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06.12.2021 # 5849
Claudia Rocchini, la ritrattista degli animali, espone nella rassegna Animal Emotion

Claudia Rocchini, la ritrattista degli animali, espone nella rassegna Animal Emotion

Nella suggestiva location di Mondofo, la mostra che documenta, attraverso numerosi capolavori, come la rappresentazione degli animali abbia trovato ampia diffusione nell’arte

di Marco Maraviglia

Chi è Claudia Rocchini

È giornalista e fotografa professionista con esperienze allargate anche nel campo del marketing e comunicazione intraprese con grandi enti.

Per otto anni ha lavorato con Editrice Reflex: facendo interviste, gestendo rubriche e come Social Media Manager.

Docente di fotografia per grandi aziende e da oltre dieci anni tiene corsi di fotografia naturalistica in Parchi faunistici dedicati alla protezione e al recupero di specie a rischio di estinzione.

Nel 2014 pubblica per Rizzoli "I segreti dell'Oasi", (200 fotografie, 240 pagine) con prefazione di Ermanno Olmi.

Gli scatti realizzati a Vito, gatto con protesi alle zampe posteriori, sono stati ripresi dalla stampa di tutto il mondo, diventando nel 2020 la copertina del libro "Vito il gatto bionico" - Il Battello a Vapore, Mondadori Libri.

Specializzata in avifauna in volo e in ritrattistica, felina e non.

 

Non sono giocattoli

«Non sono giocattoli!» è il monito che alcuni genitori illuminati fanno ai propri figli quando desiderano un cane o un gatto o notano che ci giocano in maniera non appropriata.

Non sono giocattoli ma fanno parte della famiglia che li adotta. A volte sembra che siano loro il fulcro, l’anima della casa. Ci osservano, si avvicinano in cerca di una carezza o un grattino, emettono a volte guaiti spaventandoci, accorriamo da loro trovandoli accanto al loro cencio preferito perché vogliono condividere un po’ di gioco insieme. Hanno un’aurea che gli umani più affezionati percepiscono; mentre camminano è come se lasciassero una scia di polvere magica e invisibile che diffonde amore, benessere. Se stiamo male o semplicemente preoccupati, depressi, infelici, diventano la nostra ombra o si accucciano sulle gambe. Perché ascoltano le energie.

Non sono giocattoli. E, quando entrano nelle nostre case, divengono un patrimonio affettivo di cui non si può più rinunciare.

 

Da bimbi ci insegnano a riconoscere gli animali, i loro versi, ci raccontano favole con animali protagonisti, i cartoni animati stessi ci accompagnano nell’infanzia. E poi a scuola, parte della didattica è basata sull’insegnamento della vita animale. É del tutto naturale l’amore per loro: cresce insieme a noi.

- C. R.

 

La presenza degli animali nella storia è tracciata da testimonianze fotografiche e opere d’arte. Matisse immortalato nello studio con le sue colombe bianche da H. C. Bresson. Patty Smith ritratta da Robert Mapplethorpe col suo “tuxedo cat” (gatto in smoking, così li chiamano in Inghilterra i gatti con i “calzini” bianchi). E poi ancora Hermann Hesse, Dalì, Freddie Mercury, Karl Lagerfeld, Picasso, Klimt, Andy Warhol e tantissimi altri personaggi hanno condiviso parte della loro vita con un cane o un gatto lasciando un universo iconografico non sempre qualitativamente soddisfacente perché spesso si tratta di istantanee, foto casuali che purtroppo non rendono onore, ritrattisticamente parlando, a quei momenti intimi.

 

Animal Emotion

La pittura ci ha tramandato ulteriori testimonianze della presenza di animali domestici, che ci restituiscono atmosfere goliardiche, o romantiche, allegoriche ecc. Dalle civiltà più antiche, come quella egiziana in cui il gatto era particolarmente venerato, o i mosaici pompeiani, fino a giungere ai giorni nostri, si nota come cani e gatti siano parte non sempre marginale nella vita umana e quindi nell’arte.

 

Il progetto espositivo ANIMAL EMOTION, accoglie un evento unico nel suo genere che documenta, attraverso numerosi capolavori, come la rappresentazione degli animali abbia trovato ampia diffusione nell’arte.

La mostra “trasforma” lo storico Complesso Monumentale di S. Agostino, nel cuore del borgo di Mondolfo, in un ideale “zoo artistico” che consente al visitatore di comprendere come l'animale abbia da sempre avuto un ruolo fondamentale nella grande pittura antica e nel vissuto umano quotidiano.

Divisa in tre sezioni, c’è quella con le fotografie di Claudia Rocchini.

 

Le fotografie di Claudia Rocchini. Tanta psicologia ed empatia

Ritrarre cani e gatti è forse il tipo di specializzazione fotografica più difficile. Perché questi individui pelosi non si mettono in posa a comando. Si muovono rapidamente, sono imprevedibili davanti all’obiettivo, non sono loro a dover capire qual è l’aspetto che devono mostrare mettendosi in posa, ma devi essere tu fotografo a coglierne la personalità. Che è diversa per ognuno.

Bisogna essere un po’ animali dentro, nell’accezione migliore del termine, per entrare in sintonia con loro. Leggende su San Francesco, che aveva il dono di essere “sentito” dagli animali, non è una roba poi tanto mistica. Perché esistono umani che riescono a stabilire una forte empatia con gli animali, senza assoggettarli, inserendosi con rispetto sulla loro stessa lunghezza d’onda.

Claudia Rocchini realizza shooting fotografici che durano non meno di due ore. Gli umani che le chiedono di ritrarre i loro amici pelosi, sanno che il risultato sarà sempre ineccepibile per quel suo modo di rapportarsi. Quel suo sesto senso del tipo “vedo animali che parlano”, ribaltando la famosa frase del cult movie con Bruce Willis.

Claudia non lascia cadere dalle braccia dell’umano un cagnolino per dare l’idea che salti come in una famosa foto di Elliott Erwitt, attende che qualcosa accada. Per catturare l’attenzione su di sé, a volte miagola o abbaia. Talvolta abbraccia il cane da ritrarre e gli sussurra dolcemente all’orecchio trasmettendogli serenità, complicità. Un po’ come Robert Redford in “l’uomo che sussurrava ai cavalli” che fece tornare Pilgrim il cavallo che era stato prima dell’incidente.

 

Tengo corsi di pet photography mentoring, one to one, in video call. … I corsi sono basati su una parola chiave: consapevolezza. …  Si tratta di mettere in pratica un mix di competenze tecniche di ripresa, di osservazione e conoscenza del comportamento dell’animale per poterne capire l’umore e prevederne i movimenti. É inoltre fondamentale imparare a sviluppare la nostra intelligenza emotiva in ogni declinazione delle sue abilità cioè la capacità di riconoscere, distinguere, etichettare e gestire le emozioni del soggetto animale che abbiamo di fronte.
L’obiettivo è utilizzare la fotografia come strumento di rivelazione delle personalità, per fotografare non solo ciò che si vede, ma principalmente ciò che si “sente”.

