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23.01.2023 # 6200
Fotografia artistica Pasquale e Achille Esposito. Un libro per una mostra. Una mostra per un libro

Fotografia artistica Pasquale e Achille Esposito. Un libro per una mostra. Una mostra per un libro

Napoli fin de siècle. Una Napoli rétro alla Certosa e Museo di San Martino

di Marco Maraviglia

Fino al 19 marzo sarà possibile riscoprire la Napoli di fine ‘800 nella mostra fotografica Napoli ‘fin de siécle‘. Fotografia Artistica Pasquale e Achille Esposito, che raccoglie ed espone in tre sezioni tematiche le opere di Pasquale e Achille Esposito, protagonisti, alla fine dell‘Ottocento, di un‘importante stagione della grande tradizione della fotografia napoletana grazie alla produzione del proprio atelier fotografico commerciale.

 

La mostra in realtà è un‘ampia sintesi del bellissimo libro Napoli ‘fin de siécle‘. Fotografia Artistica Pasquale e Achille Esposito. Un volume che, sfogliandolo e anche il solo leggerne pagine casuali, rimanda a sensazioni extra-sensoriali, coinvolgendo in una macchina del tempo che ci accompagna alla partecipazione di una vita realmente vissuta a Napoli e dintorni. Perché vere sono le immagini con tutta la mimica tipica partenopea: pochissime in posa, poche realizzate in studio. Quasi tutte mostrano una realtà dinamica dove si evincono atmosfere quotidiane ambientate nel paesaggio urbano.

Perché le fotocamere erano più maneggevoli e leggere e i materiali fotosensibili, già dalla fne dell‘800, erano più performanti e non c‘era più bisogno di prendere fotografie con tempi di esposizione lunghi. L‘era degli atelier fotografici con le sedie ferma-testa, volgeva al termine.

Ed era la novità dell‘epoca. Si potrebbe dire che la street-photography nacque proprio con Pasquale e Achille Esposito.

 

La mostra è allestita nella spezieria della Certosa e Museo di San  Martino. L‘idea nasce per valorizzare un fondo fotografico presente nella fototeca storica del museo e segue quella su Alphonse Bernoud, allestita nello stesso spazio nel 2018.

C‘è da dire che il primo libro sulla storia di Napoli attraverso la fotografia, risale al 1981: Immagine e città di Napoli di Mariantonietta Picone. Napoli ‘fin de siécle‘ nasce dal desiderio dei curatori di voler implementare, far crescere la documentazione bibliografica, restando in tema.

 

Di Pasquale Esposito e Achille (il figlio) era nota la loro attività professionale a Napoli ma nulla si conosceva della loro biografia. Molte foto che realizzarono riportano la dicitura “fotografia artistica” oltre al loro nome. Erano particolarmente operativi nel campo della riproduzione d‘arte tanto da definirsi “i fotografi del Museo Nazionale” (oggi MANN).

La mostra si sviluppa su tre filoni fotografici: scene di strada e costumi popolari, vedute (di Napoli e dintorni come Capri, Amalfi, Sorrento, Pompei, Pozzuoli) e, come già scritto, documentazione di opere d‘arte.

 

Si evince dalle stampe all‘albumina appartenenti a vari fondi fotografici pubblici e privati, che Pasquale Esposito (1842-1917) è stato il più attivo in termini di produzione. Anche perché il figlio Achille visse solo 33 anni (1868-1901).

Si sapeva solo dell‘esistenza del lavoro prodotto dagli Esposito, padre e figlio, alcune immagini della loro produzione sono state riconosciute dagli stessi curatori andando a scavare fototeche pubbliche e fondi di collezionisti privati. È un lavoro di ricerca che non si improvvisa. Si fanno verifiche incrociate con gli stili estetici dei fotografi dello stesso periodo. Si consultano archivi, pubblicazioni e testimonianze giornalistiche dell‘epoca.

Infatti, un punto di partenza illuminante che ha dato la possibilità di tracciare alcune notizie biografiche di Pasquale e Achille, è stato una nota presente in un album del saggista e illustratore Gennaro D‘Amato: Raccolta di Fotografie di NAPOLI del 1800. Album che fu donato da D‘Amato alla Biblioteca Nazionale e giunto poi nella Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria. E questo album è esposto in una teca aperto proprio alla pagina della “nota illuminante”.

 

Non vi racconto cosa è scritto in questa nota perché un po‘ di curiosità per visitare questa mostra voglio lasciarvela.

Posso però dire che grazie a quella nota i curatori hanno iniziato a fare ricerche in vari archivi storici tra cui quelli dell‘Accademia di Belle Arti di Napoli, visto che si citava Achille Esposito come pittore.

 

Se pur siano stati i pionieri della fotografia di strada, il loro vedutismo calcava gli standard dell‘epoca. Ma ebbero la fortuna di attraversare un periodo tecnologico in cui si perfezionavano i procedimenti fotomeccanici per la stampa e la nascita delle prime cartoline turistiche agli inizi del ‘900. Anche a colori, preventivamente colorate a mano.

E con le cartoline inizia la produzione di riviste e libri destinati al turismo. Interessante vedere in esposizione una guida turistica di Pompei in inglese dove all‘interno vi sono venti stampe fotografiche originali all‘albumina. Ma purtroppo non si sa quante copie ne furono prodotte.

In quel periodo si determinò un po‘ la fine del Grand Tour. Non più gouache ma fotografie.

La nascita della fotografia fu inizialmente una dannazione per i pittori, ma poi ci si rese conto che poteva essere un mezzo utile per riprodurre scene senza dover necessariamente stare sul posto. O quando serviva a un incisore una scena da riprodurre fotomeccanicamente e riadattava la fotografia secondo il proprio stile compositivo: in esposizione una pagina di L‘Illustration dove è presente l‘incisione a stampa di una visita sul Vesuvio tratta da una foto degli Esposito.

 

In fondo, in uno spazio buio della spezieria, poggiate su un cubo luminoso realizzato dall‘artista Michele Iodice, vi sono quarantanove lastre fotografiche dell‘Archivio Parisio. Da osservare, attentamente, codificare mentalmente in positivo e scoprire infiniti dettagli affascinanti come la nodosa staccionata della villa Krupp che affaccia sui Faraglioni di Capri, il carattere dell‘insegna dell‘Hotel Vittoria che è lo stesso di oggi e i “com‘era all‘epoca rispetto ad oggi”.

Tante le chicche e sorprese. In mostra molti spunti che inducono a riflessioni, curiosità da approfondire, dettagli di una Napoli nel pieno della sua Belle Époque tra popolo e borghesia, tra divulgazione archeologica e turistica, lavori in strada, tra passeggiate sul Vesuvio e scugnizzi a Mergellina che ricordano il Pescatorello di Vincenzo Gemito.

Tanta roba. Non solo un tuffo nel passato, ma proprio una profonda immersione.

 

Insomma, per appassionati della Napoli rétro, per i filologi della cultura urbanistica e popolare, per i fotografi amanti dell‘albumina o per gli street-photographer, per chi si occupa di comunicazione turistica… ecco a voi una bella operazione su Napoli dalle mille e una curiosità. Una sola raccomandazione: non guardate solo le foto, si suggerisce di leggere i pannelli descrittivi che comunque sono una sintesi del preziosissimo libro.

 

Si ringrazia Fabio Speranza per il tempo dedicatomi il 19 gennaio durante una chiacchierata allinterno della spezieria per raccontarmi la mostra.

 

Foto di copertina: Pasquale e Achille Esposito, Calessi per il trasporto passeggeri presso Porta Capuana, Napoli, collezione Giulio Amodio

 

Napoli “fin de siécle”. Fotografia Artistica Pasquale e Achille Esposito

A cura di Giovanni Fanelli e Fabio Speranza

Certosa e Museo di San Martino – Sala della Spezieria

Dal 17 dicembre 2022 al 19 marzo 2023

Orari:

(escluso mercoledì) 8.30 – 17.00; chiusura biglietteria ore 16.00

 

Il libro è acquistabile nelle principali librerie e anche alla biglietteria del museo.

 

Info:

Ufficio Promozione, Comunicazione e Stampa – Direzione regionale Musei Campania +39 081 2294478 - drm-cam.comunicazione@cultura.gov.it

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17.04.2023 # 6249
Fotografia artistica Pasquale e Achille Esposito. Un libro per una mostra. Una mostra per un libro

Gianni Berengo Gardin. L‘occhio come mestiere

Oltre 200 fotografie che raccontano l‘Italia dal dopoguerra a oggi. Un mondo estinto o che sta scomparendo

di Marco Maraviglia

Tenetevi forti! L‘uomo da quasi 2milioni di scatti fotografici è qui.

Quello che non usa mai il 50 mm perché preferisce il 35 mm per stare più dentro la scena. Quello che timbra dietro le sue stampe fotografiche “vera fotografia”, antagonista del digitale, perché lavora solo con pellicola e stampe ai sali d‘argento. Perché solo così sa che può toccarla e avvertirne il possesso. È il fotografo dai quasi 260 libri pubblicati tra cui 30 con il Touring Club Italiano. Perché i giornali lo facevano lavorare poco anche se ha collaborato con riviste come Domus, Epoca, Le Figaro, L‘Espresso, Time, Stern.

È quello che, dopo aver fotografato Giuseppe Ungaretti durante una manifestazione studentesca a Venezia, la polizia caricò e un poliziotto gli spappolò il pollice con una manganellata. E gli è rimasto il bitorzolo. E anche la foto del poliziotto che immortalò con la sua Leica mentre era rincorso.

Quello che ebbe da Ugo Mulas un simpatico rimprovero perché non conosceva la differenza tra una fotografia bella e una buona fotografia.

È quel fotografo che quando propose le sue prime fotografie di Venezia, otto editori che contattò gliele bocciarono perché non era una Venezia “turistica”. Ma gli pubblicò il libro un editore svizzero e fece il botto.

 

Eh sì, c‘è Gianni Berengo Gardin a Napoli. Classe 1930. In realtà a Napoli c‘è già stato diverse volte di persona per fotografare e alcuni degli scatti che ha fatto, sono presenti tra le oltre 200 fotografie in mostra alla Casa della Fotografia in Villa Pignatelli andando a implementare le immagini già esposte al MAXXI di Roma nel 2022.

Si suggerisce di andarci con un paio di tramezzini e acqua per osservarle tutte con calma.

Perché non è una passeggiata. Cioè sì, lo è ma lunga, nello spazio e nel tempo. Perché si attraversa l‘intero stivale, da Nord a Sud, dagli anni ‘50 a oggi.

