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01.06.2022 # 6071

Storie di Terre e di Mare. I Campi Flegrei visti da Francesca Sciarra e Massimo Buonaiuto

Mostra fotografica alla Casina Vanvitelliana sul Fusaro nell’ambito degli eventi di Procida Capitale della Cultura 2022

di Marco Maraviglia

Francesca Sciarra e Massimo Buonaiuto sono una coppia green. Di quelle che il viaggio è stare a contatto con la natura alla ricerca del benessere e inoltrarsi in cittadine “off lines” tra trattorie misconosciute, camminate chilometriche o bicicletta caricata in treno, bagaglio essenziale, per poi scendere dalla carrozza e intraprendere itinerari alternativi come percorrere la sponda del Po.

 

Ci vuole un fisico bestiale? No. Francesca Sciarra e Massimo Buonaiuto non sono super eroi. Niente sport estremo. Basta avere il tempo lento. Niente fretta. Essere un po’ diesel dentro e approfittare delle belle giornate per camminare tanto anche d’inverno. Spesso coinvolgendo gli amici in passeggiate fotografiche attraversando percorsi insoliti. Spesso immergendosi nel verde sconosciuto della città e dei suoi dintorni.

 

I Campi Flegrei per Francesca e Massimo, fanno parte del loro mondo visivo da sempre. Un affetto particolare a quel territorio che li porta a cavalcare l’entusiasmo vissuto dai viaggiatori e artisti del Grand Tour; da Goethe a Franz Ludwig Catel, William Turner, Philipp Hackert. Perché molti di questi luoghi conservano ancora le caratteristiche paesaggistiche del Romanticismo. Natura selvaggia e incontaminata, macchia mediterranea, musei archeologici a cielo aperto, sentieri silenziosi, luci naturali da gouache.

 

È quel mondo che abbraccia tutta la zona tanto amata dagli antichi romani per il suo clima mite e che va dal cratere degli Astroni alla Foresta Cumana, da Coroglio a Pozzuoli. Passando per Baia, Bacoli, Miseno, i laghi vulcanici e Monte Nuovo, tra i sospiri sulfurei della Solfatara fino alle isole flegree: Procida e Ischia.

Sono stati coinvolti per questa mostra e, dal loro vasto archivio fotografico hanno selezionato venticinque fotografie ospitate nella Casina Vanvitelliana sul lago Fusaro.

 

È stata l’opportunità per fare un tuffo nel passato e rivivere i ricordi legati ai luoghi visitati.

- Francesca Sciarra

 

È stato un piacere spulciare l’archivio e rivederle tutte perché sono innamorato della zona.

- Massimo Buonaiuto

 

 

La fotografia come professione ma vissuta sempre con quella passione da giovane fotoamatore. Badando alla pulizia estetica della composizione. E alla logica del racconto reportagistico.

 

Sono immagini realizzate tra il 2009 e il 2022. Tutte postprodotte con contezza mantenendo un editing omogeneo tra loro. Perché i RAW li hanno sempre conservati.

 

Fotografie che mostrano luoghi spesso visitabili solo a piedi o con l’ausilio della bicicletta. Luoghi che stanno vivendo una graduale rigenerazione con un processo di valorizzazione che accentua la forza identitaria dei loro abitanti tanto legati al territorio.

 

Fotografie in formati 25x40 e due 30x40, stampate fine art giclée su carta matta e incorniciate, ma senza vetro per far assaporare la morbidezza, a volte pastellata, dei colori dei soggetti ritratti.

 

Le stampe saranno acquistabili online, firmate e con un certificato di autenticità allegato su “storie di terre e di mare".

 

 

 

Storie di Terre e di Mare

Di Francesca Sciarra e Massimo Buonaiuto

Real Sito del Fusaro - Casina Vanvitelliana

Dal 7 al 26 giugno 2022

Inaugurazione martedì 7 giugno 2022 alle ore 17:00

A cura di Barbara Giardiello



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12.05.2022 # 6054

Intervista a Luciano Romano in mostra fino al 10 luglio al Pio Monte della Misericordia

Ex Novo, corsi e ricorsi storici dell’universo umano attraverso una rilettura fotografica di alcuni dipinti del Barocco

di Marco Maraviglia

Intervista a Luciano Romano in mostra fino al 10 luglio al Pio Monte della Misericordia

Ex Novo, corsi e ricorsi storici dell’universo umano attraverso una rilettura fotografica di alcuni dipinti del Barocco

 

 

 

Appena rientrato dall’ultima edizione del MIA, la più grande rassegna della fotografia d’arte in Italia, Luciano Romano riesce a dedicarmi del tempo per un’intervista che gli avevo proposto all’opening della sua mostra Ex Novo al Pio Monte della Misericordia.

Jusepe de Ribera, Luca Giordano, Guido Reni, Francesco Guarino, Caravaggio, sono gli autori di alcune opere che hanno ispirato Luciano Romano che riprende e riadatta temi sociali contemporanei: Ex Novo. Solitudine, smarrimento, femminicidio, migrazioni… La rilettura di alcune grandi opere d’arte, fatta da Luciano Romano, fa comprendere che trascorrono i secoli ma resta l’universalità senza tempo dell’essere umano.

 

 


 

Teatro, architettura, ricerca, Luciano Romano in quale fotografia si sente più rappresentato?

 

Mi interessa indagare il rapporto esistente tra la fotografia e il linguaggio teatrale, e come la fotografia contemporanea tenda sempre più a mettere in scena il soggetto rappresentato anziché limitarsi a documentarne una possibile condizione oggettiva. La coesistenza di verità e finzione nell’immagine fotografica mette in crisi un medium storicamente considerato descrittivo e documentale e l’osservatore di un’immagine assomiglia sempre più allo spettatore che per tutta la durata di un film stabilisce un patto non dichiarato con il regista per lasciarsi coinvolgere da ciò che vede.

Anche l’architettura (che è stata materia dei miei studi universitari) può essere letta come una messa in scena: costruire l’ambiente a propria immagine, sfidare la legge di gravità partendo dalla pesantezza e dall’opacità della pietra per mirare alla luminosità del cielo.

È quello che avviene in molte delle mie immagini, immerse in un’atmosfera che le fa apparire come sospese nel tempo e nello spazio, sempre agganciate alla realtà visibile ma allo stesso tempo tendenti a qualcosa di ideale e trascendente.

Tutto questo avviene rimanendo fedele all’oggettività del processo fotografico, in attesa che si compia quel processo di trasfigurazione latente in ogni rappresentazione.

 

E il ritratto? Nel tuo ultimo lavoro in esposizione, Ex Novo, il ritratto è predominante e vi sono espressioni dei soggetti che non hanno sempre a che vedere con un ritratto colto al volo. Le tue modalità operative per ottenerli?

 

Il ritratto nel mio caso ha sempre a che fare con il teatro, che è alle origini della mia esperienza, e ritorna in particolare nei miei lavori installativi, come quelli realizzati per la Metropolitana dell’Arte di Napoli.

A partire dal 2008, e in particolare nelle installazioni pubbliche, sono protagonisti i volti e i corpi di attori, cantanti, danzatori; per queste, che sono in tutto e per tutto immagini messe in scena, lavoro come un regista e preferisco avere davanti a me persone abituate a gestire l’espressione del viso e i movimenti del corpo, anche se è escluso che li costringa a una posa vera e propria, preferendo sempre cogliere lo scatto durante un’azione dinamica.

Come è stato nel caso dell’installazione permanente Song ‘e mare nata per la stazione della Metropolitana di Scampia: quattordici ritratti a figura intera di musicisti napoletani di diverse generazioni, ripresi in inverno sulle spiagge del litorale. Un’azione performativa illuminata con intento teatrale, un conflitto tra il sole che rimbalza in controluce sulla superficie dell’acqua e la luce artificiale proiettata sui personaggi.

La linea dell’orizzonte è uguale per tutti, come l’atteggiamento del corpo, un passo in avanti che cita l’iconico ritratto nella fotografia-manifesto, La Rivoluzione siamo noi nel quale Joseph Beuys indaga il senso dell’arte in relazione alla sua fruizione sociale e sembra suggerire a chi lo guarda di unirsi a lui.

 

In Ex novo hai dato una tua interpretazione contemporanea di alcuni dipinti di grandi autori caravaggeschi. Arte: quando, come, perché, in che modo ti sei avvicinato alla pittura?

 

Ho cominciato a produrre immagini disegnando e dipingendo, e ho abbandonato tele e pennelli per la macchina fotografica, ma non ho smesso mai di pensare all’immagine come a qualcosa che si forma nella nostra mente prima di rendersi visibile su un foglio. 

 

Hai da fare considerazioni personali sull’importanza o meno dell’arte per un fotografo?

 

Un fotografo, almeno nella professione, può fare a meno di possedere un particolare talento artistico, e riuscire a compensarlo con altre doti, ma è certo che chi possiede una sensibilità creativa fotografa in un modo diverso e può permettersi il lusso di fare a meno di inseguire generi e stili presi in prestito da altri autori. L’abilità nel disegno denota una struttura mentale in grado di costruire immagini originali, e questo è un vantaggio innegabile; infine, il senso della composizione e della luce sono abilità che accomunano chi dipinge e chi fotografa.