- C. R.

 

La tecnica di Claudia Rocchini
Non usa flash per non arrecare disturbo ai soggetti, solo luci continue con tre o cinque soft box e una giraffa. Scatta a raffica. Si accorge subito se l’animale è stressato e, in tal caso, sospende per un po’ la seduta. A volte chiede al “papà” umano di entrare sul set per abbracciare il suo amico per tranquillizzarlo, ma approfitta per tirare alcuni scatti che risultano intensi, intimi.

Sul sito di Claudia Rocchini ci sono testimonianze strepitose di allevatori, veterinari, privati che descrivono in maniera entusiasta il suo modo di lavorare e la soddisfazione dei risultati raggiunti delle immagini scattate ai loro cani e gatti.

 

Qualsiasi foto che presento al cliente deve riflettere la personalità del soggetto, scatto solo se c’è quel particolare emotivo che rende l’animale non solo un gatto o un cane qualsiasi, ma QUEL gatto e QUEL cane che l’umano riconoscerà come suo. Cerco un mix di pose classiche e giocose, il cliente di solito quando visiona i provini ha l’imbarazzo della scelta. Sono anche solita fare vedere gli scatti che non ho scelto perché magari ce n’è qualcuno con una posa o un’espressione tipica dell’animale cui il cliente è particolarmente affezionato, e che io non posso conoscere, perché non è il mio animale.

 

 

 


Claudia Rocchini 


ANIMAL EMOTION, il mondo animale tra arte, recupero e vita

Mondolfo, Complesso Monumentale S. Agostino

19 Dicembre 2021 – 16 Gennaio 2022

 

Comune di Mondolfo

Ufficio Cultura

Tel. 0721.939218

cultura@comune.mondolfo.pu.it

PAM – Pro Arte Mondolfo

info@proartemondolfo.com

Ufficio stampa

Maria Chiara Salvanelli Press Office & Communication

mariachiara@salvanelli.it

+39 333 4580190

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13.01.2022 # 5870
Claudia Rocchini, la ritrattista degli animali, espone nella rassegna Animal Emotion

Il Corso di Fotografia artistica alla ILAS con Antonio Biasiucci

per imparare a costruire un formidabile racconto attraverso le immagini di ogni realtà su cui si deciderà di puntare l’obiettivo.

di Paolo Falasconi

Ricercarsi, catapultarsi in una nuova e straordinaria dimensione, valutare nuove possibilità, scoprire infiniti e differenti orizzonti, conoscersi […] 


Migliorare umanamente ed artisticamente, secondo un percorso strutturato su misura che rivelerà chi sei e qual è la tua visione del mondo. Nel corso di Fotografia Artistica 9 giovani fotografi professionisti diplomati all’Accademia Ilas intraprenderanno un percorso artistico di tipo introspettivo, sotto l’occhio e la guida esperta del maestro Antonio Biasiucci.

Il corso è pensato per offrire ai fotografi l’opportunità di sfruttare appieno le conoscenze tecniche già acquisite e metterle a frutto per sviluppare una ricerca personale e intima, affinare la conoscenza degli aspetti più artistici della professione e costruire il proprio percorso fotografico.

La fotografia di ricerca è vista e vissuta come un processo lento e continuo, come un’azione incessante, perpetua ed in continuo mutamento.“Ripetere un’azione su di uno stesso soggetto fa guardare le cose da diversi punti di vista, rendendola sempre differente fino al punto di perfezionarla.”- afferma Biasiucci.

Le fotografie forniscono spunti di riflessione, ma è sempre chi osserva a completarne il significato e a darle senso.“Cos’è importante in questo tempo?” cosa è importante per ogni individuo, quali sono i desideri e le ambizioni, perché scegliamo di focalizzarci su alcune mete piuttosto che altre.“Qual è la vita che scegli per te?” É su questo che bisogna lavorare.

Un tavolo, punto d’unione ed allo stesso tempo d’interscambio tra docente ed allievi, è l’elemento focale intorno al quale si concentra il momento più importante di ogni lezione, permettendo agli studenti attraverso le letture del maestro Biasiucci di raccontare e raccontarsi, “mettersi a nudo” e instaurare così legami con la parte più intima di se stessi.

In un lento percorso mirato all'acquisizione della consapevolezza di sé l’allievo acquisirà mano a mano gli strumenti necessari per imparare a costruire un formidabile racconto attraverso le immagini di ogni realtà su cui deciderà di puntare l’obiettivo.


Testi di Maria Nemoianni

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12.01.2022 # 5869
Claudia Rocchini, la ritrattista degli animali, espone nella rassegna Animal Emotion

Come lavoravano i fotografi prima dell’arrivo della fotografia digitale?

Breve incursione in quelle che erano alcune modalità operative dei fotografi degli anni ’80-’90

di Marco Maraviglia

Lo scanner

Prima del 2000 erano ancora pochi i fotografi che lavoravano in digitale. Esisteva il Photoshop che consentiva di fare qualche postproduzione alle proprie foto, previa scansione. Ma acquisire a scanner le foto aveva un costo non paragonabile a quello di oggi. I service di preprint lavoravano principalmente con costosi scanner a tamburo se non addirittura con un’altra macchina chiamata reprocamera. Oggi con poche centinaia di euro si può entrare in possesso di uno scanner decente. Ma ormai si scattano fotografie che sono già digitali a monte e quindi lo scanner resta solo un utile accessorio per quei fotografi che intendono ripescare dal proprio patrimonio archivistico immagini per realizzare un libro, una mostra e dintorni.  

 

Le pellicole

Si lavorava quindi principalmente in analogico: pellicole a colori, bianconero e invertibili, le cosiddette diapositive. Dette anche diapo o dia.

C’erano fotografi che avevano a tracolla almeno tre corpi macchina e ciò per un paio di motivi: per evitare di perdere tempo nel sostituire gli obiettivi di focale diversa (cosa che ad oggi i professionisti fanno ancora) ma anche perché in ogni corpo macchina c’era una pellicola diversa. Bianconero, diapositiva a bassa sensibilità, diapositiva ad alta sensibilità, diapositiva per luce al tungsteno, pellicola negativa a colori…

Qualcuno usava i filtri di conversione, quelli in vetro blu o arancioni per convertire la temperatura cromatica che si avvitavano sull’obiettivo e così qualsiasi pellicola riproduceva la luce come se fosse “bianca”, diurna.

Oggi le fotocamere digitali hanno il WB, il White Balance, il bilanciamento del bianco. Impostabile in automatico oppure per luce diurna, luce flash, al neon, tungsteno e basta un dito. Anche per cambiare il valore della sensibilità alla luce (ISO).

 

La postproduzione analogica

Non esistevano i software di elaborazione delle immagini, ma le foto potevano subire qualche manipolazione.