Una faticata? No. Un piacevole viaggio che inizia dalle gigantografie che ritraggono i dettagli del suo atelier mansardato. Ordinato in maniera quasi maniacale: in una di queste foto non si vede perché è in bianconero, ma gli attrezzi per bricolage ritratti sono tutti dipinti in rosso per avere un certo ordine. Un ordine forse scaturito da un‘esperienza sgradita, se non traumatizzante: di quando durante un trasloco perse alcune foto che fece a Parigi, comprese quelle fatte a Jean Paul Sartre.

E poi si attraversano le altre sale con fotografie esposte in un percorso volutamente non cronologico. Ragazzi che ballano in spiaggia con un vecchio grammofono; un lungo bacio di una coppia sotto i portici e la durata di quel bacio è determinata dai piccioni a terra che sono mossi.

 

Sono un guardone. Il fotografo deve essere un guardone, un curioso, con uno sguardo che vada oltre la fisicità dei soggetti.

 

Le foto di Gianni Berengo Gardin sono tutte rigorosamente in bianconero. Perché è cresciuto col cinema, la tv, la fotografia in bianconero e il colore, come lui e altri grandi fotografi della sua generazione sostengono, distrae l‘attenzione dalle scene ritratte.

Nelle sue immagini vediamo un mondo che, per certi versi, sta scomparendo o è già finito. È la missione consapevole e progettuale di Berengo Gardin: lavorare per l‘archivio per tramandare ai posteri il “come eravamo”.

Come stava, cosa faceva, come viveva la gente nelle città italiane. Per le strade, sulle spiagge, durante le feste, i lavori in strada o, come quella di un basso napoletano da lui immortalato: un negozio di scarpe nella casa.  I villaggi Rom, i luoghi rurali, l‘Aquila colpita dal terremoto, i personaggi che ha incontrato come Cesare Zavattini che scrisse per lui alcuni testi dei suoi libri, Peggy Guggenheim, Sebastiao Salgado, Ugo Mulas, Dario Fo… E poi, gli operai delle fabbriche e dei cantieri. Indagini sociali e urbanistiche di un‘Italia che andava rinnovandosi, si trasformava durante il babyboom, fino a giungere negli ultimi anni alle foto di denuncia delle grandi navi a Venezia.

 

Amavo molto Venezia, poi è stata assassinata dal turismo.

 

Documenti fotografici che fanno ormai parte dell‘iconografia del Belpaese. Come le immagini realizzate per l‘Olivetti che mostrano l‘umanità della fabbrica con spazi destinati a servizi sociali e culturali per le famiglie dei dipendenti.

O quelle sulle condizioni dei degenti nei manicomi italiani, realizzate per il libro Morire di classe, in tandem con Carla Cerati. Immagini struggenti che sensibilizzarono ulteriormente l‘opinione pubblica e lo stesso Franco Basaglia che si batté per la Legge 180.

Alcuni suoi libri già documentano un‘Italia che non c‘è più, altri saranno documenti per il futuro.

 

Il vero DNA della fotografia è la documentazione.

Non sono un artista, non voglio passare per un artista, assolutamente… io sono uno che racconta quel che mi succede intorno, sono un testimone della mia epoca.

 

La fotografia per Gianni Berengo Gardin, non è un divertimento, ma un vero e proprio impegno sociale. Non ha frequentato scuole di fotografia, si è formato dalla lettura dei libri, entrando in contatto con i luoghi e le realtà sociali in essi descritte. A tal fine, furono per lui utili persino le figurine della Liebig di cui possiede ancora la collezione. E poi ha imparato da centinaia di libri di fotografia. Di vecchi fotografi e qualcuno tra i più giovani. E considera suo maestro assoluto Willy Ronis (1910-2009) per l‘aspetto della fotografia umanista.

 

L‘Italia di Giani Berengo Gardin è un mondo che scompare e, per certi versi è già finito. Come disse Goffredo Fofi, nelle sue fotografie vi sono volti dell‘epoca che non esistono più. Quelle espressioni di un popolo povero ma felice, laborioso in cerca di riscatto, creativo, intraprendente, è un‘altra storia.

Ma nulla scompare per sempre. Perché restano come testimoni gli oltre 250 libri che Gianni Berengo Gardin ha pubblicato. A volte collaborando con fotografi come Gabriele Basilico, Luciano D‘Alessandro, Ferdinando Scianna, l‘architetto Renzo Piano.

E alcuni di quei libri sono esposti in questa mostra, da vedere da soli o con i figli. Per mostrar loro “come eravamo”.

Magari inquadrando il QR code per essere accompagnati dalla voce di Gianni Berengo Gardin che racconta in prima persona aneddoti e ricordi legati alla sua vita personale e professionale.

 

 

 

L‘occhio come mestiere, Gianni Berengo Gardin

a cura di Margherita Guccione, Alessandra Mauro, Marta Ragozzino

Villa Pignatelli, Casa della fotografia- Napoli,

6 aprile - 9 luglio 2023

 

Foto di copertina: Una grande nave in bacino San Marco, Venezia, 2013; © Gianni Berengo Gardin/Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia

 

UFFICIO STAMPA DIREZIONE REGIONALE MUSEI CAMPANIA

+39 081 2294478 | drm-cam.comunicazione@cultura.gov.it

UFFICIO STAMPA MAXXI

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11.04.2023 # 6244
Fotografia artistica Pasquale e Achille Esposito. Un libro per una mostra. Una mostra per un libro

Luca Stoppini, Tra il muro della terra e i martìri

Fino al 13 aprile nella chiesa di San Giuseppe delle Scalze, le alchimie visive dell’invisibile

di Marco Maraviglia

Nulla è come sembra.

Non tutto è visibile di fronte all‘occhio guidato dalla razionalità della mente. Sei abituato a riconoscere lo spazio e il suo contenuto secondo regole e canoni standardizzati da sovrastrutture matematiche, estetiche, biologiche, esperienziali, ma non è tutto lì il mondo. Non finisce dove arriva l‘occhio.

Eppure è la stessa matematica che ci “promette” l‘infinito. Oltre il quale due rette possono incontrarsi.

È una strada, è LA strada da percorrere per superare la ragione affinché l‘irragionevolezza possa poi diventare ragione conclamata. Lì dove l‘invisibile diventi visibile.

Tra due specchi paralleli ci riflettiamo duplicandoci a perdita d‘occhio. L‘Io si annulla oltre l‘ultimo riflesso che non riusciamo a scorgere.

 

Proprio questo movimento ondulatorio fluido che la rifrazione crea è quello che io costantemente cerco di cristallizzare con le manipolazioni-distorsioni nelle mie immagini cercando di “vedere” anche quell‘immagine che la luce ha trasportato nella nostra parte inconscia e che muove le nostre emozioni più forti. Sono immagini quindi che riflettono il profondo costantemente agitato dal nostro inconscio.

- Luca Stoppini

 

Le immagini di Luca Stoppini è come se sfidassero l‘equilibrio frattale. C‘è in esse armonia e ritmo anche se lontane dall‘omotetia geometrica. Del resto, chi ha lavorato per oltre 30 anni per la Condé Nast come art director, non poteva non avere un senso rivoluzionario dell‘estetica, addestrato e maturato per catturare l‘attenzione dell‘osservatore.

Fotografie, o porzioni di esse, distorte, deformate, fino a privarle di ogni riferimento tangibile, concreto, visibile. Parti di corpo umano divengono materiale fluido, come colori a olio sulla tavolozza e da avvicinare tra di loro, componendo forme sinuose, tortuose e a spirali ma senza mescolarli. Senza diluirli, anzi, alternando vuoto e pieno affinché il momento finale di questa danza emotiva, si compia. Sembrano bocche di piantine carnivore o fiori tropicali? La risposta è ciò senti.

Sono alchimie foto-grafiche. «Pittografie in cui si avverte il sapore di un‘attesa che riposa, per esplodere negli occhi di chi guarda» (Maria Savarese). Produzione dell‘invisibile, dell‘inesistente per (di)mostrare che può esistere e avere un suo perché. Come in una ricerca di laboratorio dove si manipolano molecole per guarirne o produrne delle altre. Qui il laboratorio è il software, si usano gli strumenti digitali di elaborazione dell‘immagine come lo strumento “altera” o il filtro “fluidifica” del Photoshop, introducendo ulteriori livelli che vanno ad interagire con i pre-esistenti, fin dove il tutto si compie. Dove la fotografia, il pieno, si annulla nel vuoto rigenerando altro pieno nel colore.

 

Immagino esista una ventiquattresima coppia di cromosomi. Molecole che riempiendosi e svuotandosi costantemente modificano e rendono fluide le geometrie del corpo. Le emozioni sono il motore che genera questo movimento. Il mio continuo scansirlo vuole renderle visibili. Appena entrato alle Scalze lo scambio tra pieno e vuoto mi ha colpito fisicamente. Come quando per la prima volta percepisci fisicamente le onde sui cui corre la musica. La forma del tuo corpo viene plasmata dall‘emozione; pieno e vuoto sono lì, davanti a te. Immobili, immediatamente reattivi alle tue emozioni. Luce e buio, enorme e microscopico, rumore e silenzio. Sacro e umano. Esiste lì una decadenza che vive di luce propria. Attraversandola ti fai dieci volte più alto, nello scoprirla minuscolo. Voglio in questa mostra entrare leggero come l‘aria che muove una tenda, violento come il vento che fa sbattere la finestra, che rompe i vetri. Come uno specchio in queste immagini voglio riflettere l‘emozione che ha modificato il mio corpo durante questi anni.

- Luca Stoppini

 

Un sottile concept intimo ed emotivo maturato negli spazi che ospitano la mostra dove i grandi spazi sono un‘alternanza di pieno e vuoto. E dove le stesse immagini di Luca Stoppini, si alternano nei vuoti degli spazi della chiesa.

Tre grandi fotografie (3x4 m) a terra e in controfacciata una di altrettanti dimensioni mentre lungo tutto il perimetro delle pareti, sette opere di grandezza inferiore.

Fotografie che sembrano un tutt‘uno con il contesto circostante e che avviano un dialogo visivo capace di riempire quel senso di smarrimento che si avverte quando si percorre la chiesa.

 

In questo luogo il pieno e il vuoto è lì, davanti a te pronto allo scambio. Apparentemente immobile ma immediatamente reattivo alle tue emozioni. La luce e il buio, l‘enorme e il microscopico, il suono e il silenzio e ovviamente il sacro e il profano. Esiste lì una decadenza che vive di luce propria. Attraversandola ti fai alto più di dieci volte la tua statura e minuscolo nello scoprirla.