D’altro canto, l’arte è oggi svincolata da particolari capacità esecutive e spesso le fotografie sono utilizzate dagli artisti come medium per opere concettualmente valide, senza per questo essere “buone” immagini in senso stretto.

Per quanto mi riguarda il prelievo meccanico dalla realtà visibile non mi ha mai interessato, e ho sempre cercato la dimensione ideale della rappresentazione.

La mia fotografia, anche se apparentemente fedele al soggetto che ritrae, intende fissare un pensiero, un’immagine mentale, svincolata dalla contingenza della realtà visibile. L’immagine che ci rimane impressa è sempre lo specchio di qualcosa già posseduto nella nostra mente, è come un’eco che risuona, qualcosa che mette in gioco l’archivio della nostra memoria, è questo che la rende riconoscibile; oggi diremmo che è come una parola chiave che innesca il nostro personale motore di ricerca.

 

Le modalità di approccio a Ex Novo: ideazione, appunti, i punti emozionali che volevi raggiungere per ogni opera come li hai pre-elaborati?

 

Ex Novo è costituito da un nucleo di sei immagini che da aprile a luglio del 2022 farà ala intorno al capolavoro di Caravaggio, le Sette opere di Misericordia. Sono fotografie liberamente ispirate a dettagli della grande pittura barocca, e interpretano il valore della misericordia, ovvero quel sentimento di empatia e compassione per i deboli e per gli ultimi, che spinge ad agire per condannare la violenza, la discriminazione, il rifiuto per la diversità.

Stiamo vivendo un momento difficile, tra epidemie, guerre, esodi, violenze che fanno pensare a un ricorso della Storia, al Seicento, al Secolo di Furore che vide nascere le creazioni del Pio Monte della Misericordia.  Il titolo Ex Novo ci suggerisce che il tema è affrontato secondo le logiche e le urgenze del nostro tempo, mettendo in luce i sentimenti di empatia e compassione nei confronti delle persone fragili e vulnerabili che io ho individuato nella generazione di ragazzi nati nel nuovo secolo, i ventenni che si affacciano alla vita carichi di speranze e ideali e ai quali stiamo consegnando un mondo appestato da guerre, violenze epidemie, catastrofi ecologiche. Con questo lavoro non intendo raccontare compiutamente un’azione o definire un significato univoco, ma suggerire una possibile interpretazione da parte dello spettatore, lasciando intenzionalmente un varco aperto. Sono immagini che vogliono farsi completare dallo sguardo di chi le osserva.

Questo lavoro è stato realizzato costruendo un set e realizzando un’azione performativa in movimento che è stata fissata attraverso lo scatto fotografico senza mettere mai in posa gli interpreti e si riferisce molto più al teatro, al cinema e alla pittura che alla fotografia vera e propria, adottando un metodo e un linguaggio che prende le distanze dal modello retorico del fotogiornalismo. Quest’ultimo si è sviluppato sui modelli sensazionalistici di alcuni grandi premi fotogiornalistici, e ci inonda di fotografie di reportage di forte impatto, che non siamo più in grado di assimilare. Quel genere di immagini mediatiche che, usando le parole di Luigi Ghirri dette già quaranta anni fa, anziché risvegliare il turbamento della coscienza finiscono per provocare un’anestesia dello sguardo.



Il casting per Ex novo è stato specifico per ogni opera o ti è bastato che fossero attori?

 

Il casting è stato fondamentale; molti degli incontri con i soggetti scelti per le immagini sono avvenuti casualmente, in teatro, assistendo a uno spettacolo, e realizzando lo scatto in base a quanto mi veniva suggerito dalle mie reazioni di spettatore. Questo è avvenuto vedendo l’ultimo spettacolo di Emma Dante, dove una scena di violenza su una giovane donna mi ha fatto pensare alla Strage degli Innocenti di Guido Reni; nell’immagine da me realizzata ho chiesto agli attori di rivivere le dinamiche dello spettacolo, riferendosi però a un dettaglio del dipinto che ho loro mostrato e che è stato da loro liberamente interpretato. Nello scatto che ho scelto, la forma triangolare dei capelli afferrati violentemente da una mano maschile chiusa in un pugno, richiama alla mente i volti cuspidati che appaiono in Guernica di Picasso, icona assoluta della condanna della barbarie della guerra, non a caso postata migliaia di volte all’indomani dell’invasione in Ucraina, ed è noto che questi volti urlanti ritratti da Picasso erano ispirati al dipinto di Reni.

In altri casi cercavo una somiglianza solo in alcuni dettagli: la bocca e il mento della Sant’Agata, ritrovati in una giovanissima attrice di quindici anni, (che era poi l’età della martire ritratta da Guarino). Una bocca da bambina che contrasta con gli occhi sofferti di donna che fieramente lancia verso di noi uno sguardo di sfida. Non c’è sangue sul panno bianco che stringe al seno; eppure, senza mostrare nulla, emerge tra le trame del tessuto il senso di una violenza nascosta.

Il volto del ragazzino del quadro di Ribera l’ho ritrovato nei lineamenti di una giovane interprete di danza contemporanea, e la posizione delle braccia, pur così simile ai dettagli originali, fa riferimento alla gestualità espressa in alcune coreografie di tendenza, innescando il cortocircuito visivo che è alla base di questo progetto.

Ancora, le serpi della capigliatura di Medusa in Perseo e la Medusa di Luca Giordano mi hanno fatto pensare ai capelli di Filippo Scotti, il giovane protagonista di È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino. Lo scatto è stato realizzato esattamente il giorno prima che il film debuttasse nelle sale: il giorno dopo lui sarebbe diventato, nella percezione di milioni di spettatori, un personaggio da copertina e non più il ragazzo figlio di amici, appassionato di recitazione.  Nella messa in scena la fotografia racconta di un passaggio di stato, che coglie una singolare analogia nella vita reale dell’interprete.

 

Quali sono i nodi emozionali che volevi raggiungere con questo lavoro?

 

Le immagini di Ex Novo colgono uno stato di sospensione, come se l'occhio si fermasse sulla soglia di qualcosa che sta per avvenire sotto i nostri occhi. Questo stato emozionale sta per emergere, è soffocato e silenzioso, colto in un attimo di raggelata e raggelante sospensione.

In questi scatti si percepisce un senso di smarrimento, di perdita di punti di riferimento: qualcosa sta per accadere, ma non si è ancora compiuto. Rispetto al senso tragico, esplicito e plateale dei prototipi pittorici ai quali mi sono ispirato, qui non esiste un’attribuzione di senso o una narrazione ben definita: in questa realtà ci siamo ancora dentro e non abbiamo la prospettiva giusta per vedere a lunga distanza, non sappiamo come andrà a finire.

 

Una mia considerazione sulle foto esposte in mostra: le luci degli scatti sono alte rispetto all’intensità dei chiaroscuri caravaggeschi. Prima di vederle esposte, mi aspettavo delle immagini in low-key. Qualcosa di più drammatizzato da ombre/contrasti.

C’è qualche motivazione estetica, etica, tecnica, espressiva per la scelta della tua luce?

 

Sono contento che tu lo abbia notato, fare una luce marcatamente caravaggesca sarebbe stato in questo particolare contesto un banale e non nuovo esercizio di stile. Vorrei chiarire che le mie sei immagini non si riferiscono direttamente al capolavoro di Caravaggio (col quale sarebbe stato, se non altro, imprudente confrontarsi), semmai alle sei tele che gli fanno ala; anzi per meglio dire, le immagini, tranne nel caso di Luca Giordano, citano altri autori del Seicento rispetto a quelli presenti al Pio Monte. Tornando al tema della luce, andando a rivedere gli originali ai quali mi sono ispirato, i valori in campo non sono tanto dissimili: penso al San Gennaro che esce illeso dalla fornace di Ribera nella Cappella del Tesoro di San Gennaro, un dipinto su rame dai colori vibranti e luminosi. In realtà ho usato una luce fortemente direzionata come quella in uso nella pittura barocca, con poco rischiaro nelle ombre, servendomi di una luce flash principale emessa da un soft bank con riflettore parabolico che interagisce con la luce naturale nel caso del cielo sottoesposto, del mare, o della grotta di tufo usata per lo sfondo.

Non era mia intenzione imitare i contrasti e nemmeno la visceralità propria degli originali, anche perché la tensione drammatica è qui molto più latente e criptata, qualcosa di indefinito.

Se poi la pittura traspare, non è nel senso imitativo e mimetico, semmai nel modus operandi: il lavoro si chiama Ex Novo perché parte da una serie di idee e da un foglio di carta bianco; tutto quello che vedete è atteso, costruito, pensato, fino all’ultimo dettaglio come in pittura.

La vera citazione è nella struttura rivoluzionaria della pittura barocca che associa dettagli e volti marcatamente naturalistici al complesso artificio degli schemi compositivi.  Questo lavoro fa ricorso a una matrice geometrica molto evidente, a diagonali molto spinte, un espediente che conferisce dinamismo e vitalità alla costrizione imposta dalla inquadratura rettangolare, come del resto era in origine nei dettagli pittorici da me individuati come riferimento.