Con del ferro filato e dei cartoncini sagomati a disco, triangolari, quadrati, a mezza luna, realizzavi i dodge le “palummelle”: termine napoletano derivante da “palumme”, colombe, perché tramite il fil di ferro si facevano svolazzare sulle carte emulsionate durante l’esposizione dell’ingranditore per schiarire le zone d’ombra. E se dovevi scurire i cieli e le zone troppo chiare (alte luci), usavi la tecnica del burning per “bruciarle”: un cartoncino nero, magari costruito a tronco di piramide, con un foro al centro attraverso il quale lasciavi passare la luce dell’ingranditore.

Il fotoritocco per eliminare polvere e graffi lo facevi a mano con pennellini intinti in appositi inchiostri. Oppure con pennarelli con punte flessibili di varie scale di grigi o anche a colori.

Non esisteva il filtro fluidifica del Photoshop ma deformando la carta emulsionata sotto l’ingranditore, si potevano ottenere caricature.

Chi non possedeva un banco ottico poteva fare leggere correzioni prospettiche di immagini di edifici in fase di stampa. Un po’ pezzottate ma accettabili entro certi limiti.

Si poteva accentuare la grana in fase di sviluppo della pellicola o cospargendo di segatura fine l’emulsione del foglio durante l’esposizione, si facevano solarizzazioni e posterizzazioni, fotomontaggi e quant’altro.

Ogni fotografo aveva i suoi segreti.

 

36 colpi in macchina

Non c’erano schede di memoria che ti consentivano di fare tanti click senza avere il pensiero del limite delle foto scattabili. Avevi solo 36 colpi in macchina e per ricaricarla con un rullino vergine ti prendeva più tempo della sostituzione di una scheda di memoria.

Se compravi pellicola a metraggio riuscivi a caricare i rocchetti anche con 38 fotogrammi, ma il problema era che non potevi perdere l’ultimo colpo “in canna” proprio nel momento clou. Anche per questo era meglio avere un secondo corpo macchina con una pellicola già caricata.

36 colpi in macchina e non dovevi sgarrare l’esposizione perché la latitudine di posa di una pellicola non era come quella che ti può offrire oggi un file in RAW.

36 colpi in macchina e ogni foto doveva essere pensata prima di inquadrarla, ad alta velocità se eri un reporter. Se eri in gamba ne tiravi fuori una decina utilizzabili, pubblicabili. Vendibili. Se eri bravissimo ne usciva una che riuscivi a piazzare a più giornali.

 

La camera oscura

Era il mondo magico di professionisti e fotoamatori evoluti.

I primi erano super attrezzati in stanze dedicate ma anche nel WC, con tank anche a sei spirali, asciugatrici delle stampe, essiccatoi con termostato per le pellicole, marginatori per formati 30x40 o anche più, filtro per l’acqua per renderla meno alcalina ché sennò macchiava troppo i negativi anche se la soluzione imbibente dava una mano, bacinelle per i bagni extralarge ed altre belle cose.

Ma si riusciva a sviluppare e stampare anche con un’attrezzatura più povera.

Invece della tank si avvolgeva e riavvolgeva il rullino a mano nella vaschetta del rivelatore, c’era chi riusciva a recuperare gli asciugatori elettrici per le mani dei bagni pubblici per costruirsi l’essiccatoio per le pellicole con tanto di foglio di cellophane intorno, la luce rossa si rimediava con una normale lampadina incapsulata da un vaso di vetro rosso. Negli infissi delle finestre si attaccavano pannelli di polistirolo dipinti di nero per oscurare l’ambiente. Chi non aveva l’essiccatore per le stampe, le attaccava sulle piastrelle del bagno strizzandole con uno di quei rulli in gomma che servivano in realtà a spalmare l’inchiostro sulle incisioni o sui telai serigrafici artigianali. E poi, staccandole dalle piastrelle, una botta di phon.

Una magia che qualche ragazzo del XXI secolo ha ripreso e che, se non in possesso di una reflex analogica, si è dato alla fotografia stenopeica.

 

I provini a contatto

Il fotografo professionista tagliava a spezzoni da sei fotogrammi i negativi e li inseriva nei fogli per archivio di carta velina non prima di averli stampati a contatto su un foglio di carta fotografica grazie al provinatore: il provino a contatto. Su entrambi i fogli si segnava lo stesso numero e messi nelle scatole delle carte fotografiche ormai vuote o in raccoglitori ad anelli. Magari in raccoglitori separati: quello delle veline con negativi e quello con i soli provini a contatto. E poi c’era chi usava una rubrica alfabetica cartacea dove per ogni lettera descriveva a penna il nome del soggetto o servizio fotografico, la data e il numero corrispondente al provino a contatto e quindi al foglio contenente i negativi di quelle foto.

Eh già, non esistevano i software di database o il “trova file” sul computer. Perché il computer non c’era.

 

Le diapositive

La diapositiva era, sotto certi aspetti, la maledizione per gli amici dei fotoamatori.

Ti invitavano a casa con la scusa di una cena e poi a sorpresa eri costretto a guardarti centinaia di foto proiettate sullo schermo con musichetta di sottofondo e sorbirti tutto il racconto delle vacanze dell’amico perché le foto da sole non raccontavano nulla. «Che bei colori!!!» era il commento che faceva l’amico più affezionato. Gli altri tacevano. Per educazione.

Altra storia invece, per i professionisti che usavano le diapo per lavoro. Perché quelle servivano per l’editoria e la comunicazione con stampa in offset.

Aspettavi un'ora o un giorno per avere le diapositive sviluppate. Quindici giorni di attesa per le Kodachrome perché venivano sviluppate solo in un laboratorio Kodak a Milano che poi chiuse e allora venivano mandate in un laboratorio di Francoforte. Che poi chiuse. Fin quando anche l’ultimo lab nel Kansas venne chiuso nel dicembre 2009. Fine di una pellicola amata dai Fulvio Roiter, Luigi Ghirri, Art Kane, solo per citarne alcuni.

Non esisteva l'e-commerce e impazzivi a trovare i plasticoni che dicevi tu. Quelli opachi sul retro e difficilmente ingottabili.

Le info file le scrivevi a mano sui telaietti.

Duplicavi gli scatti migliori prima di mandarli ai clienti perché nel caso si smarrivano, possedevi sempre gli originali e per evitare che si danneggiassero gli originali con graffi e vaselina che veniva utilizzata per attaccarle sui tamburi degli scanner. Una gran violenza. Perché non tutti i tecnici della pre-stampa potevano perder tempo ad applicarle certosinamente con lo scotch.

Le etichette dei credit te le stampavi da te con una stampante ad aghi se eri attrezzato con un PC 2.8.6 oppure fotocopiavi un foglio battuto a macchina, ci applicavi il biadesivo sul retro e le ritagliavi una a una prima di attaccarle sui telaietti. Perché il timbro a inchiostro indelebile sbavava e dovevi aspettare che si asciugasse prima di infilarle nelle taschine dei plasticoni.