- Luca Stoppini

 

La Chiesa di San Giuseppe degli Scalzi è quindi il luogo che si presta all‘esposizione. Un HUB di rigenerazione urbana che, grazie al Forum Tarsia, dal 2005 lavorò per restituire alla cittadinanza “Le Scalze”.

 

Bio (dal comunicato stampa)

Nasce a Milano nel 1961. Vive e lavora tra Milano e Parigi

Luca Stoppini è un professionista dell‘immagine a 360°. Per più di trent‘anni direttore artistico di Vogue Italia e de L‘Uomo Vogue, oggi direttore creativo di ICON Mondadori, ha curato il concept visuale di molte campagne e pubblicazioni della moda, affiancando sul set molti dei più grandi e conosciuti fotografi di moda e vanta collaborazioni con case editrici internazionali come Skira, Rizzoli International, Thames&Hudson e musei come Triennale di Milano, Victoria and Albert Museum di Londra. Designer grafico, ma anche artista puro, Stoppini ha sperimentato una varietà di materiali e di tecniche, per realizzare opere immagini bi e tridimensionali che sono state esposte nel contesto di personali e collettive in diverse parti del mondo, entrando a far parte di

alcune importanti collezioni d‘arte contemporanea. Fra i suoi strumenti più consoni, veloce e versatile per prendere appunti visivi non stop, per annotare estemporaneamente situazioni e momenti, ma anche per registrare e trasporre soggetti, suggestioni, colori e patine della vita nel suo lavoro d‘artista, la macchina fo­tografica digitale si è trasformata in una congeniale, irrinunciabile estensione dello sguardo di Luca Stoppini. Un mezzo per accostare, rilevare e penetrare situazioni diverse, un modo di accostare, decodificare, penetra­re le forme della vita vita e le dinamiche dell‘arte.

 

 

LUCA STOPPINI

Tra il muro della terra e i martìri

mostra fotografica a cura di Maria Savarese

Con il sostegno di Kiton

Chiesa S. Giuseppe delle Scalze

Salita Pontecorvo, 65 - Napoli

Dall‘1 aprile al 13 aprile 2023

orario: 10.00 - 16.00

domenica chiuso

ingresso libero

per ulteriori informazioni:

Ufficio stampa

Guardans-Cambó

tel. 02 43990159

press@guardanscambo.com



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13.03.2023 # 6224
Fotografia artistica Pasquale e Achille Esposito. Un libro per una mostra. Una mostra per un libro

Pino Grimaldi: Fotodesign. Didascalie d‘autore con immagini (1972-2017)

L‘ideatore del blur design in una insolita mostra fotografica quasi autobiografica. Un album fotografico collettivo

di Marco Maraviglia

Didascalie con foto. Come dire «toga con avvocato» oppure «arredamento con casa» o ancora, «acqua con bottiglia». Il soggetto è contenuto o contenitore?

Pino Grimaldi è stato una delle punte di diamante dello scenario del graphic design nazionale che purtroppo ci ha lasciati giusto tre anni fa. Nel pieno delle sue attività professionali.

Pensare all‘inverso è un modo di progettare la soluzione prima che si presenti il problema. Significa andare oltre. Arrivare alla luna senza badare nemmeno al dito che la indica.

Pino Grimaldi quando iniziò a pensare questo progetto probabilmente immaginò la famosa massima di Ansel Adams «Ho sempre pensato che la fotografia sia come una barzelletta, se devi spiegarla vuol dire che non è venuta bene». Perché sapeva che questa non poteva essere un principio assoluto.

Pino aveva un altro (ma anche alto) concetto della fotografia. Con l‘avvento del digitale, si era reso conto delle opportunità che si presentavano.

 

Oggi la fotografia è totalmente digitale (i nostalgici tecnofobi se ne facciano una ragione); la fase di produzione seriale è scandita da una filiera che non è più lo sviluppo e stampa, ma è ancora molto più complessa di prima e attraversa diverse fasi.

Dell‘antica scansione binaria: Ripresa + Sviluppo e Stampa è diventata una ragnatela di momenti, tutti delicatissimi, tutti molto, molto dipendenti dalla tecnologia e dalla capacità di controllarla allo scopo di avere un output che coincida con l‘intenzione dell’autore. Anche se l‘autore, se appena è un poco consapevole, sa che il lavoro una volta consegnato al sistema dei media non gli appartiene più e va a ricollocarsi in un nuovo senso che è quello del contesto nel quale è inserito.

 

È nella consapevolezza di quella sua idea di fotografia che la immagina come fonte progettuale di design. Un‘opportunità creativa per fotografi, grafici, designer, comunicatori. Qualcosa che può non essere solo a sé stante per illustrare o documentare, ma diventare fruibile in maniera partecipata, un prodotto interattivo. Utile, come un qualsiasi oggetto di design ben progettato.

 

Pino Grimaldi aveva selezionato fotografie da lui scattate tra il 1972 e il 2017 che fermavano quarantacinque anni di alcuni momenti da lui vissuti. Documentavano sintesi di storie che solo lui o una ristretta cerchia di persone, potevano (ri)conoscere e ricordare. Le foto pubblicate sui giornali sono a corredo degli articoli, in fondo, ma Fotodesign di Pino non sono pagine di giornale con fotografie, ma è come un album di memorie fotografiche. Di quelli dove si annotano frasi, ricordi, note storiche in calce alle foto stesse. Ma con la particolarità che quelle didascalie sono scritte non da chi ha “attaccato” le foto nell‘album, ma da chi era lì al momento dello scatto o perché coinvolto per altri motivi.

Il contenuto diventa packaging. Apoteosi della simbiosi tra prodotto e suo contenitore. Quell‘album fotografico veicola storie nella sua totalità. Le foto non hanno ragione di esistere senza quei pensieri scritti.

 

E allora ecco le “annotazioni” del critico d‘arte Achille Bonito Oliva, della gallerista Lia Rumma, dell‘artista Lello Esposito e, ancora, qualcuno scrive citazioni per un ritratto fatto a Marina Abramovich durante una performance nel ‘72 alla Galleria Morra. E poi altre didascalie che accompagnano le foto scritte da Daniela Piscitelli, Giovanna Cassese, Angelo Trimarco, Massimo Bignardi, Anty Pansera, Luciana Libero, Alba Palmiero, Alfonso Amendola, Franco Tozza, Andrea Manzi, Carlo Pecoraro, Maria De Vivo, Giuseppe Durante, Paolo Apolito, Paola Fimiani, Rino Mele, Silvana Sinisi,Marcello Napoli, Cettina Lenza, Antonella Fusco, Maria Rosaria Greco, Rossella Bonito Oliva.

Tutti cari amici di Pino Grimaldi conosciuti negli anni e con i quali ha condiviso quei momenti fotografici.

 

Sono esposte trentaquattro fotografie con relative didascalie. Non hanno la pretesa di essere tecnicamente perfette. Alcune non sono state riprodotte e ritoccate per eliminare imperfezioni tecniche per ristamparle, ma sono le stampe originali ai sali d‘argento. Nude e crude, così come erano state conservate da Pino.

Ogni didascalia è accanto alla foto e occupa la stessa grandezza dello spazio della foto. Citazioni, ricordi, riflessioni, spunti di dibattiti.

 

L‘apporto di Ilaria e Daria Grimaldi, figlie di Pino, è stato fondamentale per la messa in opera di questa mostra. Ne parlavano insieme, durante la fase progettuale, e la successiva scoperta e lettura degli appunti del padre, le ha portate a definire il tutto nei dettagli per questa mostra. C‘era un‘ottima intesa tra loro e Pino credo che avrebbe apprezzato il risultato finale.

Un progetto che non resterà solo appeso alle pareti del Palazzo Fruscione di Salerno per soli quindici giorni, ma è già un libro che sarà presentato il 15 marzo alle 18.00 nella stessa sede espositiva alla presenza di Vincenzo Napoli, Sindaco di Salerno, e altre personalità del mondo dell‘arte e della cultura.

 

Pino Grimaldi è stato un grande designer che è riuscito a disegnare anche questo delizioso progetto in maniera condivisa, con empatia, con i suoi amici, pur avendoci lasciati prima. E sarà un‘occasione per i giovani graphic designer per conoscere questa sua idea e per ricordarlo insieme, tra vecchi amici, con i sorrisi nella mente.

 

Copertina: Marina Abramovich - performance Galleria Lia Rumma 1972 © Ph. Pino Grimaldi

Foto sotto: Achille Bonito Oliva - 1972 © Pino Grimaldi




 

Fotodesign-Didascalie d‘autore con immagini - 1972 -2017

Mostra fotografica di Pino Grimaldi

Dal 15 al 31 marzo Palazzo Fruscione (Sa)

vicolo Adelberga  19

Inaugurazione 15 marzo ore 17.30

Ingresso libero

dal martedì al venerdì: ore 11.00 - 13.00 e dalle ore 17.00 alle ore 20.00.

Il sabato e la domenica dalle ore 10.30 alle 20.30 in orario continuativo.

Info: comunicazione@blendlab.it

Blendlab

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08.03.2023 # 6220
Fotografia artistica Pasquale e Achille Esposito. Un libro per una mostra. Una mostra per un libro

Roberto Lavini espone 13 fotografie stampate al Carbone al Museo della Fotografia di Brescia

Fotografia duratura, tattile, uno dei processi fotografici dell‘800 mostrati da vicino

di Marco Maraviglia

È solo polvere elettronica quella che conservi. Non le vedi se non accendendo un dispositivo elettronico di visualizzazione e attivando un software. Se non c‘è corrente elettrica, restano invisibili. Qualcuno direbbe che se non si possono toccare, non esistono. Qualcun altro dice che scompaiono quando meno te l‘aspetti da un hard disk o da un dischetto. Sono le foto digitali. Facili da fare, belle da vedere ma indipendenti. Figlie che non ti appartengono se non le stampi per tenerle con te. Inserendole in un album cartaceo o per metterle in cornice appendendole a una parete. O per farne un libro. Stampato su carta!

 

Roberto Lavini, classe 1956, originario di Salerno ma che vive in un piccolo borgo a Civitella in Val di Chiana provincia di Arezzo, è cresciuto nell‘era analogica della fotografia. Pur lavorando nella fotografia commerciale e per privati, fin da ragazzo è a contatto con la camera oscura, ingranditore, bacinelle, luce rossa e chimici. Un‘esperienza che non ha mai interrotto perché gli sembrava «la strada migliore per percorrere un approccio consapevole allo studio della fotografia». Si concentra negli ultimi anni sullo sviluppo di suoi progetti creativi, condividendo le sue ricerche attraverso articoli per riviste di settore, dimostrazioni pratiche e offre servizi di consulenza per la stampa con i procedimenti alternativi a fotografi artisti.