 

Come hai deciso di realizzare le stampe?

 

Si tratta di stampe a pigmenti realizzate su carta matt in fibra di cotone; i pigmenti e il cotone sono più assimilabili al disegno e alla pittura rispetto alle carte baritate che avrebbero avuto un sapore troppo fotografico, e per lo stesso motivo le immagini non sono protette da un vetro. Le stampe sono montate su dibond e hanno una cornice flottante che non chiude troppo l’inquadratura; la scelta del formato, 80x107 cm, è stata fatta per armonizzarsi con l’ambiente, per non entrare in competizione con le grandi tele presenti in chiesa e per mantenere un rapporto di ingrandimento della figura umana simile alla proporzione naturale.

I supporti realizzati appositamente su disegno di Giovanni Francesco Frascino portano le immagini in avanti e le sospendono nello spazio in corrispondenza delle linee architettoniche che si irradiano dal centro della chiesa a pianta ottagonale.

 

 

 

BIO

 

Tra i vincitori del premio Atlante Italiano 003, conferito dal Ministero dei Beni Culturali e la Triennale di Milano (2003) ha ottenuto la nomination al Prix BMW-Paris Photo (2007) ed è stato finalista per quattro edizioni consecutive agli Hasselblad Masters.

Ha esposto alla X Biennale Architettura di Venezia, al Museo MADRE di Napoli, al Museo MAXXI di Roma, al Museo MAMM di Mosca, a Fotografia Europea di Reggio Emilia, a Palazzo Ducale di Genova, alla Reggia di Caserta e in occasione del Fetival dei Due Mondi di Spoleto.

Nel 2010 è autore delle immagini su cui si fonda Italy of the Cities, una visione di Peter Greenaway per il padiglione italiano all'Expo Universale di Shanghai, rappresentata nello stesso anno all'Armory di New York.

Del 2013 l'installazione permanente Don’t ask where the love is gone di Shirin Neshat nella stazione Toledo Montecalvario della Metropolitana di Napoli, che si avvale di nove grandi ritratti realizzati da Luciano Romano.

L'opera è stata in seguito esposta alla Photobiennale di Mosca del 2014, a cura di Olga Sviblova.

A dicembre 2019, nella stazione della metropolitana di Scampia, Napoli, viene presentata Song ’e mare, la sua ultima installazione permanente di arte pubblica: “Quattordici fotografie di musicisti e cantanti napoletani a figura intera, posti lungo la stessa linea d’orizzonte, quella fra mare e cielo, mentre fanno un passo avanti in una costante dinamica fra scena e retroscena, luce e ombra, colto e popolare, ricordo e intuizione.” (Andrea Viliani, 2019). Ad aprile 2022 il suo ultimo progetto Ex Novo, sei immagini contemporanee intorno alle Sette Opere di Misericordia di Caravaggio, una ricerca degli indizi visivi che si trasmettono attraverso l’esposizione alla produzione artistica del passato e che riemergono nel processo della creazione contemporanea.

I suoi lavori sono conservati in numerose raccolte pubbliche e private, tra le quali la collezione del MAXXI di Roma, IICD a Roma, il Museo MADRE di Napoli, La Fondazione Edoardo Garrone di Genova, La Fondazione Banco di Napoli, la Robert Rauschenberg Foundation e il Watermill Center di New York.

 

 


 

EX NOVO di Luciano Romano

A cura di Marina Guida

Cappella del Pio Monte della Misericordia – Via dei Tribunali 253, Napoli

dal 14 aprile al 10 luglio 2022

Orari visite: dal lunedì al sabato dalle ore 10.00 alle ore 18.00, ultimo ingresso ore 17.30. Domenica dalle ore 9.00 alle ore 14.30, ultimo ingresso ore 14.00.

www.piomontedellamisericordia.it

www.lucianoromano.com

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10.05.2022 # 6051

Guido Giannini, un arzillo fotografo 92enne in mostra

Poesia e ironia di un osservatore. La street photography ante litteram. Visioni paradossali e irrazionali di una realtà sfuggente

di Marco Maraviglia

Chi è Guido Giannini

Classe 1930. Fisico asciutto. Capelli lisci, folti e bianchi. Un bastone nodoso che sembra usare solo per darsi un tono da vecchietto o forse per esigere il dovuto rispetto. Perché sale le scale e si alza da una sedia in maniera scattante. Orecchie lunghe che denotano una lunga vita. Guido Giannini si incontra spesso per Napoli, mentre macina chilometri a piedi perché ha sempre qualcosa da fare. Nella metro non si siede. Parlantina veloce. Una lucidità mentale da fare invidia a tanti. Occhiali che non nascondono gli occhi vispi e scrutatori come quelli di un eterno bambino curioso di quel che gli accade intorno.

«Cerchi qualcosa? Hai bisogno di qualcosa?», mi chiede mentre osservo le sue foto. Eppure ero convinto che stesse guardando in altra direzione. Deformazione professionale. Un attento fotografo è come un gatto: guarda avanti a sé ma ha il perfetto controllo di quello che gli accade intorno. E con grande generosità non si risparmia nel raccontare aneddoti ed esperienze vissute mentre mostra i suoi libri pubblicati. A volte sembra scontroso ma è, semplicemente, sinceramente diretto. Senza sovrastrutture. Senza formalismi ipocriti. Essenziale.

Guido Giannini è l’uomo del 50 mm, l’obiettivo preferito da Bresson. La focale più prossima a quella del campo visivo dell’occhio umano. Non ha mai usato zoom o grandangoli. Il suo modo di raccontare fotograficamente è sempre stato quello di essere vicino all’azione. Girare intorno al soggetto, avvicinandosi, allontanandosi. Rendendosi invisibile e veloce col suo colpo d’occhio che è la base dei suoi scatti.

 

"Se le tue foto non sono buone, vuol dire che non eri abbastanza vicino”

- Robert Capa

 

Dal comunicato stampa

Guido Giannini nizia a fotografare negli anni ‘50. La rivista Il Mondo pubblica alcune sue foto tra il 1961 e il 1962: «La mia prima foto – racconta - venne pubblicata da Il Mondo diretto da Mario Pannunzio, era il 19 dicembre del 1961. Avevo già trentuno anni. Era l'immagine di una donna anziana che suonava il violino davanti alle vetrine della Rinascente di Napoli. Era vestita tutta di nero, con un borsone vuoto che le pendeva dal braccio e sosteneva il violino».

Per circa quindici anni si dedica ad altre attività. Riprende a fotografare nel 1976 collaborando con varie testate: il Manifesto, la Repubblica, l’Unità, Qui Touring ed altre testate locali e nazionali. È stato redattore fotografico del periodico NdR.

Giannini, oggi 92enne, ha tenuto numerose mostre personali in tutta Italia e all’estero. Le sue opere sono state esposte da Roma a Milano fino alla Cina. Tra i personaggi noti fotografati da Giannini il premio Strega Raffaele La Capria, Fabrizia Ramondino, Bruno Munari e Goffredo Fofi.

 

 

L’ironia del mondo fotografico di Giannini

Ma che tipo di fotografo è Guido Giannini?

Un osservatore. Un registratore di centesimi di secondo della varia umanità. Un’umanità con le sue manie, contraddizioni e fobie. Emozioni e affetti. Che normalmente ci sfugge nei suoi sottili toni irrazionali ma che Giannini riesce a cogliere.

Un folklore totale che abbraccia istanti in maniera minimalista ma che, messi insieme, restituiscono l’atmosfera di un mondo pulsante, vivo. Perché non sono immagini tratte dai film di Luis Buñuel o di Fellini ma è tutto vero.

Con fotografie che, dagli anni ’50, attraversano e illustrano la trasformazione sociale e urbanistica di Napoli.

E quell’occhio curioso e vispo di Giannini coglie spesso l’ironia della scena. Un clochard che passa davanti a una vetrina di abbigliamento chic con l’insegna “Protagonista”. Un ambulante seduto chino sulla sua fisarmonica e da un manifesto un volto opulento e sardonico lo osserva mentre addenta una coscia di pollo. Un cane seduto davanti a un furgone aperto che osserva un mezzo pezzo di manzo appeso all’interno. Un signore seduto su una sedia con una gabbia di uccellini posata sulle ginocchia. Signora con ventaglio ferma al sole (ma perché non si è messa all’ombra? Vien da chiedersi).

Immagini paradossali che fan sorridere e riflettere allo stesso tempo. O che inteneriscono come quella della coppia abbracciata e che si bacia, poggiata su un’auto. Una delle foto più condivise e… rubate sui social.

 

Attraverso le sue fotografie si fa esperienza di sociologia, di storia, di cronaca, di urbanistica e di tante altre cose, tutte preziose, ma l'esperienza rivelatrice e definitiva è quella umana.

- Mario Martone

 

Oggi Guido Giannini verrebbe appellato come street photographer. Ma Guido non apprezza etichette. Non esulta nemmeno se lo si definisce Maestro. È l’umiltà dei grandi.