Le numeravi per archiviarle per benino e a ogni foglio del plasticone attaccavi un’etichetta a sbalzo con la descrizione del servizio fotografico.

Poi riponevi tutto nei cardex e aggiornavi lo schedario cartaceo. E il tuo archivio cresceva.

 

 

Credo che oggi nessun fotografo abbia rimpianti di quegli anni. Di quando si respiravano le esalazioni dei bagni chimici a base di acido acetico, metolo, idrochinone, iposolfito di sodio. O di quando ci si incazzava quando una stampa veniva rifatta più volte perché il contrasto, schermature e bruciature erano venute male. O di quando una pellicola era involontariamente graffiata dal laboratorio. O di quando non trovavi il lentino contafili per scegliere dai provini a contatto le foto da stampare o le diapositive da inviare a un giornale.

Ma quella era magia. Tattile. No “polvere elettronica”.

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29.12.2021 # 5865
Claudia Rocchini, la ritrattista degli animali, espone nella rassegna Animal Emotion

Jacquie Maria Wessels espone al PAN Garage Stills, le nature morte fiamminghe delle officine per auto

Luoghi destinati a scomparire, l’artista ne immortala l’essenza restituendoci fotografie di still life site specific

di Marco Maraviglia


Jacquie Maria Wessels: Breve bio

Jacquie Maria Wessels è nata a Vlaardingen, nei Paesi Bassi, e attualmente vive e lavora ad Amsterdam. Inizia la sua carriera fotografica nel 1981 a Bruxelles. Successivamente si trasferisce ad Amsterdam dove studia alla Gerrit Rietveld Academy tra il 1985 e il 1990 nel dipartimento di fotografia e disegno. Durante i suoi studi svolge un programma di scambio presso la Quicksilver Place Academy of Arts di Londra, incentrato sulla pittura/disegno. Alla fine la fotografia si è rivelata il mezzo preferito da Wessels per esprimersi.


Abstract


La prima lezione di guida me la fece un amico che mi spiegò quanto fosse per lui indispensabile immaginare che guidare è come compiere un atto sessuale. Dimmi come guidi e ti dirò come sei a letto, si potrebbe sintetizzare. Se usi male l’auto, la tendi a guastare e ti ritroverai più spesso in un’officina per farla riparare.

Le officine meccaniche come ne troviamo oggi tenderanno a scomparire. Le auto sono sempre più computerizzate e nelle officine spariranno man mano anche chiavi inglesi e bullonatrici. E non esisteranno più i veri medici dell’auto, quelli vecchia maniera che, prima di farti un preventivo, entrano nella tua auto per provarla in una distanza di 500 metri e, a seconda dei suoni e delle vibrazioni, ti fanno diagnosi e terapia. Quel che tu credi sia un ammasso di metallo senza vita, per un meccanico è un essere vivente.


L’essenza delle officine meccaniche


Officine come ospedali di automobili. Luoghi scarsamente illuminati al neon in cui si ascolta la concentrazione dei medici di automobili. Odori di cocktail di olio, carburante, copertoni, grasso, ferodo, sudore e caffè. Panelli attrezzati con cacciaviti e altri oggetti non identificati, compressori, carrelli di metallo, banchi da lavoro con morse e tornio, elevatori. I suoni e rumori di un’officina meccanica sono un concerto sinfonico per gli appassionati. Corredato da calendari di pin up del XXI secolo e santini. Sacro e profano che convivono sulle pareti difficilmente rimesse a nuovo da qualche strato di pittura. Perché non c’è tempo per farlo: il papà di quell’auto ha urgente bisogno di riaverla per un viaggio di piacere o di lavoro.

Ma tutta questa magia che avvolge un’officina scomparirà. Le auto escono dalle fabbriche sempre più computerizzate e non ci sarà più bisogno dei meccanici “a orecchio” e sensibili alle vibrazioni. I computer di bordo e le strumentazioni tecno-digitali delle auto-officine sostituiranno l’esperienza dell’uomo e l’obsolescenza programmata porterà probabilmente a rendere irreparabili o economicamente non conveniente riparare le auto che avranno una vita media di 3-4 anni. 


Garage Stills


Jacquie Maria Wessels da alcuni anni ha intrapreso la sua ricerca Garage Stills per immortalare queste atmosfere in via di estinzione che normalmente sfuggono all’occhio di chi è costretto a portare la propria auto in riparazione. Probabilmente sfuggono anche agli stessi meccanici che vivono 8-10 ore al giorno nel proprio ambiente di lavoro.

Wessels realizza le sue nature morte anche riassemblando, disponendo in maniera decontestualizzata gli oggetti che catturano la sua attenzione, rendendo le inquadrature più pittoriche e nelle quali aleggia la presenza umana che mai compare in esse, trattandosi appunto di still life site specific.

E lo fa lavorando su pellicola a medio formato, per coerenza con il suo concetto di lotta contro la scomparsa della memoria umana. Perché i pixel non sono che polvere elettronica soggetta al rischio di disperdersi in tempi più brevi, mentre l’analogico è un’altra storia.


Al PAN – Palazzo delle Arti di Napoli sono quindi esposte circa trenta opere di Wessels, fotografie realizzate in Olanda, Sri Lanka, Suriname, Istanbul, Marrakech, Cambogia, Russia, Giappone, Cuba, Belgio, ed è interessante scoprire la presenza o meno di analogie dello stesso ambiente-soggetto ma ripreso in luoghi culturalmente diversi.


Le sue fotografie si equiparano a quadri astratti, a metà tra mondo reale ed immaginario, un felice connubio tra realtà ed astrazione, momento presente e memoria; a cavallo tra il particolare dell’oggetto e l’universale della storia; tra pittura astratta e fotografia; tra visione poetica ed indagine antropologica, tra osservazione e rivelazione, e si presentano come dispositivi della psicologia della società meccanica che sta inesorabilmente scomparendo.

- Marina Guida



Nota dal comunicato stampa

In mostra anche alcuni lavori di due serie fotografiche precedenti, “Cityscapes” e la nuova serie “Fringe Nature”. Le opere di Jacquie Maria Wessels sono state esposte in tutto il mondo e fanno parte di varie collezioni private e museali, tra i quali: Rijksmuseum di Amsterdam (Paesi Bassi), al Huis Marseille- Museo della fotografia di Amsterdam (Paesi Bassi) e il Surinaams Museo in Paramaribo (Suriname).