 

Si laurea al DAMS di Bologna dove, studiando storia della fotografia, si appassiona alle antiche tecniche dei processi fotografici.

 

Quegli studi furono per me una vera fonte di ispirazione perché sentivo l‘esigenza di un maggiore coinvolgimento nel processo creativo, di “connettermi sensorialmente” con i lavori che stavo eseguendo; in pratica volevo immergermi nella sperimentazione con lo stesso fervore delle generazioni di fotografi che mi avevano preceduto. Oggi i materiali sono diversi rispetto a quelli che usavano i fotografi dell‘800, quindi ho dovuto provare a percorrere nuove strade, non ultima quella del digitale per la produzione di negativi di grande formato per la stampa a contatto.

 

Negli anni Roberto Lavini ha dovuto studiare nuovi materiali e chimici per emulare i processi fotografici dell‘800 perché nel frattempo non più disponibili anche per questioni ecologiche.

 

Dal 2017 la Comunità Europea ha vietato utilizzo dei bicromati perciò numerosi sono stati i tentativi per sostituirli con altre sostanze più sostenibili per l‘ambiente.

Il sensibilizzante Das (della famiglia dei Diazido) risponde a questa esigenza in quanto non è nocivo per l‘uomo e per l‘ambiente e in più ha un‘azione indurente sui colloidi migliore dei bicromati. Questa sostanza, con semplici modifiche al processo, ci consente di eseguire ancora ottime stampe al carbone.

 

Riguardo la produzione di negativi di grande formato per la stampa a contatto, Roberto Lavini ha percorso la strada del digitale. In un‘era ancora ibrida in cui convivono e-book e libri in carta, banconote e carta di credito, pennelli e tavoletta grafica, se la tecnologia digitale può essere di supporto per ottenere un risultato visivo finale, tattile e di qualità nel dettaglio, ben venga.

Il processo al carbone è noto per la stabilità delle stampe, in termini di durata nel tempo e per l‘ampia gamma tonale che restituisce. «Nel mondo dell‘arte e del collezionismo fotografico, le stampe al carbone sono considerate tra le più preziose». Si presentano come se fossero a rilievo, specie nelle zone dei neri, vien voglia di toccarle, carezzarle con le dita.

 

Roberto Lavini espone 13 stampe al Carbone (a colori e monocromatiche). I formati vanno dal 24x30 cm al 40x50 cm.

Senza cornici e senza passepartout. Esposte orizzontalmente all‘interno di vetrinette.

Insomma, una chicca per gli appassionati della fotografia vintage.

 

 

 

I Colori Del Carbone

a cura di Gabriele Chiesa

dall‘11 marzo all‘8 aprile 2023 (inaugurazione mostra Sabato 11 Marzo ore 17:00)

Museo Nazionale della Fotografia di Brescia

Contrada del Carmine, 2F

ingresso libero

orari:

Lunedì e Venerdì chiuso.

Martedì, Mercoledì e Giovedì ore 9:00 - 12:00

Sabato, Domenica e festivi ore 16:00 - 18:45

Info:

www.museobrescia.net Tel. 030 49137

 

 

Il 12 marzo, presso lo stesso museo, avrà luogo un workshop condotto da Roberto Lavini:

 

LA STAMPA AL CARBONE SENZA CROMO

 

·       Premessa. Ai partecipanti si richiede di realizzare ed inviare a infocorsi@cameracreativa.it entro mercoledì 1 marzo, un autoritratto (foto digitale, anche smartphone). Il file servirà per produrre la matrice 7x10,5 cm (rapporto tra i lati 1,5) che verrà impiegata per stampare, durante il workshop, un segnalibro fotografico personalizzato in bicromia al carbone. A conclusione del workshop ciascuno dei partecipanti riceverà il proprio.

·       Mattina: storia e panoramica del processo. Evoluzione e le principali innovazioni. L‘uso del DAS al posto dei bicromati. La scelta dei pigmenti, ricette e taratura degli ingredienti. Preparazione della carta carbone (tissue): mescola degli ingredienti e stesa della soluzione di gelatina.

·       Pomeriggio: esecuzione di una Stampa al Carbone BN su due strati di gelatina pigmentata. Messa a registro della Carta Carbone sulla Carta da Trasporto e Sviluppo.


"Prometeo" - stampa al carbone © Roberto Lavini


In copertina: "Magic bus" - stampa al carbone © Roberto Lavini

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03.03.2023 # 6218
Fotografia artistica Pasquale e Achille Esposito. Un libro per una mostra. Una mostra per un libro

Eve Arnold: L‘opera. Una grande mostra al Camera di Torino fino al 4 giugno

Conosciuta più per le fotografie scattate a Marilyn Monroe, la fotografa della scuderia Magnum determinò uno stile tecnico ed estetico indagando fenomeni della società americana e internazionale

di Marco Maraviglia

«È stata la prima donna a entrare in Magnum» così scrivono. Come dire «è stato il primo extraterrestre a…». Una donna è una persona. Una donna che fotografa è una fotografa e credo che non conti oggi precisare il genere di chi produce immagini. Del resto stesso lei non sopportava la dizione che le attribuivano come “fotografa donna”. Eh, ma ai tempi della Magnum era altra cosa. Era il 1951 quando H. Cartier Bresson, pioniere della fotografia umanista e fondatore della Magnum, la notò e la coinvolse come freelance nella più grande agenzia fotografica del mondo per poi renderla socia nel 1957. La prima associata donna della Magnum. Ecco, ci sono cascato anch‘io, ho precisato “donna”. Era più difficile di oggi, per una donna, avere una giusta collocazione per meriti. Come Mary Jackson, la prima ingegnera di colore della NASA (1958) la cui storia è raccontata nel film Il diritto di contare.

Il merito di Eve Arnold non era essere donna ma il suo modo di osservare all‘interno del mondo. Uno sguardo che evidentemente colpì Bresson quando gli capitò di vedere i suoi scatti fatti ad Harlem in occasione delle sfilate di moda di modelle e stilisti di colore, totalmente ignorate dal fashion-mainstream statunitense, o quelli realizzati durante le manifestazioni dei Black Muslims e di Malcom X che acconsentì di farsi seguire a distanza ravvicinata durante i più importanti raduni.

Una bella botta per l‘epoca: “donna bianca fotografa neri!”. Una roba che i giornali americani non pubblicavano. E infatti quegli scatti furono stampati dal Picture Post di Londra nel 1951 e da altre riviste europee.

 

Le persone attraversano momenti della vita che, nel bene o nel male, segnano il proprio campo emotivo. Episodi che formano la persona ampliando via via il proprio background esperienziale. Tutti input che, per chi svolge lavori creativi, si riflettono sul proprio operato.

Eve Arnold, nata nel 1912 a Philadelphia da genitori russi immigrati con madre ebrea, ha vissuto una vita con grandi ristrettezze economiche. A 31 anni decide di interrompere gli studi universitari per lavorare in uno stabilimento di sviluppo e stampa di fotografia.

 

Chi ha vissuto una vita fatta di stenti, una vita in cui magari pensi che fine avrebbero fatto i tuoi genitori se avessero vissuto in Europa durante il periodo nazista, le corde dell‘anima sono toccate nel profondo. Realizzi che il mondo non è facile per tutti abitarlo e costruisci in te una certa dose di umiltà ed empatia. Eve Arnold era sensibile alla discriminazione razziale. Osservava le persone e non il loro status sociale o politico. Ascoltava le persone con gli occhi.

 

Non vedo nessuno come ordinario o straordinario.

Li guardo semplicemente come persone davanti al mio obiettivo.

 

Quando Adrian Lyne girò 9 Settimane e ½ (1986), ci fu un certo scalpore non solo per la storia ad alto impatto erotico per l‘epoca ma per il fatto che molte scene del film fossero state girate con luce ambiente. Non si era inventato nulla in realtà. Barry Lyndon (1975) di Kubrick fu interamente realizzato a luce ambiente, interni compresi. A lume di candela.

Ma già anni prima Eve Arnold fece della luce ambiente uno dei suoi cavali di battaglia. Probabilmente, forte di quell‘esperienza nei laboratori fotografici della Stanbi, una delle caratteristiche del lavoro di Eve era trascorrere molte ore in camera oscura per trattare le sue fotografie, tutte scattate senza flash. Restituendo atmosfere intense e naturali, riprese anche in condizioni di luce critica.


Marilyn Monroe in the Nevada desert during the filming of “The Misfits. USA, 1960

© Eve Arnold / Magnum Photos


Ha fatto fotogiornalismo d‘inchiesta, ha affrontato il razzismo negli Stati Uniti, ha seguito l‘emancipazione femminile, un progetto sull‘uso del velo in Medio Oriente, l‘interazione fra le differenti culture del mondo, fotografa nei reparti di maternità degli ospedali di tutto il mondo, soggetto a cui ritorna costantemente per esorcizzare il dolore subito con la perdita di un figlio avvenuta nel 1959.

Ma purtroppo è nota principalmente per le sue foto realizzate alle star del cinema: da Marlene Dietrich a Marilyn Monroe, da Joan Crawford a Orson Welles.

Una Marlene Dietrich fotografata in backstage durante la registrazione di alcune delle canzoni care alle truppe alleate. Incallita fumatrice, espressioni insolite e ironiche mai viste nei film che interpretava, Eve Arnold riuscì a tirare fuori un servizio fotografico che le aprì le porte per fotografare altre star.

«Se sei riuscita a fotografare in maniera così intima e naturale Marlene Dietrich, dovresti saper fotografare anche me» disse più o meno Marilyn Monroe a Eve quando la incrociò a una festa in un locale nel 1954. E divennero amiche per sempre. E infatti conosciamo Eve Arnold per le splendide fotografie scattate a Marilyn in vari momenti anche della sua vita intima o in quelle fuori scena fatte sul set di The Misftis che nel mentre ebbe una terribile premonizione: «Il mio ricordo più toccante di Marilyn è di quanto apparisse angosciata, turbata e ancora radiosa quando sono arrivato in Nevada».

 

Sono stata povera e ho voluto documentare la povertà; Avevo perso un figlio ed ero ossessionata dalla nascita; Mi interessava la politica e volevo sapere come influiva sulle nostre vite; Sono una donna e volevo sapere delle donne.