 

 

 

TERRA E MARE - OMAGGIO A GUIDO GIANNINI
a cura di Luciano Ferrara con la collaborazione di Zelda Giannini

Dal 6 al 20 maggio 2022

Magazzini Fotografici
Via San Giovanni in porta, 32 – 80139 Napoli

Orari di apertura
Mercoledì h16:00/h 20:00
Giovedì, venerdì e sabato
h11:00/h13:30 - h14:30/h20:00
Domenica h11:00/h14:00

PER INFORMAZIONI:
info@magazzinifotografici.it

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06.05.2022 # 6047

Dia logo: bipersonale di Ljdia Musso e Renata Petti

Dialogo e attraversamento della psiche femminile e della rappresentazione esteriore del sentirsi donna tra due generazioni

di Marco Maraviglia

Si vede e non si vede. Mi mostro ma non mi rivelo. Non c’è trucco non c’è inganno. È solo una realtà visibile a tutti la cui lettura non è comprensibile per tutti. A meno che…

Inconscio e subconscio dell’universo femminile. Aprire con cautela. Non c’è libretto di istruzioni che tenga. Non ci sono regole stereotipate. Per ascoltare nell’anima quegli esseri fisiologicamente diversi dagli uomini, le donne, occorre forse una mente incondizionata, sciogliere i sensi, eliminare i bias cognitivi, mettere da parte il proprio ego ed esplorare. Ogni volta come se ci trovassimo in un territorio nuovo e nudo. Dove non sappiamo dov’è l’interruttore per la luce, un ruscello per bere, un giaciglio dove trascorrer la notte. Senza kit di sopravvivenza. Senza apriscatole perché non c’è alcuna scatola da aprire ma si tratta solo di cogliere sensi, pensieri, percezioni.

Soltanto allora, forse, potremmo sentirci rigenerati da quegli “involucri” femminili come in Cocoon, l‘energia dell’universo, dove alcuni vecchietti divennero arzilli grazie a dei boccioli dall’apparenza amorfi.

 

Più o meno potrebbe essere questa una chiave di lettura delle immagini in mostra di Ljdia Musso e Renata Petti.

Dia logo. Un titolo che aprirebbe a ulteriori riflessioni.

Dia: “prefisso di molte parole composte, derivate dal greco o formate modernamente nella terminologia scientifica, nelle quali significa per lo più «attraverso» o «per mezzo di», oppure indica separazione, diversità” (Treccani).

Come la possibilità di conoscere aspetti paralleli di due lavori fotografici ma con contenuti diversi.

Un dialogo tra i due lavori presentati.

Oppure “dia” inteso come il diminutivo di diapositiva. Una trasparenza attraverso la quale è possibile vedere l’immagine nonostante possa passarci la luce.

Logo. Una parola che ricorda il marchio, il logotipo, un simbolo grafico che caratterizza in un solo segno il brand di un’azienda, un prodotto, rendendoli riconoscibili.

E infatti le fotografie di Ljdia Musso e Renata Petti sono come contraddistinte da uno stile, da un’estetica che non lascia spazio al confondersi con altre immagini. Perché esse stesse sono logo.

Quelle di Ljdia sono in high key, luminose, intrise di luce vaporosa e, per di più, tutte come firmate perché si tratta di autoritratti. Il volto diventa firma, marchio, logo.

Quelle di Renata, anche autoritratti, tendono al low key, neri densi, mossi realizzati con lunghe esposizioni e talvolta con sovrapposizioni di nuvole, mare. Il corpo è privato della sua forma, si sdoppia, quasi a rappresentare due entità che si cercano reciprocamente tra corpo stesso e il suo lato spirituale.

 

 

 

Dia logo

Ljdia Musso e Renata Petti


a cura di Gianni Nappa


5 maggio – 5 giugno 2022

Spazio N° 7 Caserta di Luigi Ambrosio

Via Vico n° 7 – Caserta

Info: 320.967.63.56     

E-mail: luigiambrosio336@gmail.com

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04.05.2022 # 6042

Francesca Della Toffola espone all’Istituto Italiano di Fotografia con Accerchiati Incanti, come Ofelia

Autoritratti e trasparenze, tra corpo e natura, alla ricerca di una femminilità intima e onirica

di Marco Maraviglia

Chi è Francesca Della Toffola

Nata a Montebelluna nel 1973. Laureata in Lettere moderne con una tesi su Wim Wenders, si specializza presso l’Istituto Italiano di Fotografia di Milano. Nel 2009 pubblica il libro fotografico The black line series e nel 2018 Accerchiati incanti, grazie al quale riceve il Premio Hemingway 2018. Nel 2021 pubblica il diario della Residenza d’Artista a Villa Greppi: Apparizioni per testardi picchi. É curatrice di “Trevignano Fotografia” giunta alla XII edizione.

Tra le esposizioni personali: SpazioGalleria Heart, Vimercate; Spazio Ramedello, Ceggia; Terrazza Mare, Lignano Sabbiadoro; Galleria di Palazzo Ducale, Pavullo nel Frignano; Mia Fair 2015, Milano; Galleria Melesi, Lecco. Espone in diverse collettive in tutta Italia.

 

Come Ofelia

Amori impossibili. Ingannevoli. Sleali. Non corrisposti. Amori che cambiano per forza di cose. Amori che colpiscono l’umore. Amori struggenti, di quelli malati, che non costruiscono ma ti annullano. Sei corpo e mente ma inizi a scomparire. Ti annulli. Vai fuori di testa. Perdi il contatto con te stessa. Non vedi un futuro. Tutto intorno ti travolge prendendo possesso di te. Oppure vivi l’abbandono come un’esperienza che ti tempra. Ti innesca meccanismi razionali. Alzando la barricata della diffidenza. Issando muri invisibili di una frontiera al di qua della quale sei tu stessa invisibile. Smorzando femminilità e seduzione.

Ma Ofelia, di William Shakespeare, impazzisce. Un amore reciproco con Amleto interrotto però da un ripensamento di lui. Per proteggerla dalle meschine trame reali. E incoscientemente la sua vita terminò cadendo accidentalmente nel fiume.

 

Le sue vesti, gonfiandosi sull'acqua,
l'han sostenuta per un poco a galla,
nel mentre ch'ella, come una sirena,
cantava spunti d'antiche canzoni,
come incosciente della sua sciagura
o come una creatura d'altro regno
e familiare con quell'elemento.
Ma non per molto, perché le sue vesti
appesantite dall'acqua assorbita,
trascinaron la misera dal letto
del suo canto a una fangosa morte.

- da Ofelia; W. Shakespeare

 

Solo uno spunto per sandwich onirici

La letteratura è un gran serbatoio di spunti e idee per sviluppare progetti in altri campi dell’arte.

Ofelia, per Francesca Della Toffola, non è altro che uno degli ingredienti del suo progetto Accerchiati incanti. Qui abbiamo immagini che vanno oltre l’amore contorto perché è un universo femminile più ampio che parla. Contenute in un cerchio che riconduce alla forma perfetta, quella della terra o della maternità o anche della visione circolare dell’occhio umano.

 

Non ci sono limiti, spigoli, orizzonti che dilatano, ma un cerchio che gira su se stesso che impone una visione penetrante che vuole oltrepassare la superficie. 

 

Una tecnica di cui Art Kane ne fu un pioniere, era quella del sandwich. Consisteva nella sovrapposizione di due o più diapositive che restituivano magiche e suggestive visioni irreali.

Le immagini di Francesca Della Toffola sono sandwich digitali, sovrapposizioni di corpo e spazi. Autoritratti che entrano in simbiosi con l’ambiente circostante. Una fusione con la natura che abbraccia e avvolge con “fili d’erba che germinano dalla pelle” e che a tratti risucchia del tutto parti di quel corpo in trasparenze che lasciano percepire comunque la loro presenza. Ciò che non era possibile realizzare con la tecnica del sandwich analogico.

Sono immagini, queste di Francesca Della Toffola, che richiamano l’iconografia di Ofelia la cui apoteosi e punto di partenza per molti altri artisti contemporanei, è rappresentata dal famoso dipinto del 1852 di John Everett.

Una ricerca iniziata nel 2010. Introspettiva. Con una chiave di lettura connessa tra la donna e la sua proiezione nell’immaginario. L’entità donna che c’è, esiste, in armonia con quel mondo bistrattato spesso dall’uomo perché con fisiologie diverse. Perché lui non vive la maternità. Non conosce il contatto con la vita che gli cresce dentro.

Francesca realizza il suo lavoro Accerchiati incanti, con i suoi autoritratti, senza narcisismo, senza desiderio di esibizione. Semplicemente per esplorare l’intimo di se stessa e quindi l’universo femminile, attraverso la natura.

 

L’autoritratto mi permette di entrare, di dialogare con gli spazi, di giocare con il tempo, di avere uno sguardo doppio. Dentro e fuori l’immagine.

 


 

Accerchiati incanti. Come Ofelia

di Francesca Della Toffola

Istituto Italiano di Fotografia

inserita all’interno della rassegna “Ibridazioni. Inedite contaminazioni di linguaggi visivi”, a cura di Sanni Agostinelli

Presso la IIFWALL (via Enrico Caviglia 3, Milano).

 

Dall’11 maggio al 7 giugno con apertura dal lunedì al venerdì,

orario 9:30-13:00 e 14:00-18:30, il sabato orario 10:00-13:00 e 14:00-17:00.