GARAGE STILLS di Jacquie Maria Wessels

a cura di Marina Guida

Promosso da Assessorato alla Cultura del Comune di Napoli

PAN | Palazzo delle Arti di Napoli 

Dal 18 dicembre 2021 al 13 gennaio 2022

Tutti i giorni: dalle ore 10:30 alle ore 18:00

Domenica: dalle ore 10:30 alle ore 13:30

Martedì: giorno di chiusura

Festività nazionali (25, 26 dicembre; 1 e 6 gennaio): chiuso al pubblico

https://www.jacquiemariawessels.nl/ 

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21.12.2021 # 5862
Claudia Rocchini, la ritrattista degli animali, espone nella rassegna Animal Emotion

La sospensione del tempo tra spazio e pensiero di Pierfranco Fornasieri

Mostra fotografica presso Movimento Aperto a cura di Giovanni Ruggiero

di Marco Maraviglia

La fotografia se non ha un osservatore non esiste. Il fotografo è a volte uno sketcher, prende appunti visivi, vede ciò che ha di fronte e, secondo la sua sensibilità di quel momento, decide di fare uno scatto.

Ma se non è fruita, scatenando impulsi emozionali, immaginazione, desiderio di conoscere chi/dove/quando/perché è stata fatta quella foto da parte di chi la guarda, resta nell’oblio.

Come parole non dette ma solo pensate. Come messaggi in bottiglia dispersa nel mare.

Il triangolo fotografo-fotografia-osservatore se non si chiude non ha senso. E in quell’area del triangolo si compie una danza di riflessioni, supposizioni, intuizioni. Un viaggio mentale di cui l’autore non è altro colui che ospita le possibili visioni.

 

«Una buona fotografia deve lasciare dei punti in sospeso. Non deve spiegare, solo abbozzare. Il senso di una fotografia non esiste, se non c’è qualcuno che muove i suoi pensieri personali partendo dall’immagine che ha davanti. La mia personale narrazione fotografica non può prescindere dalla presenza di un osservatore: non riuscirebbe a compiersi completamente. L’immagine fotografica non è mai una storia con un solo finale.»

- Pierfranco Fornasieri

 

Le immagini di Pierfranco Fornasieri sono come sospensioni del tempo, attimi congelati da qualche centesimo di secondo che non raccontano tutto ma inducono a raccontare storie a se stessi. Lasciano la sceneggiatura aperta all’osservatore che cercherà e troverà un fil rouge che potrebbe avere più percorsi. Come una ragnatela di percezioni nella quale districarsi o anche perdersi, come in un labirinto con più traguardi. Uno Sliding doors con più uscite.

 

«Sappiamo che la fotografia di Pierfranco Fornasieri, artista torinese, non nasce dalla suggestione di un luogo preciso nello spazio (una strada, una città, una stanza o una spiaggia), ma da una metaforica nuvola fatta di tanti perché. Domande che possono essere numerose, e la nuvola, allora, pregna di dubbi, è come quelle che promettono pioggia, oppure presentarsi lieve, come a rigare con un soffio il cielo.»

- Giovanni Ruggiero (curatore della mostra)

 

Due sono i lavori presentati da Pierfranco Fornasieri: Seconde Storie Lo Spazio Incerto.

Per il primo progetto il fotografo è andato alla ricerca delle storie degli altri, quelle sospese: storie in divenire o già accadute e sta all’osservatore ricostruire quelle storie. Libero di interpretarle.

E si tratta di immagini realizzate tra il Piemonte (la sua Torino) e la Toscana, poi le Venezie, Parigi e, ancora, la Spagna e ad altri luoghi ancora.

 

Spazio Incerto, invece, tocca il tema dell’adolescenza. Fornasieri vuole appunto rappresentare quel tempo sospeso dei dubbi e dell’incertezza che passa fra l’essere bambino e il diventare uomo, scegliendo la realizzazione e l’allestimento delle fotografie sotto forma di dittici. Il senso della atemporalità è anche in questa ultima serie

 

Una street photography declinata nell’introspezione dell’autore.

Sono immagini che catturano l’attenzione per la loro essenzialità. Oniriche, metafisiche. Silenziose. Il peso dei chiaroscuri, l’equilibrio tra ambiente e uomo, i contrapposti tra persone che svolgono nello stesso tempo azioni diverse in una casualità che sembra invece scritta da quel ritmo della vita, dal quel concetto orientale di causa e effetto di cui per lo più non ci accorgiamo.

Perché siamo condizionati dal tempo cadenzato da innumerevoli cose da fare che assorbono le nostre giornate.

Facciamo un respiro profondo chiudendo gli occhi. Poi apriamoli e immergiamoci in questa opportunità che ci offre l’autore.

 

Seconde storie di Pierfranco Fornasieri

A cura di Giovanni Ruggiero

Movimento Aperto

via Duomo 290/c

dall’11 al 29 dicembre

il lunedì e il martedì ore 17-19, il  giovedì ore 10.30-12.30 e su appuntamento

Info 333 2229274  e 335 6440700

https://www.fornasieri.com/

 

 

 

 

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16.12.2021 # 5855
Claudia Rocchini, la ritrattista degli animali, espone nella rassegna Animal Emotion

David LaChapelle, il maestro della Pop Art della fotografia in mostra a Napoli

Una collezione esclusiva ed unica, studiata appositamente per la città e per il Maschio Angioino. Con alcune opere inedite

di Marco Maraviglia

Un ragazzo giace in una discarica. Come cascato  dall’alto, su un ammasso di RAEE. È un angelo? È Icaro. Le sue ali sono spezzate e spiumate. Tanta tecnologia “grigia” sotto di lui, è inerte. Obsoleta. Distrutta. Inutile. Computer che in un’era precedente illudevano al miglioramento della vita, facevano pensare all’immunità intellettiva dell’uomo. A un mondo migliore perché globalizzato dalla iperconnessione. Monitor, case di computer, tastiere senza più vita che rappresentano un consumismo spesso inutile. Perché macchine usate per bighellonare sui social o per ambire a diventare influencer o per essere un semplice utente passivo.

Icarus (questo il titolo della foto), si è avvicinato troppo verso quel sole digitale, verso quei byte. Cercava probabilmente di volare troppo alto, oltre quel labirinto ipertecnologico. Bruciando la propria vita nell’iperinformazione della rete. Nella saturazione ed implosione dei dati. Scontrando i propri neuroni col codice binario. Non ce l’ha fatta.

 

Questa appena descritta è la prima foto che si incontra all’inizio del percorso della mostra di David LaChapelle.

Poi si attraversa una sequenza di immagini che andrebbero viste ascoltando a palla nella mente Heroes di David Bowie, Walk On The Wild Side di Lou Reed o anche We are the champions di Freddie Mercury.

Perché di sognatori e incubi dell’immaginario umano si parla in queste fotografie. Dei fallimenti dell’umanità provocati dall’uomo stesso. Di mondi apocalittici, disastri naturali e biblici. Di post umanità. Architetture sociali costruite sul profitto e sugli inevitabili vizi capitali. Immagini di eccellente composizione, che fanno di LaChapelle un indiscutibile maestro della Staged Photography, in cui trapelano rigurgiti di rinascita o di moniti dove la religione sembra assumere connotati blasfemi ma non è altro che una sua rivisitazione contemporanea in chiave Pop Art.