 

Copertina: Bar girl in a brothel in the red light district, Havana, Cuba, 1954© Eve Arnold / Magnum Photos


Accessibilità della mostra:

 

·       Un percorso tattile, che consente ai visitatori interessati, in particolare per le persone con disabilità visiva, di fare un‘esperienza tattile in piena autonomia con una selezione di sette pannelli visivo tattili posizionati in corrispondenza delle fotografie esposte. Ogni disegno a rilievo è corredato dalla relativa audio-video descrizione, attivabile tramite QR code o NFC (Near Field Communication);

·       La trasposizione audio dei testi di sala, attraverso l‘apposito QR code, che offre una descrizione sintetica delle tematiche esposte in ogni sezione della mostra;

·       Un video introduttivo sulla vita e il lavoro di Eve Arnold in Lingua dei Segni Italiana, accessibile mediante QR code o su tablet. L‘interprete del video è l‘artista Nicola Della Maggiora.

·       Inoltre, le opere esposte sono posizionate a un‘altezza media inferiore rispetto al passato cercando un compromesso fra i differenti punti di osservazione dei visitatori. Mentre si è scelto di evitare espositori con piani orizzontali per consentire una fruizione ottimale di tutti i materiali esposti anche alle persone su sedia a ruote e ai bambini.

 

 

Eve Arnold

L‘opera, 1950-1980

Dal 25 febbraio al 4 giugno 2023

Aperta tutti i giorni

CAMERA - Centro Italiano per la Fotografia

Via delle Rosine 18, 10123 - Torino www.camera.to | camera@camera.to

Orari di apertura (Ultimo ingresso, 30 minuti prima della chiusura)

Lunedì 11.00 - 19.00

Martedì 11.00 - 19.00

Mercoledì 11.00 - 19.00

Giovedì 11.00 - 21.00

Venerdì 11.00 - 19.00

Sabato 11.00 - 19.00

Domenica 11.00 - 19.00

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23.02.2023 # 6217
Fotografia artistica Pasquale e Achille Esposito. Un libro per una mostra. Una mostra per un libro

Rossella Mutone espone “in Fede”, 29 fotografie bianconero all‘Art Garage

Tra sacro e profano, la religiosità di Napoli espressa attraverso una ricerca visiva dell‘autrice

di Marco Maraviglia

Napoli è la città italiana con più chiese dopo Roma. È detta “la città delle mille chiese”.

Chiese medievali, rinascimentali, barocche, chiese sconsacrate, chiese chiuse, interi monasteri destinati ad attività ludico/sociali, c‘è persino la copia della Basilica di San Pietro del Vaticano… Ma quanta religiosità c‘è qui?

 

C‘è traccia di religiosità a Napoli visibile in ogni angolo del centro storico. Edicole sacre, piccole o grandi statue di Padre Pio innanzi ai bassi. San Gennaro è dipinto sui muri in tutte le salse: di fianco a Caravaggio, con la mascherina, in versione Superman o in versione da guerriero di Jorit.

Fedele, laica, prosaica, profana, superstiziosa, passionale, festaiola, la religiosità napoletana è una filosofia a sé. Perché contaminata da credenze popolari, danze e riti mistici.

Anche chi non è un cristiano praticante, o forse nemmeno credente, si infila nel portone della Chiesa del Gesù Nuovo per lasciare un obolo e farsi il segno della croce davanti la tomba di Giuseppe Moscati. Il medico Santo.

Chi non va a messa, chi non si confessa, non si perde comunque la liquefazione del sangue di San Gennaro. Perché a volte non si tratta di essere fedeli ma di far parte di quel sottile fil rouge che unisce sotto lo stesso cielo i più superstiziosi. Se il sangue non si scioglie, il napoletano come minimo tocca scaramanticamente la punta del “corniciello” che ha probabilmente in tasca.

E poi le capuzzelle di Napoli. I teschi della chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco o quelli del Cimitero delle Fontanelle alla Sanità. Da adottare, omaggiare con una monetina, un rosario o l‘icona di un santino. Tra grazia ricevuta, desideri di vincite al lotto e di buona salute.

 

È in questo contesto che Rossella Mutone indaga la religiosità di Napoli fotografando in solitudine e con discrezione attimi di intimità.

 

Ho cominciato a notare che le chiese con le loro luci e le loro ombre, i volti dei fedeli assorti a pregare non durante una messa ma in situazioni intime attiravano la mia attenzione. Sarà che amo entrare nei luoghi di culto quando non c‘è quasi nessuno perché mi sembra di sentire maggiormente la presenza e la vicinanza ad un‘entità superiore, sono cristiana ma non praticante alla ricerca di risposte.

 

È un lavoro di ricerca visiva iniziato nel 2018, interrotto causa pandemia e poi ripreso.

Immagini che rappresentano devozione per i santi, idolatria per simboli religiosi, una città che venera Maradona come un Dio, o adotta una capuzzella coltivando un amore mistico per l‘anima di uno sconosciuto.

E Rossella sviluppa questa ricerca su più percorsi le cui sezioni restituiscono l‘insieme: Riflessioni, Devozione, Simboli ed esoterismo, Idoli e credenze.

 

Fotografie con riflessi che fondono i confini del quotidiano con quelli religiosi in atmosfere che si sospendono in un tempo mentale senza tempo.

Devozione, dettagli, campi lunghi, presenze di luci divine. Persone che pregano. C‘è chi in raccoglimento religioso quasi sembra che si sia appisolato nel silenzio di una chiesa.

Ecco: silenzio. Il silenzio è l‘anima portante di queste fotografie. Dove già lo stesso silenzio che ci arriva osservandole, è qualcosa di mistico ed esoterico.

Non sono fotografie prese durante le messe. Sono talvolta scatti rubati. Un reportage sommesso tra esterni e interni.

Perché la religiosità non è posseduta dai confini di una chiesa. La si percepisce anche nelle strade. Tra edicole votive e altarini e murales per venerare Maradona.

Tra sacro e profano.

 

 

 

in Fede | Napoli ricerca fotografica di Rossella Mutone

Art Garage

Viale Bognar 21 Pozzuoli

Inaugurazione Sabato 4 marzo ore 18

Ingresso Libero.

Fino al 17 marzo 2023

Lun > Ven 16,30-20.00 Sabato e Domenica su appuntamento.

Nell‘ambito di FOTOARTinGARAGE VI edizione rassegna di fotografia coordinata da Gianni Biccari.

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14.02.2023 # 6212
Fotografia artistica Pasquale e Achille Esposito. Un libro per una mostra. Una mostra per un libro

Valeria Sacchetti: “Journey to the lowlands, Fra la via Emilia e il West”

Un libro foto-narrante che documenta la vita quotidiana della bassa padana dopo il terremoto del 2012

di Marco Maraviglia

Journey to the lowlands, Fra la via Emilia e il West è l‘ultimo libro di Valeria Sacchetti, fotografa che, dall‘inizio del suo interesse per la fotografia, indaga sugli aspetti sociali della gente determinati da eventi politici e naturali.

 

Valeria, nativa di Modena e trasferitasi a Carpi, si avvicinò alla fotografia consultando libri di grandi fotografi nelle biblioteche. E comprese che il mondo andava visto da vicino, non solo attraverso i libri.

Frequentò il suo primo corso di fotografia a Bologna dove imparò anche le tecniche di camera oscura.

 

Il viaggio è una cosa seria e non serve per raccontare com‘era buono il kebab che potevi mangiare in qualsiasi città del mondo. Valeria Sacchetti, nata negli anni ‘70, laureata in storia e insegnante di lettere, ha sempre viaggiato per approfondire l‘inglese e per realizzare servizi fotografici che raccontassero storie vere, a volte misconosciute ai più. Almeno non così dentro come invece raccontano le sue immagini. (Ri)costruendo una memoria destinata a volte a dissolversi nel tempo.

 

Storie che per lei nascono da relazioni, come quando nel 2000 partì per il Cile ed entrò in contatto con una ONG fondata da donne uscite dal carcere dopo la dittatura di Pinochet. Donne che aiutavano donne. Che intraprendevano un lavoro di sindacalizzazione e sensibilizzazione per far prendere coscienza dei propri diritti sul lavoro. Per tutte le lavoratrici: dalle donne che lavoravano in casa, a chi aveva piccole botteghe e quelle che lavoravano nei campi, a rischio per i pesticidi che nel frattempo erano già stati proibiti in altri paesi.

 

Ed è in Cile che realizza il suo primo lavoro, un reportage sugli indiani mapuche.

Ma Valeria Sacchetti ha un‘indole nomade. Le piace spostarsi, viaggiare. Per studio e per lavoro. La fotografia è per lei lo strumento che le consente di conoscere storie, documentarle e raccontarle. Vive lunghi periodi anche in Irlanda, a Napoli, Roma, a Bordeaux per l‘Erasmus, in Messico, Iraq.

Va tre volte in Bosnia dove partecipa e documenta la Marcia della morte di Srebrenica.

A Belgrado realizzò un servizio su un orfanatrofio che era in uno stato pietoso. I bambini non avevano nemmeno le lenzuola, le inservienti si sentivano giustificate dal loro esiguo guadagno prendendo parte degli aiuti che arrivavano in orfanatrofio. Fu un servizio che acquistò la Caritas e la cifra guadagnata le servì per andare a Parigi e frequentare un corso di fotografia di 6 mesi presso la Spéos. Ma a Parigi ci restò per un anno dove lavorò nella compagnia telefonica mentre aspettava la borsa di studio per andare in Messico. Altro viaggio, altre storie fotografiche narranti.

 

Tornata in Italia fece un lavoro, durato cinque anni, sul movimento partigiano di Modena e provincia. Andò a scovare partigiani ancora viventi ritraendoli e facendosi raccontare i loro ricordi. Scattò loro dei ritratti nei luoghi degli episodi raccontati dagli stessi soggetti. E nacque nel 2016 il libro Generazione resistente.


Valeria Sacchetti ha sempre lavorato principalmente con pellicola bianconero e dal 2010, passando al digitale, si è trovata altrettanto a suo agio. Durante un master nel 2017 a Roma entrò n contatto con il fotografo Giancarlo Ceraudo che le consigliò di portare le sue foto a colori in bianconero comprendendo che le foto di Valeria avevano più energia senza colore.

Adesso c‘è questo suo ultimo libro, Journey to the lowlands, Fra la via Emilia e il West che traccia un percorso foto-narrante, come nel suo stile, “coast to coast” della via Emilia. L‘antica strada romana che va da Piacenza a Rimini tagliando trasversalmente in due L‘Emilia Romagna, per intenderci.

