finito, delle zone d‘ombra dell‘arte nel suo farsi.

- Pasquale Palmieri, conversazione con Maria Savarese

 

 

 

Il cinema di Mimmo Paladino. Fotografie di Pasquale Palmieri

a cura di Maria Savarese

Ercolano – Villa Campolieto
dal 22 giugno al 17 settembre 2023
dal martedì alla domenica dalle ore 10 alle ore 18

Il biglietto per la mostra è incluso nel biglietto di ingresso a Villa Campolieto acquistabile solo in loco al prezzo di 5 euro

 

Co-prodotta dalla Fondazione Campania dei Festival, Film Commission Regione Campania e dalla Fondazione Mannajuolo, presentata in occasione dell‘edizione 2023 del Campania Teatro Festival a Villa Campolieto ad Ercolano, grazie alla collaborazione dell‘Ente Ville Vesuviane


Nella stessa categoria
logo