Perché David LaChapelle è anche il principale riferimento della Pop Art nel panorama della fotografia internazionale. Non a caso battezzato proprio da Andy Warhol che, a soli 17 anni, gli commissionò un servizio fotografico per Interview Magazine. E da allora il volo. Anno dopo anno si è affermato nello spettacolo, nella moda, nella pubblicità e nella musica.

Colori sgargianti, un neo-Barocco iconografico allestito con un’infinità di dettagli allegorici che rendono navigabili a lungo le sue foto, con gli occhi. Per esplorarle e cercare di scoprire quei messaggi di probabile denuncia o semplicemente realizzate per comunicarci il mondo oggi come sarà. O come lo è già. Un futuro presente plausibile, possibilistico, avveniristico. Strizzando l’occhio a Michelangelo che pure ci ha lasciato nella Cappella Sistina messaggi in parte decifrati o riabilitati solo nei tempi più recenti (rif. I segreti della Sistina, il messaggio proibito di Michelangelo; Roy Doliner e Benjamin Blech).

Deluge (2007), è il Diluvio universale di LaChapelle, ambientato a Las Vegas, dove i simboli consumistici in esso contenuti, sembra che abbiano contribuito allo scatenarsi dell’ira dall’alto.

 

Tra Pop e Pulp, David LaChapelle invita i visitatori a ripercorrere i momenti salienti della sua prolifica carriera presentando quaranta pezzi tratti dai periodi più significativi - dal 1980 fino ad oggi - offrendo anche una selezione di opere inedite in anteprima per Napoli, provenienti dal suo archivio.

Nessuna gigantografia, che avrebbe giustificato la cifra artistica di LaChapelle, ma immagini direttamente appuntate con chiodi per volontà stessa dell’artista che vuole far sentire il pubblico come se lo ospitasse nel proprio atelier alle Hawaii. Con modestia. Senza immolarsi a idolo. Reminiscenze maturate evidentemente dalle sue frequentazioni alla Factory di Warhol, dove artisti e aspiranti comparse viaggiavano sullo stesso livello.

 

In mostra vi sono inoltre alcune opere tratte dalle vivide e coinvolgenti serie Land SCAPE (2013) e Gas (2013), progetti di natura morta in cui LaChapelle assembla found objects per creare raffinerie di petrolio e stazioni di servizio, prima di presentarle come reliquie in una terra reclamata dalla natura.

 

Infine, in esclusiva per la Cappella Palatina, alcune trasparenze tratte da negativi fotografici, dipinti a mano realizzati negli anni ’80, di quando l'artista adolescente esplorava le idee della metafisica e della perdita, sullo sfondo della devastante epidemia dell’AIDS. Installazione site specific in esclusiva per questa mostra mai realizzata prima, in dialogo con le opere più recenti di LaChapelle in cui il fotografo viene come catturato da un timore reverenziale per il sublime e dalla ricerca di spiritualità. Come si può vedere in Behold (2017), l’opera utilizzata come immagine portante della mostra stessa.

 

LaChapelle, nella Cappella Palatina, un nome, un programma.

 

 

 

David LaChapelle

A cura di Vittoria Mainoldi e Mario Martin Pareja

Dall’8 dicembre 2021 al 6 marzo 2022

MASCHIO ANGIOINO (Castel Nuovo)

Cappella Palatina

Via Vittorio Emanuele III, Napoli

 

La mostra nel mese di dicembre sarà aperta nei seguenti orari

Da LUNEDÍ a SABATO: 9 – 18.30

DOMENICHE e FESTIVI: 9 – 14.00

Ultimo ingresso consentito in mostra un’ora prima dell’orario di chiusura.

 

Prezzi biglietti:

Intero: 14 €

Ridotto generico (over 65, under 12, partner convenzionati, studenti universitari): 12 € Ridotto gruppi/cral (minimo 15 persone): 10 €

Ridotto scuole (minimo 15 alunni): 10 euro

Ridotto studenti di Beni Culturali, Storia dell’Arte, Istituti e Accademie di Belle Arti: 8 euro

I bambini al di sotto dei 6 anni entrano gratuitamente.

 

Una produzione Next Exhibition, organizzata in collaborazione con l’Assessorato  alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli, Associazione Culturale Dreams, Alta Classe Lab, Fast Forward e Next Event.

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26.11.2021 # 5843
Claudia Rocchini, la ritrattista degli animali, espone nella rassegna Animal Emotion

Un mondo parallelo chiamato autismo. Fabio Moscatelli e il suo progetto “Gioele – Il Mondo Fuori” in mostra

Un viaggio di amicizia durato sette anni in cui il mondo di dentro e quello fuori si interconnettono scambiandosi punti di vista

di Marco Maraviglia

Chi è Fabio Moscatelli

Classe 1974. Nato a Roma dove si è diplomato presso la Scuola Romana di Fotografia. Approda alla fotografia grazie all’entusiasmo e la passione trasmessogli da una ragazza che è poi diventata sua moglie. Attraversa la “fase dei rullini”, quella della fotografia analogica, per poi giungere al digitale. I suoi progetti fotografici sono quasi tutti a lungo termine. Approfondisce il lato emozionale nei suoi lavori in cui si evince un tempo dilatato e intimo nelle immagini stesse e con linguaggi visivi articolati, senza canoni e stili specifici.

Ha realizzato dei libri a tirature limitate.

Attualmente è impegnato con un racconto sulle attività agricole nelle zone terremotate del Centro Italia.

 

Gioele e l’autismo

Gioele vive un quotidiano straordinario, una normalità atipica. Ma chi ha stabilito cosa sia realmente la normalità? Gioele per certi versi è molto più normale, rispetto al senso che noi attribuiamo a questo termine. Non ha filtri, niente sovrastrutture condizionanti, non è falso e non conosce ipocrisia. È un essere puro.

I bambini ci stupiscono per la loro spontaneità, per il loro spirito di osservazione che molti adulti hanno perso nel tempo.

Quali sono i passaggi dalla fanciullezza all’adolescenza alla fase adulta? Regole, dogmi sociali, ruoli, step di crescita standard che fanno di ogni individuo una pedina confusa tra tante, consapevole di diritti e rispettosa di doveri. Chi si ribella, chi va in controtendenza, chi ha una mente borderline, secondo la società convenzionale è un folle . E non a caso vi sono persone che col loro pensiero trasversale divengono artisti, geni o eretici del mondo sociale fatto a scacchi. Quel mondo a gabbie inscatolate tra loro, interconnesse, come una figura impossibile, che lascia pochi spiragli a un pensiero diverso fatto anche di intuizioni, casualità e “concentrazione laterale” che non raramente portano a innovazioni.

Non si possono non citare persone che stavano in parte nello spettro dell’autismo come Michelangelo Buonarroti, Andy Warhol, Mozart, George Orwell, Stephen Wiltshire (vivente, quello che memorizza vasti paesaggi urbani da un elicottero e li riproduce disegnandoli) e altri ancora con caratteristiche mnemoniche spettacolari e che fanno comprendere quanto la programmazione del nostro cervello sia imprevedibile o spesso limitata e probabilmente condizionata da input culturali o altri ancora forse non del tutto noti.