Un lavoro durato sette anni. Realizzato in zone percorse da Valeria Sacchetti fin dalla sua infanzia, lì dove sono le sue radici. Una terra dove non c‘è solo mortadella, piadina e tortellini ma che fin dall‘antica Roma è abitata da gente con il culto del lavoro e dei rapporti umani vissuti in maniera gentile, gioviale, condivisa e con umiltà.

Perché capitò che nel maggio 2012 in Pianura Padana ci fu un terremoto che in tanti hanno dimenticato. Furono colpite zone rurali, fattorie, stalle e casali distrutti e la vita di molte persone dedite all‘agricoltura, agli allevamenti e persino industrie, subì danni non indifferenti.

L‘Emilia la rossa, un po‘ contadina, luoghi di campagna. Dove non esistono più le grandi famiglie allargate. L‘Emilia usurpata negli anni anche sotto l‘aspetto industriale e ambientale, subì anche questo affronto di Madre Natura. E Valeria iniziò il suo viaggio narrante, fra “la via Emilia e il West” con fotocamera al seguito.

 

Mi interessava mostrare anche i giovani che sono tornati in campagna. Famiglie che sono anche ibride con immigrazioni dal Sud. Il mio è più un viaggio onirico legato molto ai miei stati d‘animo.

 

Durante la lavorazione, Valeria Sacchetti ha ampliato la visione del suo progetto abbracciando anche tutta “la bassa”, una zona di pianura particolare posta sotto il livello del mare, attraversata da fiumi che tracimano durante il periodo invernale con estati afose e molto umide. Un luogo che le ha sempre ispirato le atmosfere western dei film con cieli sterminati e chilometri di terra piatta.

Il sottotitolo del libro è un tributo a Guccini, originario di queste zone, che ha pubblicato anche un album nel 1984 intitolato appunto: “Fra la Via Emilia e il West”.

Lavorato in varie stagioni dell‘anno. Ha iniziato ritraendo persone che già conosceva e poi allargando la narrazione a quelle incontrate durante le sue esplorazioni creando una trama unica‘ con dieci storie di vita quotidiana di alcune delle persone ritratte.

 

Realizzato grazie a un crowdfunding con Crowdbooks, 46 fotografie tra ritratti e foto attinenti ai paesaggi delle location trattate, 112 pagine al formato verticale 20,5x27 cm, stampa in bianco e nero in  bicromia, copertina rigida.

Disponibile nelle migliori librerie di catena e/o indipendenti oppure sul sito dell‘editore all‘indirizzo: cwbks.co/journey



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08.02.2023 # 6207
Fotografia artistica Pasquale e Achille Esposito. Un libro per una mostra. Una mostra per un libro

Gli Enigmi di Lino Rusciano in mostra

Inaugurazione sabato 11 febbraio al FotoArt in Garage di Pozzuoli. Le foto tra Metafisica e Surrealismo.

di Marco Maraviglia

Il comunicato stampa di questa mostra di Lino Rusciano che mi è arrivato, è di sole quattro righe. Ma che nella loro brevità, dicono tutto.

Perché non si necessitano di spiegazioni. La Metafisica alla quale spesso si ispira il fotografo, può essere simbolica, straniante, semplicemente una ricerca di bellezza compositiva dove l‘armonia tra volumi e luci sono il significato stesso delle sue immagini. Memorabili perché inspiegabili. Specialmente quando sono attraversate da tracce di Surrealismo dove la realtà è manipolata nella stessa realtà.

«Ma quella bambola stava proprio in quel punto?», chiesi una volta a Lino guardando una sua foto; mi rispose, «Ho manipolato, c‘era ma l‘ho spostata di qualche metro per inquadrarla nella scena che volevo riprendere». Perché la realtà fosse più reale. Un‘amplificazione del reale che rende il possibile surreale.

 

La ragione può darci la scienza, ma solo l‘irrazionale può darci l‘arte. Dicevano i surrealisti. Qui, nelle foto di Lino Rusciano c‘è un connubio tra Metafisica e Surrealismo.

In esposizione ci sono trenta paesaggi marini del litorale domitio che l‘autore ha ritratto ispirandosi agli enigmi di Giorgio de Chirico. Con l‘unica differenza che gli elementi enigmatici, un materasso in gommapiuma ripiegato, una ghiacciaia da bar dismessa in mezzo la spiaggia, sono lì. Ritratti in fotografia e non dipinti. Elementi di una scenografia creata dall‘incuria dell‘uomo.

Enigmi. Costruzioni fatiscenti, erose dalla salsedine del mare. Strutture balneari viste d‘inverno. E viene in mente quando un ufficiale nazista, vedendo Guernica di Picasso chiese «Avete fatto voi questo orrore Maestro?» e il buon Pablo rispose «No, lo avete fatto voi!».

Ma nell‘orrore umano Lino Rusciano vede bellezza. La estrae in giochi di armonia compositiva, equilibri geometrici, accentuando i chiaroscuri, le ombre, evidenzia con giochi di luce le zone dove andrebbe l‘occhio in percorsi visivi musicali, dosa la vividezza del colore, alcune immagini sono portate in high key.

Un controllo di postproduzione necessario per il suo stile estetico, ormai inconfondibile, che altrimenti gli costerebbe l‘impiego di light designer del cinema per raggiungere gli stessi effetti.

 

La bellezza è armonia, equilibrio e tutto ciò che ti emoziona, la puoi trovare in tutte le cose,

anche quelle più semplici. Fotografare è anche una continua ricerca di essa.

 

Gli Enigmi di Lino Rusciano non fanno il verso ai dipinti di de Chirico. Sono emulazioni, nell‘accezione migliore del termine, espressioni personali che portano alla consapevolezza che la fotografia può e dovrebbe essere arte.

 

Credo che non esista il confine tra arte e fotografia. Infatti, a me interessa ricercare l‘arte tramite il mezzo della fotografia. La sensibilità della percezione individuale rende personale larte di ciascuno, icerco di esprimere la mia ricercandola nel mondo, nello sguardo che l‘obiettivo mi restituisce.

 

Ma adesso basta parole. Gli enigmi non è detto che vadano sempre risolti. Sono lì. Si prova ad addentrarvisi, cercando un perché, una motivazione o essere semplicemente contemplati.

 

Chi è Lino Rusciano

Conseguita la maturità classica al Liceo Vittorio Emanuele di Napoli, studia un anno a medicina. Ma il suo destino era designato verso la fotografia.

Ha una grande passione per gli animali e il suo giardino è abitato da oltre venti gatti.

A otto anni ebbe in regalo tre apparecchi fotografici con i quali cominciò a fotografare.

Appassionato di Man Ray, Bill Brandt, Yves Tanguy, Giorgio de Chirico, Dalì e il Surrealismo che hanno segnato profondamente il suo percorso.

Ha esposto in personali e collettive in tutta Italia.

 

 

 

 

ENIGMI

Fotografie di Lino Rusciano

Inaugurazione: sabato 11 febbraio 2023 alle ore 17:30

Fotoart in Garage – Parco Bognar 21 Pozzuoli Napoli

Coordinamento artistico di Gianni Biccari

L‘esposizione resterà aperta dall‘11 al 24 febbraio con il seguente orario:

tutti i giorni 16.30-20.00 (domenica chiuso)

Ingresso libero

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06.02.2023 # 6204
Fotografia artistica Pasquale e Achille Esposito. Un libro per una mostra. Una mostra per un libro

Dialogue, Nella Tarantino e Francesco Tadini in mostra alla Casa Museo Spazio Tadini

Fotografie emozionali, contaminazioni artistiche, i protagonisti sono chi le osserva in un dialogo con l‘inconscio

di Marco Maraviglia


Ph. Francesco Tadini (Looks - Sguardi)


Esistono fabbricatori di sogni? Certo, fanno parte di quella schiera di visionari del mondo artistico e creativo. Tra questi vi sono alcuni fotografi.

Cosa mostra una fotografia? Sogni o realtà? Una realtà ripresa dal fotografo o ciò che percepisce nell‘attimo dello scatto? Ma la realtà che mostra una fotografia è pura, cruda e nuda?

In effetti mostra solo un attimo di ciò che il fotografo ha innanzi a sé ma non il contesto in cui si trova. Perché tutto ciò che è lateralmente o dietro l‘inquadratura non si vede. Si può presumere ma non abbiamo il potere di ricostruire tutto ciò che è al di fuori dell‘inquadratura.

Un bravo fotografo riesce a far percepire anche ciò che ha “visto” emozionalmente in una foto. Anche senza particolari post-produzioni. Ma il fotografo che ruolo ha quando usa un dispositivo fotografico? Deve mostrare ciò che c‘è o ciò che sente? Lasciare l‘intuizione, l‘esplorazione nella lettura di una foto all‘osservatore o raccontare anche usando artifici? E quelle finzioni nella fotografia, fin dove possono spingersi? Finzioni narcisistiche o espressionistiche?

Se la didascalia di un‘immagine è lunga, è probabile che sia meglio che esista un solo testo scritto. Le foto possono raccontare in altro modo. Se si può fare a meno di una didascalia molto descrittiva è perché la foto basta da sé. A volte.

Esistono immagini emozionali che non necessiterebbero nemmeno di un titolo. Icone che da sole sono come emoticon che sanciscono uno spettro più o meno limitato delle emozioni.

A volte per generarle non è sufficiente un semplice scatto. A volte è possibile crearle solo disegnando un‘illustrazione con tavoletta grafica o anche con pastelli, chine, acquerelli e carboncini. Negli ultimi mesi un‘altra opportunità è l‘AI, l‘intelligenza artificiale: immagini generate tramite software che interfaccia testi dell‘autore con banche di immagini algoritmizzate; a volte l‘autore realizza “artigianalmente” più o meno complessi fotomontaggi. Altre volte è il solo modo di riprendere che può generare come risultato un impatto emotivo.

Ph. Nella Tarantino


Nella Tarantino e Francesco Tadini producono immagini che non sono fotografie in senso stretto. Fabbricano visioni oniriche. Tratte dalla realtà.

Tarantino tende a vedere oltre lo scatto fotografico di cui esalta i sapori attraverso chiaroscuri, mossi, limbi, si vede non si vede, i less is more, grana, equilibrio compositivo dei volumi, tipico di chi è architetto come lei lo è… Immagini teatralizzate ma non di teatro. Sospese in un tempo senza tempo, in spazi indefiniti. Dove sono state prese lo decide l‘osservatore perché è a lui che si lascia la possibilità immaginativa per poter percorrere un viaggio mentale associando il proprio background esperienziale all‘osservazione.