Info: https://www.istitutoitalianodifotografia.it/eventi/mostra-accerchiati-incanti-come-ofelia-di-francesca-della-toffola/

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29.04.2022 # 6038

Chiara Negrello in mostra allo storico Caffè Pedrocchi di Padova con Like the Tide

Un agrodolce racconto fotografico alla foce del Po di donne contadine del mare

di Marco Maraviglia

Chi è Chiara Negrello

Giovane fotografa freelance nata a Rovigo. Attualmente vive a Firenze. Laureata in fotografia alla LABA (Accademia Liberale di Belle Arti) di Firenze nel 2017.

Ha frequentato il Documentary Practice and Visual Journalism Program alla scuola ICP di New York supportata dalla borsa di studio assegnata dalla Reuters, la più grande agenzia fotogiornalistica internazionale. È membro di Woman Photograph” e selezionata nel 2021 per lEddie Adams Workshop XXXIV. Ha pubblicato i suoi lavori su testate nazionali e internazionali come The New York Times, D la Repubblica, MarieClaire, Focus e altri.

 

I suoi lavori sono principalmente basati sulle relazioni umane e sociali influenzate dall’impatto ambientale e decisioni economico-politiche tra cui la contaminazione dell'acqua da Pfas nella regione Veneto pubblicato su Der Spiegel nel marzo 2021.

Ha fotografato migranti in Giordania, Medio Oriente e a Bihac, al confine tra Bosnia e Croazia.

Nel 2019 in Ecuador fotografa donne riciclatrici a Quito: Recicladoras, donne che recuperano materiali e oggetti dai rifiuti per rivenderlo a privati.

Documenta le restrizioni per i venezuelani riguardo i visti in Ecuador e le messe in streaming durante il primo lockdown in Italia a causa del Covid19 pubblicando su National Geographic.

Solo per sintetizzare.


 

Like the Tide

È l’alba. Inverno. Valle del Po.

Nella luce bluastra e nebbiosa del primo mattino si vedono le luci accese di alcune finestre di un paesino in cui non è ancora iniziata la vita del giorno. Ci son donne che si stanno preparando per andare a lavorare. Probabilmente lasciano pronta sul tavolo la colazione per il marito e i figli. Prima di uscire e incamminarsi in quell’aria bagnata, tipica della Pianura Padana.

 

Sul finire degli anni ’80 andò in crisi il settore tessile e molte donne persero il lavoro. Ma erano donne. Di quelle che non si piangono addosso. E si reinventarono. Già temprate dai turni massacranti delle fabbriche tessili entrarono in un nuovo percorso. Forse più ostico, ma comunque duro.

In quegli anni, nella valle del fiume, furono seminate vongole e molte donne dalle macchine tessili passarono alla pesca delle vongole.

Un punto di rottura col passato. Un punto di arrivo che fu un nuovo punto di partenza che risollevò l’economia del luogo. Fino allora considerato un lavoro prettamente maschile, oggi quasi la metà dei pescatori è donna.

Anche d’inverno entrano nelle acque gelide del Po armate di rasca per rastrellare o scavare con le mani nelle secche e raccogliere i molluschi. Al confine tra il fiume e il mare. Tra il dolce e il salato. Come la loro vita agrodolce.

Contadine del mare. Donne coraggiose che non temono di sporcarsi le mani e affaticare la schiena di fronte a un lavoro duro condiviso con la reciproca solidarietà delle commilitone. Che quando rientrano nelle case riacquisiscono il loro ruolo materno isolando, dalla propria famiglia, stanchezza e sofferenza. Un tocco di profumo al collo. Premure per i figli. Una sistemata alla casa. Una tovaglia da sbattere e ripiegare dopo la cena.

E domani è un altro giorno. Sveglia all’alba. Con l’orgoglio negli occhi e la bellezza nell’anima. Nuovamente nella nebbia.

Chiara Negrello con poetica delicatezza, senza invadenza, racconta queste storie attraverso le sue immagini di Like the Tide. Storie intorno a noi. Non c‘è bisogno di andar lontano per trovare qualcosa da narrare.

Like the Side, come la marea che sale e scende, e anche la fatica è mostrata in chiave morbida, gli sguardi dei ritratti infondono forza e amore per il lavoro, le rasche per la pesca creano nuvole di sabbia sotto il pelo dell’acqua che tutto nascondono e tutto rivelano.

 

 

 

Like the Tide (Come la marea)

EFFE22 - Rassegna Annuale di Fotografia d'Autore

Dal 23 marzo al 18 maggio

Presso la sala verde dello Storico Caffè Pedrocchi

Via VIII Febbraio, 15 - Padova

Ufficio Stampa: Francesca Minucci, Tel. 3403800320 | Email f22.effeven@due@gmail.com

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27.04.2022 # 6037

Presenze nelle assenze, Peppe e Luca Esposito espongono al Fotoart in Garage

Quel sottile filo che lega padre e figlio attraverso la fotografia. Due visioni parallele che si implementano in maniera autonoma

di Marco Maraviglia

Esiste il vuoto? Si vede? Ma se si vede significa che c’è qualcosa che lo definisce o che lo riempie. O perlomeno ne offre dei confini.

Il vuoto diventa pieno. Il pieno può essere vuoto.

Per comprendere il concetto di vuoto e pieno, basti ricordare alcune opere di Anish Kapoor che annullano la realtà intorno rendendola impalpabile. Presenze nelle assenze o assenze nelle presenze, se preferiamo. Oggetti che si mimetizzano nell’ambiente circostante annullandosi.

Involucro e contenuto persistono, esistono, ma si annullano.

Le presenzassenze di Franco Fontana sono di ben altro senso. Ombre umane o di altri elementi. Che interagiscono con i luoghi. Assenze che riempiono gli spazi stabilendone un rapporto di osmosi. Senza l’uno o l’altra non esisterebbe l’immagine. Non ne avrebbe un senso.

 

Le Presenze nelle Assenze di Peppe e Luca Esposito credo che viaggino su un filo invisibile, impercettibile, da ricercare non tanto nelle immagini proposte in questa mostra, ma nel rapporto di padre e figlio che li lega.

Credo che uno dei desideri di un padre ambizioso, sia quello che il figlio segua le sue stesse orme. Trasferire le proprie conoscenze per perpetuarle. Anche se verso strade diverse. Lo stesso mezzo, in questo caso la fotografia, ma usato per percorrere un filone visivo diverso. Un’altra ricerca per approdare altrove. Nel caso di Luca, verso il cinema. Dove l’assenza è la finzione cinematografica. La presenza sono gli attori che danno corpo a una storia.

Le ben note immagini di bambole di Peppe Esposito, che non vedremo in questa mostra, lasciano il posto ad altre presenze reali e animate degli attori di un cast cinematografico. Dall’assenza umana che vuole rendere una presenza emotiva ricreandola ex novo con sguardi vitrei, alla presenza umana reale che non ha bisogno di artifici. Perché l’artificio è il set cinematografico.

Spazi vuoti in cui il rapporto delle dimensioni è riportato dalla presenza dell’elemento umano. Che sia un uomo, un’auto o delle bottiglie, non importa.

E forse nelle immagini di Peppe e Luca Esposito, padre e figlio, il vuoto non esiste. Non esiste presenza se non c’è assenza.

Padre e figlio si implementano, senza competizione. Le loro fotografie dialogano per far riconoscere il loro legame professionale. Che si influenza a vicenda ma autonomamente.

 

Peppe Esposito

Napoletano classe 1960, dalla fine degli anni Settanta è protagonista di una personale ricerca artistica che investe vari linguaggi, dalla fotografia al visual design, dalla grafica d’arte alla pittura. Ha studiato Arte della Stampa all’Istituto d’Arte F. Palizzi e Pittura all’Accademia di Belle Arti di Napoli, dove ha seguito anche il corso di Fotografia di Mimmo Jodice. È docente di Arte del Libro e della Grafica Editoriale presso il Liceo Artistico F. Palizzi di Napoli. Ha esposto in numerose mostre nazionali e internazionali, le sue opere sono presenti in musei, collezioni pubbliche e private ed in archivi di arte contemporanea, sia in Italia che all’estero. Nel 2011 è stato invitato ad esporre alla 54a Biennale di Venezia, Padiglione Italia per la Regione Campania.

 

Luca Esposito

Nato a Napoli nel 1993. Da sempre interessato al racconto visivo in generale, fin da piccolo sviluppa la passione per la fotografia, grazie a suo padre. Questo lo porterà a trovare nella fotografia, il suo abituale modo di vedere le cose nel mondo. Dal 2012 partecipa a mostre fotografiche su territorio nazionale ed internazionale come nel 2017 all’Ostraka Art Fair a Il Cairo in Egitto. Nel 2012 terzo classificato al premio fotografico “Napoli e i Campi Flegrei” e nel 2018 premiato al Museo PAN per “La Napoli di Maurizio Valenzi”. Laureato in Fotografia, Cinema e Televisione all'Accademia di Belle Arti di Napoli. Lavora nel cinema in particolar modo per due ruoli fondamentali nel reparto di macchina da presa, l’aiuto e l’assistente operatore, sul set di produzioni cinematografiche e televisive come RAI, Netflix, Sky, Mediaset, Cattleya, IIF Italian International Film, ecc. Ha lavorato con direttori della Fotografia come Cesare Accetta, Francesca Amitrano, Davide Manca e Carlo Rinaldi e registi come Stefano Incerti, Francesco Patierno, Antonietta De Lillo e Guido Pappadà.