 

La complicità di un’amicizia lunga sette anni

Parole o frasi ripetute, mancanza di attenzione, opporsi a richieste, sottrarsi allo sguardo, sembrano anaffettivi, incapaci di condividere emozioni, difficilmente si relazionano con i “normodotati”, camminano a vuoto come se stessero pensando un mondo a noi ignoto. Tutto ciò rende affascinante il riuscire ad entrare in contatto con loro attraverso una conquista reciproca. Come Tom Cruise che scopre poco a poco le qualità del fratello Dustin Hoffman in Rain man. Si tratta probabilmente di riuscire ad afferrare il senso della loro concentrazione laterale, quella che sembra senza senso ma invece rivelatrice di punti di vista diversi, lontani dalle nostre occlusioni mentali. La conquista avviene per complicità, per intesa, per credibilità. Mai per insistenza gratuita. Ma spogliandosi dai pregiudizi e planare su un’onda che può portare in luoghi dell’anima inesplorati.

 

La difficoltà di costruire un rapporto all'inizio non è stata dettata dalla condizione di Gioele, ma dalla differenza di età; non è semplice per molti bambini rapportarsi con un adulto.

 

Fabio Moscatelli incontra in un parco giochi Gioele quando aveva 10 anni. Oggi ne ha appena compiuti 18.

Da subito Fabio volle entrare in contatto col mondo di Gioele. Andava a trovarlo a casa, dopo aver conosciuto i genitori che lo accolsero, ma Gioele restava chiuso nella sua stanza. Syria, la figlia di Fabio, fu la pietra miliare per l’avvicinamento. Il punto di svolta di quel rapporto tra Fabio e Gioele che tutt’oggi dura.

E iniziò la collaborazione.

 

Un progetto lungo 7 anni…

Le modalità operative sono state molto spontanee. Senza un vero e proprio programma definito. Un canovaccio in cui le situazioni fotografate sono frutto del tempo trascorso insieme. Situazioni che si venivano a creare in maniera naturale. Come attori che improvvisano ogni volta su set diversi, conoscendo ognuno la propria parte e talvolta scambiandosi i ruoli.

 

Ho imparato tantissimo da questo percorso, sono migliorato come uomo, come padre; Gioele mi ha ricordato il valore delle cose semplici, la bellezza del nostro quotidiano e dei gesti semplici. Anche andare a mangiare una pizza ora è una festa, una gioia da condividere.

 

In questo lavoro di scambio Gioele impara ad usare la fotocamera regolando in manuale l’esposizione e inquadrando ciò che più lo cattura dall’esterno: per lo più dettagli, quelli che normalmente ci passano inosservati o che sembrano non meritare la nostra attenzione. È il mondo che Gioele ci restituisce, con poesia, dolcezza e un’ironia che quasi sembra voler dirci «ehi voi, ma che cose strane che fate!».

Le immagini di Fabio Moscatelli narrano alcuni momenti di questo intimo e amichevole sodalizio. Con altrettanta poesia e rispetto. Con la discrezione di un angelo invisibile che osserva e ascolta con attenzione la sua anima da guidare e amare.

 

La mostra, dove saranno esposti anche alcuni disegni di Gioele, purtroppo dura solo tre giorni ma alcune immagini resteranno nello spazio ospitante per molto tempo e Fabio e Gioele sono felicissimi di poter lasciare una traccia del loro passaggio.

Per Natale sarà pubblicato il libro Gioele – Il Mondo Fuori, curato da Der Lab, lo studio di Irene Alison, con una tiratura di 500 copie. Con testi di Irene Alison e del critico Simone Azzoni.

 

In un pomeriggio ancora caldo di fine agosto, nel parco giochi semideserto, ti ho visto. Gioele, un bambino come tanti, magari un po’ cresciuto per lo scivolo e l’altalena, un sorriso furbetto in faccia. Da quel giorno ha avuto inizio la nostra amicizia e il mio dialogo  con l’autismo, quella strana presenza che ti abita. Da quel giorno sei cresciuto, ti sei aperto a me e alla mia famiglia, sei diventato un prezioso compagno di giochi per mia figlia Syria ma, soprattutto, sei diventato ispirazione e co-autore  di questo progetto.

 

 

Gioele – Mostra fotografica

La mostra Gioele fa parte di DEDALI, il programma delle Industrie Fluviali realizzato in occasione della Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità

 

Dettagli

 

Inizio:

1 Dicembre | 18:00

Fine:

3 Dicembre | 23:00

 

Organizzatore

 

Industrie Fluviali

Via del Porto Fluviale 35 - Roma

Telefono: 06 56557732

Email: info@industriefluviali.it

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19.11.2021 # 5841
Claudia Rocchini, la ritrattista degli animali, espone nella rassegna Animal Emotion

Come ti interpreto la citazione. Frasi epiche di fotografi, intorno alla fotografia, rilette e un po’ smontate.

Rileggendo le citazioni d’autore, sono ancora tutte attuali? O qualcosa andrebbe riadattato e smentito?

di Marco Maraviglia

Giovani fotografi che citano frasi famose di fotografi come se fossero Fede assoluta. Diventano claim, slogan ad effetto piazzati nelle home dei propri siti WEB o postate sui propri profili social. Una citazione non può però essere una filosofia di vita professionale assoluta, ma soltanto un omaggio al fotografo che si ama. O uno tra i tanti punti di riferimento. Come vette di monti che sono comunque interconnessi tra loro da colline, valli, laghi, fiumi.

E comunque ogni citazione andrebbe contestualizzata nel suo periodo storico. Perché cambiano le tecnologie, cambiano gli uomini, cambiano i linguaggi visivi.

Proviamo a riflettere un po’ su alcune di tali citazioni…

 

 

Ho sempre pensato che la fotografia sia come una barzelletta: se la devi spiegare non è venuta bene – Ansel Adams

 

Immaginiamo un giornale con notizie fatte di sole foto e senza nemmeno le didascalie. Riusciremmo ad estrapolare da esse le informazioni relative alle 5W giornalistiche?


What – Che cosa
Who – Chi
Where – Dove
When – Quando
Why– Perché

Sono le cinque domande che un giornalista deve soddisfare, per un normale articolo contenendo le risposte.

Da un giornale solo iconografico forse riusciremmo ad avere una o due informazioni se avessimo conoscenze pregresse di un fatto. Se conoscessimo il luogo in cui è stata presa una foto o conoscessimo il personaggio ritratto, potremmo dire che si tratta di “Mr. Smith ripreso a Portobello Road”. Il who e il where quindi, ma cosa, perché e quando era lì Mr. Smith non potremmo saperlo.