 

Francesco Tadini è di formazione artistica, figlio del pittore e scrittore Emilio.

 

Sono cresciuto ascoltando e vedendo mio padre dialogare con pittori, scrittori, giornalisti, filosofi e mi sono reso conto che l‘arte non può prescindere dal confronto.

 

Nelle immagini di Tadini si avvertono note di de Chirico, dell‘Impressionismo e altre contaminazioni artistiche. Note rivisitate e catapultate nel contemporaneo, in un neo-surrealismo fotografico che, anche in questo caso, lasciano all‘osservatore la facoltà di immergersi in ambienti immaginifici senza tempo, non databili.

Tadini scatta con tempi lunghi. Muovendosi lui, durante la posa “B”, muovendo la fotocamera, affinché i soggetti inquadrati restituiscano un dinamismo che ricorda il Futurismo e che spingono l‘osservatore ad esplorare con più attenzione le sue immagini in un gioco di riconoscibilità. E, quando le sue foto sono a colori, i movimenti sinuosi, circolari, ondulanti generati come se avesse una steadicam tra le mani, divengono esplosioni di colore. Una fuga dal buio e dalle paure, attraverso equilibrate pennellate di luce.

 

Ci sono immagini sulle quali l‘occhio si posa oltre i 5”. Alcune di queste restano impresse nella memoria più a lungo tra tante altre ridondanti che si perdono in rete.

Queste di Nella Tarantino e Francesco Tadini si ricordano. Dialogue, entrambi gli autori stimolano un dialogo tra le immagini e l‘inconscio dell‘osservatore.

 

 

 

La mostra è ospitata dalla Casa Museo Spazio Tadini, nato come luogo espositivo e di archivio per arti figurative contemporanee.

Nel corso dell‘inaugurazione ci sarà la presentazione del libro We always return di Nella Tarantino, con Federicapaola Capecchi e Antonio M. Cuono.

Libro recentemente pubblicato da EBS Print.

 

 

 

Dialogue

Nella Tarantino e Francesco Tadini

A cura di Federicapaola Capecchi

Dall‘11 febbraio al 5 marzo 2023

Inaugurazione 11 febbraio ore 18.00

Casa Museo Spazio Tadini

Via Niccolò Jommelli, 24

Milano (MM Loreto e Piola)

 

Apertura senza prenotazione venerdì e sabato dalle 15.30 alle 19.30

Per prenotazioni in altri giorni e fasce orarie melina@spaziotadini.com – visite guidate al museo 10,00 euro

Per contatti stampa Melina Scalise cell. 3664584532


Ph. Nella Tarantino


Foto di copertina: Ligeia, di Francesco Tadini

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18.01.2023 # 6198
Fotografia artistica Pasquale e Achille Esposito. Un libro per una mostra. Una mostra per un libro

Sei un fotografo eco-sostenibile?

Byte-inquinamento: alcune cattive pratiche della fotografia digitale dannose per l‘ambiente e come evitarle

di Marco Maraviglia

La rivoluzione del III millennio

C‘era una volta la fotografia analogica, ma c‘è ancora per qualcuno.

C‘erano una volta le pellicole fotografiche e le stampe ai sali d’argento. Ma esistono ancora.

Dalla nascita della fotografia fino alla fine del ‘900, c‘è stata tanta chimica che ha prodotto fotografie. Un fardello, per qualche fotografo ambientalista. O anche animalista, visto che la gelatina delle emulsioni per pellicole e carte fotografiche era prodotta anche dal trattamento di ossa bovine e suine. Scarti di macellazione, si intende.

Poi arrivò la fotografia digitale.

Meno pellicole prodotte. Meno prodotti chimici per gli sviluppi, arresti, fissaggi di pellicole e carte.

 

Ma la fotografia è diventata più green con il digitale?

Sotto l‘aspetto chimico-industriale sì. Ma forse non tutti si rendono conto che le nuove tecnologie, se spropositatamente utilizzate, comportano ben altri problemi ecologici.

Tutti ascrivibili in una locuzione poco usata: il byte-inquinamento.

 

La foto sofferta

Quando si scattava su lastra fotografica o su pellicola piana in grande formato, si facevano due-tre foto di un soggetto. Poi arrivarono le pellicole in rullo: da 12p (dodici pose, dodici scatti) se si usava una Rolleiflex o un‘Hasselblad o altra fotocamera di medio formato 6x6; e poi i rulli da 36p (trentasei fotogrammi) per chi usava una reflex meccanica-manuale. Ogni scatto preso era sofferto. Si pensava di inquadrare e comporre per bene l‘immagine. L‘esposizione doveva essere curata. Perché poi, meno tempo si perdeva in camera oscura per cropparle (taglio per dare una migliore inquadratura), mascherarle e bruciarle, meglio era. Perché le pellicole e stampe avevano un costo e costava svilupparle.

 

Col digitale cambia tutto

Ormai le schede di memoria delle macchine sono così capienti in termini di gigabyte che ci hanno tolto la preoccupazione dell‘ultimo scatto in camera. L‘ultimo colpo da “tenere in canna” per non perdere la foto dell‘ultima occasione che poteva essere imprevista, all‘ultimo minuto. Quando si usava la pellicola.

Si girava la leva per caricare l‘otturatore e già quel tempo ti faceva rendere conto della preziosità della pellicola che stavi usando.

Qualcuno aveva il motore di trascinamento con i 3-5 scatti al secondo. Ma lo usavano i professionisti che non potevano permettersi di perdere il momento clou del taglio del traguardo di un atleta o di quello di un‘auto sportiva. Erano fotografi che “dovevano” spendere più soldi in pellicole perché ci lavoravano. Erano il loro carburante.

Gran parte delle fotocamere di oggi hanno lo scatto continuo.

Spesso si scatta a raffica senza riservare un po‘ di educazione e gentilezza per l‘otturatore che potrebbe stancarsi e abbandonarci.

Ma di tutti quei click, quante foto sono necessarie? Quante saranno stampate per un album di famiglia e quante per una mostra? Quante serviranno per un lavoro editoriale o per realizzare un proprio libro? E quante resteranno custodite nei supporti di memoria per anni per accorgersi poi che nel frattempo si sono auto-distrutte?

 

Quanto è eterna la foto digitale?

Tutte fotografie, quelle digitali, che occupano memoria: CD, DVD, hard disk. Qualcuno le conserva sui cloud offerti da alcune piattaforme. Ma quanto durerà la libertà di gestire le proprie foto su uno spazio che non è il nostro cardex fisico, il nostro archivio che vediamo, tocchiamo, spostiamo all‘occorrenza come se fosse un divano?

Ma, riguardo i supporti fisici, elettronici, di memoria, chi ci garantisce che avranno una durata più lunga di un negativo bianconero o di una stampa ai sali d‘argento? E, data la velocità industriale dell‘obsolescenza programmata, chi ci garantisce che i computer e software annessi ci consentiranno di leggere i file dei nostri hard disk tra 20 o 40 anni? Se ho gli scanner acquistati nel 2000 che non posso collegare a un nuovo Mac, perché non posso immaginare che accada lo stesso per gli HD? Quanti hard disk finiranno in discarica perché divenuti illeggibili, obsoleti? E i dischetti? Anche quelli possono saltare, difettarsi, diventare illeggibili. Mica sono come dischi in vinile. E dovranno essere gettati via. CD e DVD in policarbonato che in Italia non vengono riciclati e destinati quindi ai rifiuti indifferenziati.

 

Le foto inutili, ridondanti. La sovrapproduzione di fotografie digitali

Produciamo file in RAW di circa 20-40 MB. Sono negativi elettronici con tutte le informazioni che ci servono per post-produrli, “svilupparli” con softweare. Un file RAW di 20 MB, salvato poi in jpg dopo la sua lavorazione, occupa 7 MB di spazio perché è un tipo di formato che comprime l‘immagine. Virtualmente pesa 35 MB. Ma la scelta che dobbiamo fare è se conservare il RAW una volta lavorata la foto e salvata in JPEG o disfarcene. Il suggerimento è quello di conservare entrambi. Perché magari la tecnologia per lo sviluppo dei RAW si potrebbe perfezionare ulteriormente tra qualche anno e potremmo riprendere i vecchi file in RAW per ottenere immagini lavorate meglio. Conservando RAW e JPEG si aumenta il peso di memoria per l‘hard disk certo, ma dovremmo essere critici con noi stessi per eliminare i file in RAW simili a quello lavorato, cestinando gli scatti simili, quelli fuori fuoco, i sotto-sovra/esposti, quelli con punti di vista inutili, quelli ridondanti: il tuo tramonto è migliore di altre migliaia di tramonti che ci sono in rete? È una foto che stamperai per ricordo? Potrebbe essere pubblicata da un giornale? Contiene elementi socio-antropologici-architettonici evidenti che saranno soggetti a cambiamenti e quindi storicizzabile? È ben contestualizzata? Mostra un fatto in maniera eloquente sensibilizzando su un argomento in particolare? È una fotografia che secondo te spacca tanto che potrebbe essere impressa nella memoria di un osservatore e ricordata per sempre?

Più o meno queste domande dovremmo porci prima di gettare nel cestino i nostri file fotografici.

Eliminare il superfluo, insomma. Senza affezionarci troppo alle nostre foto inutili.

Meno foto = meno spazio occupato = meno supporti di memoria = meno rischio di riempire le discariche per dischetti e hard disk diventati illeggibili.

 

Non solo spazio sui supporti di memoria ma anche in rete

Carichi le foto in un album su Facebook nella stessa risoluzione dei file nativi?

Quel tempo in più che ci vuole per postarle significa che si sta sovraccaricando la linea telefonica.

Per mandare foto in visione a un giornale affinché l‘editore, o chi per lui, decida se pubblicarle, non cè bisogno di mandare i file originali ma è meglio ridurli di peso. Successivamente potranno essere spediti in alta definizione e solo quelli effettivamente richiesti.

Una foto JPEG da 35 MB può essere tranquillamente ridotta a meno di 1 MB per essere vista su un monitor.

E così anche per i siti WEB e blog, conviene ridurre le foto al formato di visualizzazione finale. Un bel “Salva per WEB” dal Photoshop, ottimizza ulteriormente le foto per gli usi di cui sopra alleggerendole e donandole una maggiore brillantezza dei colori per la visione sui display. Del resto, anche per la stampa tipografica le foto devono essere sistemate nel formato di stampa finale in cm (centimetri) a una risoluzione di 240-300dpi.