 


© Peppe Esposito


Presenze nelle Assenze

Peppe e Luca Esposito

nell’ambito della rassegna “Fotoart in Garage 2022” a cura di Gianni Biccari.

Art Garage POZZUOLI (NA) Viale Bognar,21 (pochi metri dalla stazione ferroviaria Pozzuoli Solfatara)

Dal 30 al 13 aprile 2022 Opening Sabato 30 aprile ore 17.30/21.30

Orari apertura mostra: lun-ven 10-13 / 16.30-21  sab.10-13  dom. chiuso.

Contatti: Gianni Biccari 338 8805491 – Peppe Esposito 366 3154189


Foto di copertina: © Luca Esposito

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13.04.2022 # 6019

Fotografia moderna 1900-1940. A Torino la collezione Thomas Walther del MoMA di New York

Il CAMERA - Centro Italiano per la Fotografia di Torino, ospita un’eccezionale mostra fotografica che raccoglie oltre 230 opere fotografiche di 121 autori della prima metà del XX secolo

di Marco Maraviglia

Fu un periodo, quello della prima metà del XX secolo, con fermenti artistici che determinarono un nuovo corso delle arti figurative. Dadaismo, Surrealismo, il Costruttivismo russo, il Futurismo italiano, il Bauhaus furono un vero e proprio punto di rottura con i canoni del passato aprendo a nuove ricerche visive. Tra le più originali degli ultimi 100 anni. Tutti furono movimenti che ribaltarono vecchi concetti riguardo il modo di concepire il vedere. E quindi il modo di pensare. Già dal 1913 un punto di partenza del ribaltamento del pensiero fu la pratica del Ready-Made duchampiano: la defunzionalizzazione originaria di oggetti, come un orinatoio, rifunzionalizzandoli in opere d’arte.


Si proveniva dalla Belle Époque, un periodo splendido di pace e progresso tecnico-scientifico. Le connessioni tra gli intellettuali erano più rapide e frequenti grazie alle prime auto e all’infoltirsi delle reti ferroviarie che consentivano di viaggiare più facilmente. I giornali proliferavano. I caffè letterari erano punti di riferimento di artisti di ogni ramo e cifra che si incontravano condividendo notizie, idee, opinioni, ipotesi. Qualcuno si intratteneva giocando a cadaveri squisiti. E il pensiero volava a velocità supersonica.


A cavallo delle due guerre mondiali anche la fotografia, grazie all’innovazione tecnologica che iniziò a produrre pellicole più sensibili e fotocamere più leggere, versatili e meno ingombranti, come la Leica uscita nel 1925, seguì questo processo di cambiamento. Un cambiamento che portò inoltre a sperimentazioni come collages, doppie esposizioni, immagini cameraless tipo i rayogrami e fotomontaggi che raccontano una nuova libertà di intendere e usare la fotografia. 

Quel fermento creativo iniziò in Europa subito dopo la Prima Guerra Mondiale per arrivare poi a New York, dove presero rifugio artisti e intellettuali in fuga dalle dittature.


Con la collezione di Thomas Walther, ex giudice conosciuto come "l'ultimo dei cacciatori di nazisti", si deduce un bisogno storico di recuperare e preservare parte di quella cultura artistica fotografica nata in quel periodo travagliato da libri bruciati, opere d’arte sequestrate con le quali si tenne anche la mostra di Arte degenerata nel 1937.

Non sappiamo per certo se nel bottino dei nazisti delle 4.800 opere rubate e ancora conservate nei depositi del Governo tedesco, in attesa di rilevare gli eredi, vi siano anche fotografie di quel periodo.

Fatto sta che la più grande opera della collezione di Thomas Walther sarebbe da considerare Walther stesso.

Ogni autore delle fotografie della collezione, avendo esercitato la propria attività a cavallo delle due guerre, ha vissuto sulla propria pelle momenti tormentati. Chi perché ebreo, chi oggetto di stupro, chi perché considerato eversivo o una spia, chi esiliato ecc., dietro ogni fotografia c’è la storia personale del suo autore interconnessa talvolta con alcuni degli altri autori o comunque con i fatti socio-politico-culturali dell’intero contesto.


È la particolarità di questi decenni a spingere il collezionista Thomas Walther a raccogliere, tra il 1977 e il 1997, le migliori opere fotografiche prodotte in quegli anni riunendole in una collezione unica al mondo, acquisita poi dal MoMA nel 2001 e nel 2017.


Accanto ad immagini iconiche di fotografi americani come Alfred Stieglitz, Edward Steichen, Paul Strand, Walker Evans o Edward Weston e europei come Karl Blossfeldt, Brassaï, Henri Cartier-Bresson, André Kertész e August Sander, la collezione Walther valorizza il ruolo centrale delle donne nella prima fotografia moderna, con opere di Berenice Abbott, Marianne Breslauer, Claude Cahun, Lore Feininger, Florence Henri, Irene Hoffmann, Lotte Jocobi, Lee Miller, Tina Modotti, Germaine Krull, Lucia Moholy, Leni Riefenstahl e molte altre. 

Oltre ai capolavori della fotografia del Bauhaus (László Moholy-Nagy, Iwao Yamawaki), del costruttivismo (El Lissitzky, Aleksandr Rodčenko, Gustav Klutsis), del surrealismo (Man Ray, Maurice Tabard, Raoul Ubac) troviamo anche le sperimentazioni futuriste di Anton Giulio Bragaglia e le composizioni astratte di Luigi Veronesi, due fra gli italiani presenti in mostra insieme a Wanda Wulz e Tina Modotti.


La mostra, leggendo i nove testi ricevuti dall’ufficio stampa, è stata curata nei minimi dettagli secondo percorsi tematici e con un allestimento che comprende anche delle teche nelle quali sono esposte alcune prime edizioni di volumi e riviste, essenziali per la narrazione della storia della fotografia di quegli anni. 


“Anche la scelta della palette di colori della mostra è nata a partire dallo studio di vari prodotti grafici ed editoriali del periodo, trasformando l’esperienza di visita in un’immersione a 360° nello spirito di quest’epoca straordinaria.”


Implementata inoltre da incontri, corsi e workshop, è destinata a essere un momento storico nello scenario delle mostre fotografiche in Italia.

 

 

 

 

Capolavori della fotografia moderna 1900-1940.

La collezione Thomas Walther

del Museum of Modern Art, New York

 

Dal 3 marzo al 26 giugno

 

CAMERA - Centro Italiano per la Fotografia

Via delle Rosine 18, 10123 - Torino www.camera.to | camera@camera.to

 

Orari di apertura (Ultimo ingresso, 30 minuti prima della chiusura)

Lunedì 11.00 - 19.00

Martedì Chiuso


Mercoledì 11.00 - 19.00

Giovedì 11.00 - 21.00

Venerdì 11.00 - 19.00

Sabato 11.00 - 19.00

Domenica 11.00 - 19.00

 

Biglietti
Ingresso Intero € 12
Ingresso Ridotto € 8, fino a 26 anni, oltre 70 anni


© Kate-Steinitz-Backstroke-1930

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05.04.2022 # 5983

Visibilità dei fotografi emergenti e cacciatori di fotografi

Alcuni suggerimenti e opportunità per i giovani fotografi che vogliono farsi conoscere

di Marco Maraviglia

Cercasi visibilità: per gloria o per lavorare?

Uno dei principali problemi dei fotografi emergenti è quello di farsi conoscere. Non tanto per avere gloria attraverso la cosiddetta “visibilità”, ma per iniziare la loro lunga, dura, faticosa carriera professionale.

La visibilità è una roba che si può raggiungere abbastanza facilmente spammando i gruppi di fotografia con le proprie foto, caricando immagini sul proprio profilo Instagram, taggandole, hashtaggandole, mettendo like a più non posso alle foto dei profili di gallerie d’arte, editori, studi di comunicazione sperando di essere notati. Ma improvvisandosi social media manager di se stessi porta in gran parte a scarsi risultati di feedback rispetto al dispendio di energie.

C’è chi usa la posta elettronica, WhatsApp, Telegram, blog, sito WEB per promuoversi ma anche per queste cose occorrerebbe avere le conoscenze giuste dei fondamenti del marketing.

Per intraprendere la carriera di fotografo professionista serve la divulgazione online del proprio lavoro ma se questo possiede una certa potenza creativa e qualitativa.

La visibilità dovrebbe essere supportata essenzialmente da un portfolio, con immagini professionali, da presentare direttamente ai potenziali clienti: editori, agenzie di comunicazione, aziende, gallerie d’arte.

 

Qualche nota riguardo alcuni strumenti utili alla visibilità dei propri lavori:

 

Il sito WEB

L’ideale sarebbe quello di avere un sito WEB come vetrina. Anche se non si ha uno storico curriculare. Anche se non si possiede ancora una P. IVA. La legge non lo vieta.