 

Traffico sulle autostrade

Immaginiamo un‘autostrada a tre corsie. A un certo punto entra una colonna di autotreni con i rimorchi vuoti. Difficile che i tir viaggino senza carico perché sono organizzati in modo tale da sfruttare l‘andata e il ritorno a pieno carico. Ma se entrano in autostrada privi di merce, ingombrano comunque inutilmente una corsia rallentando le altre. I veicoli in tal caso, consumano più carburante perché viaggiano in un tempo maggiore.

Dovremmo considerare le vie telematiche come autostrade. Il tir che viaggia a vuoto è come se fosse il nostro file trasmesso a 30 MB invece di 1 MB: occupa inutilmente spazio intasando, rallentando, il traffico telefonico.

«Eh, ma io ho la fibra!». Giusto, ma siamo arrivati alla fibra perché i modem a 56kbps e poi l‘ISDN e poi l‘ADSL non riuscivano più a supportare l‘enorme traffico della rete. Aumentato perché è cresciuto il numero di utenti ma anche perché ci sono quelli che utilizzano la rete, inconsapevolmente, in maniera inappropriata. Oltre il necessario.

Non possiamo immaginare di costruire autostrade a dieci corsie. Sarebbero tanti ettari di boschi e campagne cementificati. Probabilmente non sarebbe nemmeno necessario il 5G, il 10G o il 100G per aumentare la velocità delle connessioni se usassimo i dispositivi digitali in modo strettamente indispensabile per trasferire dati.

Magari invece di allargare le autostrade si potrebbe incentivare l‘uso di auto più piccole o progettarle a due piani. Chissà se il Joint Photographic Experts Group (JPEG) ottimizzerà in futuro il formato per file fotografici più compressi e “a due piani”.

 

I siti WEB dei fotografi sono sostenibili? Sono ecologici?

Più foto ci sono su un sito, più emissioni di CO2 si producono. Specie se sono anche pesanti e non ottimizzate con il “salva per WEB” da Photoshop.

Jack Amend, fondatore e CEO del Web Neutral Project, una società che mira a mitigare la dipendenza di Internet dai combustibili fossili, ha dichiarato che «Internet è la più grande macchina produttrice di carbonio al mondo».

Ci sono diverse piattaforme in rete che misurano le emissioni di CO2 dei siti WEB come ad esempio Karmametrix. Sarebbe bene testare le pagine in costruzione di volta in volta durante l‘allestimento del proprio sito.

Ovviamente il discorso vale anche per l‘invio di mail: più megabyte trasmettiamo, più CO2 produciamo.

Senza poi contare la quantità di server che, per ospitare i nostri siti WEB, devono crescere sempre di più e che, per restare accesi, emettono anch’essi CO2.

 

Riepilogo

Insomma, la consapevolezza delle nostre azioni dovrebbe portarci a governarle per gestirle in maniera più eco-sostenibile. A pochissimi fa piacere di contribuire all‘emissione di CO2 e piccole azioni servono ad arginare il problema.

Come dice un vecchio proverbio «Se tutti spazzassero fuori la porta di casa propria, l‘intera città sarebbe pulita».

 

Riepiloghiamo di seguito alcune pratiche sane scritte fin qui:

 

1.     Fotografare l‘indispensabile e come se avessimo solo 36 scatti in macchina

2.     Evitare di scattare a raffica

3.     Dedicarsi alla selezione delle foto prodotte per eliminare quelle inutili

4.     Postare poche foto e solo quelle più significative sui social caricandole in risoluzione più bassa, tipo 1000pixel il lato lungo

5.     Preferire gli hard disk ai dischetti o ai cloud per lo storage (archiviazione)

6.     Utilizzare la funzione di salvataggio “salva per WEB” di Photoshop prima di farle circolare sui social: serve a ridurre i dati delle foto senza che l‘occhio umano se ne accorga

7.     Evitare di inviare per la sola semplice visione, immagini superiori a 1 MB

8.     Inserire sul proprio sito solo le foto più significative e non album fotografici interi e con foto simili tra di loro

9.     Ottimizzare le foto per il sito WEB: il lato lungo a 1300pixel è più che sufficiente per la visione a monitor

 

 

Foto di copertina: Bethany Drouin da Pixabay 

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Gian Paolo Barbieri al Blu di Prussia

Fino al 28 gennaio in mostra “Fuori del Tempo”: diciotto maxi-fotografie realizzate in Madagascar, Tahiti, Seychelles

di Marco Maraviglia

In esposizione 18 grandi immagini in bianco e nero selezionate tra quelle tratte dalla Trilogia del mare “Madagascar, Tahiti Tattoos, Equator”, della fine degli anni ‘90 e da “Dark Memories” del 2013 cui si aggiungono 24 polaroid quasi tutte inedite per lo più scattate alle Seychelles tra il 1986 e il 2006, completato dal documentario sulla vita del fotografo “Il magnifico artificio” per la regia di Francesco Raganato (SkyArte 2014) proiettato nella sala cinema della galleria.

- dal comunicato stampa

 

È un‘occasione speciale poter vedere da vicino alcune gigantografie di uno dei più grandi fotografi di moda internazionali che già nel 1968 fu classificato dalla rivista Stern come “tra i quattordici migliori fotografi di moda al mondo”. E lo stesso Giovanni Gastel lo definisce nel 2016 “uno dei più grandi fotografi del mondo".

 

Gian Paolo Barbieri, classe 1935 ma le sue fotografie restano evergreen, anzi, grandi esempi iconici della fotografia di moda. Contemporanea e, perché no, scuola per il futuro.

È nato e cresciuto nel periodo e luogo giusto per la sua professione: Milano. Quello dell‘apoteosi della moda italiana in quella grande officina della città dove i capi di Armani, Trussardi, Versace, Bulgari, Valentino, Ferrè approdavano poi sulle passerelle internazionali. Un periodo d‘oro per il Made in Italy, per tutte le riviste specializzate internazionali come Vogue, Elle, Cosmopolitan e Harper‘s Bazaar e tutto l‘entourage di fotomodelle, hair stylist, truccatori, scenografi, art director, agenzie pubblicitarie e, ovviamente, i fotografi che interpretavano su pellicola abiti eleganti, bizzarri, avveniristici, glamour, degli stilisti.

Gian Paolo Barbieri si muoveva in quel periodo storico vissuto da Richard Avedon, Helmut Newton, Diana Vreeland e gran parte degli stilisti internazionali, fotografando le donne più belle ed eleganti del mondo come Audrey Hepburn, Veruschka, Monica Bellucci e Jerry Hall, l‘ex moglie di Mick Jagger per intenderci.

I fotografi di moda italiani lavoravano tanto. Ognuno con proprie modalità tecniche e stile estetico che diventava una firma nella firma. L’impronta stilistica del fotografo esaltava la firma stessa dello stilista. Poi, sul finire degli anni ‘80 con la successione di poltrone alla Condé Nast, si interruppe l‘epopea dei fotografi di moda italiani.

Ma questa è un‘altra storia.

 

Gian Paolo Barbieri nasce in una famiglia di grossisti di tessuti dove, proprio nel grande magazzino del padre, acquisisce le prime competenze utili per la fotografia di moda.

Con alcuni amici attraversa alcune esperienze teatrali come attore, operatore e costumista ma è il cinema che diventa fonte di ispirazione per il fotografo che inizia a nascere in lui.

Nel novembre 1965 esce il primo numero di Vogue Italia la cui copertina è sua.

Molte delle sue fotografie sono ispirate a film come Caccia al ladro, Casablanca, Il brutto e la bella, La dolce vita, Gli uccelli, Il postino suona sempre due volte, Grand Hotel con Greta Garbo. È appassionato di neorealismo e di Visconti e non sono poche le sue citazioni dell‘arte ispirandosi all‘Espressionismo tedesco, al Futurismo, a David Hockney, Gauguin, Gericault (La zattera della Medusa per Vivienne Westwood -1997 sembra anticipare le immagini di David LaChapelle), Matisse, Magritte, Chagall, Hopper (dipingendo a terra le ombre che gli servivano). Spesso realizzando scenografie surreali, dalle prospettive distorte e tutto doveva essere realizzato dal vero perché non esisteva il Photoshop. «Prima di realizzarle le disegno (le scenografie)».

Immagini realizzate oltre 40-50 anni fa che restano contemporanee e che nulla hanno da invidiare a quelle dei fotografi internazionali del calibro di Irving Penn o Avedon.

 

Ha sperimentato le Polaroid iniettandoci all‘interno i colori Ecoline durante i pochi minuti del loro sviluppo; ha realizzato immagini con false ombre per mezzo di doppie e triple esposizioni sullo stesso supporto. Ha usato il banco ottico per falsare, con i basculaggi, i piani di messa a fuoco. Ha realizzato le sue cinegrafie anticipando gli effetti visivi di Bill Viola. È stato il primo a fotografare uomini per Vogue.

Che dire, un esploratore della fotografia che avrà pur avuto carta bianca dalla committenza per realizzare le sue idee ma perché evidentemente sapeva, questa committenza, che Barbieri aveva gli strumenti culturali, oltre che tecnici, per realizzare le sue idee libere. Quando cambiò lo scenario per i fotografi di moda italiani come sopra accennato, ebbe il coraggio di iniziare un altro tipo di esplorazione. Più intima e riflessiva, rimettendosi in discussione, reinventandosi, esplorando nuove frontiere della fotografia addentrandosi nel fotoreportage etnico, trascorrendo lunghi periodi nelle Seychelles, in Madagascar, a Tahiti. E senza mai separarsi dall‘ingombrante e affezionato banco ottico.

Ricerche fotografiche ma anche antropologiche con un occhio all‘arte Classica greca dove tatuaggi, volti, corpi, animali e territorio sono ritratti nella loro essenziale purezza erotica dai bianconeri perfetti.

 

Fotografare in bianconero raccogliendo tutta la gamma di grigi, neri e bianchi, lascia all‘osservatore l‘immaginazione di una foto coi colori come meglio crede.

- Gian Paolo Barbieri

 

Ma non è tutto. E fortunatamente tutto ciò che riguarda Gian Paolo Barbieri è stato già scritto e detto.

 

 

Gian Paolo Barbieri

“Fuori dal Tempo”

a cura di Maria Savarese

Dal 21 ottobre 2022 al 28 gennaio 2023

Al Blu di Prussia

Via Gaetano Filangieri, 42

Orari: martedì-venerdì 10.30-13/16-20; sabato 10.30-13

Ingresso libero

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