Un buon sito dovrebbe essere essenziale, intuitivo, avere un menu di facile comprensione, con sezioni tematiche, con un minimo di biografia e possibilità di poter far interagire i naviganti lasciando aperto il form per i commenti, se vi è anche una sezione destinata al blog.

Esistono piattaforme che offrono gratuitamente spazio per caricare i propri album fotografici ma bisogna ben valutare i pro e contro.

 

Il blog

Il blog è un’altra opportunità per dare visibilità al proprio percorso visivo raccontandolo. Non è sempre vero che le fotografie non debbano essere supportate da parole.

Non occorre essere grandi scrittori per scrivere testi a corredo delle proprie immagini. Va bene essere sintetici. L’importante è evitare strafalcioni grammaticali e ortografici.

 

La pagina Facebook

È un’opportunità gratuita che però non porta molte visualizzazioni se non si hanno almeno dieci-cinquantamila follower. Ma consente, quando non si ha un sito WEB, di avere i link di album fotografici tematici da inviare all’occorrenza a chi riteniamo opportuno.

 

Telegram e WhatsApp

Sono strumenti da non trascurare.

Negli ultimi anni i messaggi di posta elettronica sono letti dai destinatari sempre meno, causa loro eccesso.

Via WhatsApp è possibile annunciare iniziative relative a mostre o altro genere di eventi ma possiamo messaggiare solo se provvisti del numero di telefono di chi vogliamo informare. E poi non tutti gradiscono questo genere di messaggi considerati a volte spam.

Possedere invece un canale Telegram al quale invitare i potenziali interessati, significa segmentare un pubblico veramente interessato alle iniziative di cui sopra.

 

Mostre, fiere, concorsi fotografici

Riguardo le mostre fotografiche non contano solo il lavoro esposto, l’allestimento, il catalogo, ma il pubblico che dovrebbe visitare una determinata mostra.

Premi e concorsi fotografici possono essere un altro trampolino di lancio, specie quelli internazionali. Analogamente vale per le fiere e i festival di fotografia ma occorre spesso un livello di professionalità già abbastanza buono per parteciparvi. Per non fare un buco nell’acqua.

 

I cacciatori di fotografi

Insomma, non bisognerebbe puntare alla casualità nel promuoversi. Ma un fotografo emergente potrebbe iniziare a sperimentare le varie modalità sopra descritte iniziando a postare qualche foto u Facebook nei gruppi dedicati alla fotografia. Se non altro per iniziare a confrontarsi.

L’esposizione pubblica dei propri lavori potrebbe essere intercettata “da cacciatori di fotografi”. O semplici acquirenti privati di immagini, se si tratta di foto che meriterebbero di essere appese a una parete di un ufficio o di un appartamento.

Talent scout della fotografia come picture editor, galleristi, editori, art director, titolari di aziende, potrebbero individuare qualche giovane promessa da contattare.

 

Alcune opportunità per cacciatori di fotografi

Vi sono spazi virtuali e cartacei organizzati da esperti e grandi appassionati di fotografia, che talvolta senza nulla a pretendere, divulgano il lavoro di fotografi misconosciuti e che consiglio di seguire e magari partecipare.

 

La stanza degli ospiti

Ideata e curata dal fotogiornalista e artista Giovanni Ruggiero che individua periodicamente un autore da ospitare sul suo sito: https://www.ruggierogiovanni.com/la-stanza-degli-ospiti-old/

 

Clic-He’

È una piattaforma curata da Paolo Contaldo attraverso la quale vengono lanciate delle call a tema. Le immagini dei fotografi partecipanti selezionati vengono poi impaginate in un pdf sfogliabile online.

https://www.clic-he.it/

 

Best Select

Best Select è una creatura di Vanni Pandolfi, attivo animatore sui social che intercetta fotografi, anche non professionisti, e seleziona alcuni di loro per realizzare pubblicazioni di qualità.

 

«BestSelected è un progetto che nasce di getto, dall'amore per la fotografia di qualità dalla volontà di premiare, distinguere ed evidenziare  quei fotografi amatori e professionisti disseminati nella rete ,presenti con le loro opere  nei vari social network e community di fotografia, molto spesso soffocati , confusi con e nella massa di mediocrità fotografica.»

 

Candidature per i fotografi: https://www.bestselected.it/

 

Altre opportunità: spazi cartacei, fisici e virtuali

Associazioni fotografiche, intraprendenti curatori di mostre fotografiche, gruppi di fotografia su Facebook e quant’altro, offrono numerose altre possibilità per divulgare i propri progetti fotografici e ricerche visive. Resta il fatto che conviene sempre valutare costi, energie impiegate e benefici per alcune di tali operazioni.

Una cosa è però sicura: le fotografie non si regalano indiscriminatamente a terzi per fini di lucro. Se un giornale si sostiene con la pubblicità, è giusto chiedere all’editore un equo compenso per le proprie foto pubblicate.

 

 

 

© Foto di Kaique Rocha da Pexels

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23.03.2022 # 5955

Alma Carrano… e questa è un’altra storia. Una zelig in mostra.

Tre storie fotografiche tra contaminazioni di tecniche e sperimentazioni di stili. Fotomontaggi, sandwich e “storyboard” circolari

di Marco Maraviglia

Chi è Alma Carrano

Donna della III età. Insegnante di scienze naturali ormai in pensione.

Ha sempre avuto la passione per le immagini che potessero farla sentire in quel cuscinetto di confine tra realtà e finzione. Ha un’attrazione per la sensazione di sospensione, di allontanamento dalla realtà dove le storie vanno rilette, inventate, ricostruite, dilatando le dimensioni degli spazi e della vita.

Da ragazza per soddisfare questo bisogno di essere artefice di percezioni tangenti la realtà, usava una cinepresa Super8 e solo in età adulta iniziò a fotografare.

Lesse qualcosa di Feininger per iniziare a imparare a fotografare ma fu grazie a un corso che seguì, tenuto da Augusto De Luca sul finire degli anni ’80 presso il Centro Krome, che si appassionò con entusiasmo alla composizione fotografica.

Preferisce il racconto fotografico alle immagini singole. Il racconto da costruire attraverso un’immaginazione onirica. A volte come in quei sogni in cui lo storyboard è fatto di frame emozionali, senza un inizio e una fine, ma i vari elementi comunicano comunque un concetto.

Contamina pensieri, immaginazione, parole e immagini. E realizza videopoesie come Le rose di Sarajevo, che le fa conquistare il primo posto al Premio Città di Latina 2020.

Sua è la storia e la realizzazione di Le avventure di broccoletto, un libro edito da Temperino Rosso Edizioni nel 2021. Un racconto fotografico realizzato con fotomontaggi, dove un broccoletto incontra altri ortaggi e il cui fine educativo è quello di dimostrare che la diversità e l’aggregazione è ricchezza.

Quindi Alma Carrano scrive anche sceneggiature. La sua scrittura cinematografica percorre sentieri umani dai tocchi duri, storie concrete che si intrecciano con i drammi della società reale. E vince anche dei premi nazionali come il Premio Mauro Bolognini 2014 e il Premio Città di Ascoli Piceno 2021.

Tra i premi di fotografia vince il Premio Città di Como 2018, con una recensione di Giovanni Gastel; II Trofeo Portfolio Città di Sulmona; è finalista di Autore dell’Anno 2017 FIAF Campania con il progetto “Ofelia, ieri e oggi vittima di femminicidio”.

 

E questa è un’altra storia…

È il titolo della mostra allestita all’ArtGarage di Pozzuoli fino al 24 marzo.

«È un titolo provocatorio perché so che a molti fotografi non piacciono parole come “progetto” o “storytelling”» e in realtà le storie “scritte” sulle pareti con le fotografie in mostra di Alma Carrano sono tre. Realizzate in periodi diversi e con tre stili foto-grafici diversi tra di loro.

Come una zelig nell’accezione migliore del termine dove il suo stile è il contenuto, la storia stessa del messaggio che vuole comunicare e non la fotografia di per sé.

 

Angeli caduti

Otto immagini ispirate alla tradizione giudaica del Libro di Enoch e strizzando l’occhio a Giovanni Gastel.

L’immaginazione dell’osservatore può passare dalla storia del patriarca Enoch il cui testo racconta di angeli ribelli che per punizione divina caddero sulla terra unendosi agli umani, o anche passare per Il cielo sopra Berlino o per il suo remake di La città degli angeli con Nicholas Cage.

Angeli graziati ma che decidono di tornare a contatto con i sapori della vita terrena fatti di amore e di sofferenza.

Gli angeli di Alma Carrano hanno ancora le ali. Forse perché appena giunti sulla terra. Forse contemplano e si pentono della loro evasione. Sono in limbi senza tempo. Non sappiamo se si libereranno per sempre delle loro ali. Non sappiamo se decideranno di tornare da dove sono venuti.

 

John Doe sulle vie dell’Ovest

John Doe è l’equivalente americano del nostro Tizio o Caio. Un personaggio che c’è, esiste, ma non si sa nulla di preciso della sua vita perché potrebbe essere chiunque.

John Doe nella prima fotografia è di spalle accanto a una moto. Pronto a mordersi un favoloso viaggio on the road come solo i biker possono comprenderne le emozioni a contatto con i paesaggi sconfinati del West. Con Don’t bogart that joint o l’intera colonna sonora di Easy rider che risuona nella mente.

Nove immagini in bianconero. Ispirandosi ad Ansel Adams. Un viaggio circolare nella Valle della Morte. Perché prima o poi, si ritorna. E tutto torna.



Schegge di donna

È un lavoro analogico di Alma Carrano realizzato circa venti anni fa. Si tratta di stampe dai cosiddetti sandwich: sovrapposizione di due o più diapositive nello stesso telaietto.

Schegge di donna consiste in composizioni di dettagli di sguardi femminili tratti da quadri o pagine di giornali che si sovrappongono alle foto di frammenti di foglie e fiori.

Alma Carrano con questo lavoro indaga sull’intimità della donna attraverso le espressioni dei volti di Marilyn Monroe, la Gioconda di Leonardo e altre ancora, ricercando un’affinità con la natura. La sua bellezza e inevitabile caducità la rendono “la chiave del tempo”. Un tempo che nel suo trascorrere rende la donna fata, sibilla e strega: “Fata quando nasce, maga quando ama e strega per la società e la religione”.

E, osservando queste immagini, non si riesce a non ricordare La fata Edoardo Bennato.

Ma questa… è un’altra storia.

 

 

…E questa è un’altra storia

di Alma Carrano

FOTOARTinGARAGE, rassegna coordinata da Gianni Bccari

Parco Bognar, 21 – Pozzuoli -NA

12-24 marzo

Da Lunedì a Venerdì 10,00-13,00 e 16,30-21,00
sabato 10,00 13,00 16,30-20,00
Domenica Chiuso

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15.03.2022 # 5939

Francesca Artoni. Il tempo in un attimo di ghiaccio

Fotografie di attimi di vita congelati. Wunderkammer sentimentali fatti di “perle” raccolte a KmZero

di Marco Maraviglia

Chi è Francesca Artoni

Classe 1978. Nata a Guastalla (RE).

È perito chimico, lavora in ambito ospedaliero in un reparto operatorio, volontaria della Protezione Civile e non ha mai fatto studi artistici ma in età più matura e in pochissimi anni, è entrata nella carreggiata della fotografia artistica. Con risultati che non avrebbero deluso lei per prima visto che ha sempre coltivato la sua vena creativa dipingendo, disegnando o ritrasformando oggetti riportandoli a vita nuova.

Pur essendo una nativa digitale appartenente alla grande famiglia dei Millennials, appare come una donna d’altri tempi. Nata a contatto con la campagna e cresciuta nell’azienda vinicola di famiglia, la sua personalità sembra uscire da una fiaba dei fratelli Grimm.

Colleziona quelle che lei definisce “perle”. Tutto ciò che possa ricordarle attimi di vita. Suoi o quelli di altri. Le raccoglie e, attraverso processi di empatia e contaminazioni di tecniche artistiche che vanno dal collage al congelamento, passando per ruggine, ritagli di idee e quant’altro, le racconta in poesie visive.

Nel 2012 il marito le regala la prima fotocamera e inizia a frequentare alcuni incontri di fotografia. Dopo niente è stato più lo stesso.

 

Conservare (abstract)

In un mondo in cui tutto scorre sul filo della corsa al consumo, dove qualcosa che si rompe o si guasta finisce per lo più in discarica perché scompaiono gli “aggiustatori”; la produzione in serie rischia di non far più distinguere il lavoro esclusivo e certosino dell’artigiano; la sovrapproduzione di fotografie che non vengono stampate  facendo disperdere nell’ambiente momenti di riferimento della vita e valori umani rendendo anaffettive le persone, c’è chi rema controcorrente.

Qualcuno conserva ancora le vecchie cartoline ricevute dagli amici o le lettere d’amore dell’era pre-email. Qualcuno possiede i barattoli o le scatole dei ricordi in cui sono custoditi il primo dentino perso, una noce a tre spicchi, una piccola saponetta rubata in un albergo ancora nella sua confezione originale, un sassolino a forma di cuore raccolto su una spiaggia proprio durante un incontro sentimentale o anche una levetta di una lattina di bevanda vintage che fu la prima fede di fidanzamento.

Si tratta di una sorta di disposofobia positiva, la selezione di oggetti fatta non in maniera compulsiva ma legata a momenti particolari della propria vita. Wunderkammer sentimentali. Per accarezzare la vita del passato in un processo psico-emotivo che ci lega alla bellezza del presente. Amando il già vissuto.

Ma a chi saranno destinati questi oggetti senza racconti scritti che ne descrivono i loro attimi, del perché sono lì, conservati accuratamente anche se giù in cantina?

Forse chi li ritroverà durante gli sfratti di vecchie case senza più parenti, coglierà la magia contenuta in essi. Un’energia percepibile da qualche sensitivo o da chi ha a cuore il rispetto della memoria. E i mercatini delle pulci sono grandi serbatoi di sentimenti andati. Lì dove la memoria ha l’opportunità di percorrere altre vi(t)e.

Come capsule del tempo destinate a quel che resterà di un’umanità estinta o agli alieni di passaggio su questo pianeta.

 

Lo spacciatore di vecchie foto

Francesca Artoni cavalca l’onda dei ricordi. Non soltanto quelli suoi.

Per lei conservare oggetti nasce dalla necessità di catturare momenti che possono sembrare banali ma che in realtà sono sintesi del suo modo di “aver cara la vita”.

E questo può avvenire anche attraverso la post-fotografia: il recupero di foto vecchie di famiglia attraverso una reinterpretazione che non ne intacchi il ricordo, ma lo congela.

Francesca Artoni ha il suo pusher di fiducia. Uno dei tanti svuota cantine che hanno il triste compito di rimuovere ciò che è stato per tanti anni serbatoio di ricordi di famiglia e smistarlo tra mercatini, antiquari, discarica. Da lui Francesca riceve delle foto che lei continua a preservare.

Qualcuna di queste immagini diventa per lei oggetto di Criogenia.



Criogenia

Criogenia è il progetto di Francesca Artoni di cui sono esposte alcune immagini presso Movimento Aperto a Napoli.

 

  «Criogenia è nata da una mia riflessione sul tempo. È un pensiero che unisce molti miei lavori. Ho tratto ispirazione dal tema capolinea, per riflettere sulla ciclicità del tempo. Il tempo ciclico, o concezione circolare, vede l'universo come un continuo prodursi e disfarsi, nella sequenza eterna ed infinita della vita.»

 

Vecchie foto di famiglia, fiori e insetti del suo giardino, Francesca li congela immaginando per essi un’ibernazione che fissi per sempre la loro essenza. La paura forse di perdere attimi, sia pur minimalisti, che fanno parte comunque dell’armonia ciclica della vita.

Le immagini di Criogenia risvegliano nella mente i profumi che ci hanno donato i fiori, il battito di ali degli insetti, le emozioni di attimi di gioia familiare.

Si tratta di un processo delicato e intimo dell’autrice che non si limita al semplice scatto fotografico di tali oggetti. Francesca ne esorcizza la loro caducità congelandoli, come volerli soccorrere trasferendoli in una macchina del tempo per salvarne la loro bellezza nascosta.

Immagini che traspaiono dal ghiaccio come oltre un vetro appannato di una finestra. Un gioco visivo di vedo non vedo. Immagini oniriche di un mondo realmente esistito oltre quel ghiaccio che lo preserva.

 

La mostra

Criogenia di Francesca Artoni nasce nel 2017. È un work in progress che l’autrice via via implementa con nuovi soggetti ghiacciati e poi fotografati. Nella sua ricerca tende a individuare una gamma cromatica abbastanza estesa e comunque leggera, soft, acquerellata, sfumata.

Sedici sono le immagini esposte su un totale di oltre quaranta foto al momento realizzate.

Una parte è dedicata al mondo vegetale realizzata con fiori del proprio giardino, un’altra parte è dedicata al mondo animale con piccoli insetti. La terza sezione è dedicata all’umano in cui sono “glaciati” oggetti e foto di famiglia.

Le stampe fineart sono tutte quadrate in formati variabili a partire dal 25x25 e incorniciate in 50x50.

Immagini tutte realizzate a Km0: lavori che si sviluppano tra il giardino e gli interni della sua casa di campagna.

Tra i profumi della vigna, il legno di un camino acceso, collage e ricordi rinchiusi in scatole.

 

 

Per chi volesse addentrarsi maggiormente nel senso nel lavoro di Francesca Artoni si suggerisce la visione di Ogni cosa è illuminata di Liev Schreiber e Il favoloso mondo di Amelie di Jean-Pierre Jeunet.

 

 

Il tempo in un attimo di ghiaccio

di Francesca Artoni

a cura di Giovanni Ruggiero

MOVIMENTO APERTO di Napoli, dell’artista Ilia Tufano

Via Duomo, 290/C

dal 4 al 30 marzo 2022

il lunedì e il martedì ore 17-19, il giovedì ore 10.30-12.30

e su appuntamento chiamando i numeri 3332229274 - 3356440700

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