La citazione di Ansel Adams non funzionerebbe nemmeno per una gran quantità di fotografie concettuali. O artistiche, volendo. Perché non tutti possono avere gli strumenti culturali o un background esperienziale vasto che consente di comprendere immagini più complesse rispetto a un semplice paesaggio. E allora abbiamo immagini che sono accompagnate da testi di curatori, critici o da sinossi scritti di pugno dall’autore stesso che ci servono a comprenderle. Insomma, qualche “barzelletta” andrebbe spiegata.

 

Fotografare è mettere sulla stessa mira, testa, occhio e il cuore – Henri Cartier-Bresson

 

Siamo convinti di ciò che disse il mitico Bresson? La citazione tra le più famose di tutte può considerarsi completa? Assoluta? Verbo? Proviamo a interpretarla?

In realtà per fotografare occorre avere una certa sensibilità emozionale e percezione. Caratteristiche che, per svilupparle, necessitano di allenamento, esperienza, coscienza di sé, conoscenza. Il fotografo potrebbe trovarsi in una situazione nuova per lui e le foto che scatterebbe non rappresenterebbero al meglio il contesto. La “testa” dovrebbe rappresentare il bagaglio di competenze che si hanno relativamente al contesto che si fotografa. Se ci viene chiesto di fare foto di scena per uno spettacolo teatrale ma non conosciamo la trama della storia, le battute o scene più importanti, gli attori, le pause, le luci, probabilmente faremmo delle foto tecnicamente buone ma non belle. Specie se prese senza “cuore” che credo Bresson si riferisse molto probabilmente alla passione e alla cura nel fotografare.

E comunque solo la vista, “l’occhio”, tra i cinque sensi a volte non è sempre sufficiente: udito e olfatto possono stimolare infatti la nostra percezione facendoci dirigere l’occhio verso una determinata scena da inquadrare. L’olfatto ci guiderebbe dietro il vicolo in un’isola greca e con sorpresa ci farebbe trovare un delizioso ristorantino da fotografare: dallo chef ai piatti che cucina.

 

La parte più importante di una macchina fotografica sta dietro ad essa  – Ansel Adams

 

Torniamo all’ottimo Adams che conferma quanto già scritto sopra riguardo la citazione di Bresson: senza testa e cuore che viaggiano in tandem, l’occhio non basta. L’obiettivo e quindi l’occhio vede ma non osserva. Inquadra, taglia, sceglie cosa deve entrare nelle due dimensioni dell’immagine, compone bilanciando i pesi delle luci, ombre, colori, seguendo l’armonia e il ritmo di linee, volumi, spazi. Da solo l’occhio potrebbe restituire solo immagini virtuose sotto il profilo estetico-geometrico ma prive di significati più intensi.

Ciò che c’è dietro una macchina fotografica è la parte più importante: la testa!!! In essa vi è contenuta tutta l’esperienza del fotografo non solo professionale ma anche umana. Il suo vissuto, le persone che ha incontrato, i viaggi “lenti” e non mordi e fuggi, gli studi seguiti, i libri letti, i film visti… tutto materiale invisibile  attraverso il quale ha formato la sua personalità. Tutto l’immateriale della cultura personale che genera inevitabilmente un pensiero che si proietta sulle immagini che realizza.

 

Se le tue foto non sono abbastanza belle, è perché non sei abbastanza vicino  – Robert Capa

 

Probabilmente il “fotografo di guerra” Capa si riferiva, rispetto a quel "abbastanza vicino", allo stare nell’azione di un evento in maniera ravvicinata. Ma essere vicino al soggetto da riprendere non significa necessariamente stare dentro la scena. La vicinanza può essere anche soltanto emotiva e usare magari anche un teleobiettivo per avvicinarsi al soggetto da riprendere. Non c’è bisogno di fare un primo piano alla barba di un tuareg nel deserto o riprendere l’ugola di un soprano per fare un ritratto, ma occorre conoscere a fondo le caratteristiche del soggetto che fotografiamo. Essere vicini inteso quindi non necessariamente in termini di distanza fisica, almeno non solo, ma avere una maggiore conoscenza e sensibilità verso quel che si riprende. In una parola: empatia.

 

L’abilità nella fotografia si acquisisce con la pratica, non con l’acquisto  – Peter Lindbergh

 

È chiaro che se non acquisti una fotocamera non puoi essere un abile fotografo perché non hai lo strumento per diventarlo con la pratica. Però acquistando costose attrezzature non ci consente di diventare abili fotografi.

Anche acquistare costosi software di postproduzione non ci rende abili, utilizzandoli. Perché occorrono anni per imparare a utilizzarli facendo appunto pratica.

Ma l’acquisto potrebbe essere riferito anche a corsi, seminari, webinar, workshop e quant’altro di fotografia. Indispensabili per ampliare le proprie conoscenze tecniche di fotografo e senza le quali i tempi della pratica per acquisire abilità, si allungherebbero. Perché nei suddetti incontri c’è sempre uno o più professionisti che oltre alla tecnica trasferiscono ai propri allievi esperienze di cui fare tesoro. Accelerandone la pratica per transfert.

Il fatto è che, anche dopo aver studiato a lungo la fotografia “acquistando esperienze”, occorre fare sempre pratica. Perché non si smetterà mai di imparare.

 

L’importante è vedere ciò che è invisibile agli altri  – Steve McCurry

 

Esiste qualcosa che può essere invisibile ad altri? Perché? Ma il fotografo deve semplicemente vedere ciò che è invisibile ad altri o deve avere anche l’abilità di mostrare a questi ciò che non vedono?

C’è una differenza sostanziale tra guardare e osservare. Fotografi, scrittori di romanzi, registi, grafici, artisti visuali sono allenati a osservare. Guardare e porsi domande su ciò che vedono. Sono abituati ad entrare emozionalmente dentro la scena, riescono a sezionarne tutti i suoi elementi individuando il punto di massimo interesse che potrebbe essere invisibile o non individuabile al primo impatto alla maggior parte delle persone. Perché a volte c’è rumore visivo che distrae. Il fotografo è come un musicista, o un tecnico del suono, che filtra suoni e rumori di fondo, note stonate per restituire la massima purezza di un pezzo musicale.

Non basta vedere ciò che è invisibile agli altri, occorre riuscire a sintetizzarlo nella foto per mostrarlo a chi fruirà di quella foto.

A volte è indispensabile anche un certo tipo di postproduzione per esaltare ciò che si vuole mostrare. E questo McCurry lo sa bene preferendo la saturazione dei colori.

 

La fotografia, come tutti sappiamo, non è affatto reale. È un’illusione della realtà con cui creiamo il nostro mondo privato  – Arnold Newman

 

Già nel momento in cui inquadriamo una scena, limitata da quattro lati e inevitabilmente annullando la terza dimensione, stiamo alterando la realtà. Non mostriamo tutto ciò che c’è intorno alla finestra che abbiamo creato. Siamo costretti a essere bugiardi dal limite delle due dimensioni. Ma siamo piacevolmente consapevoli ingannatori. Vediamo una foto che sembra scattata su un’isola caraibica, ma più in là, sul bagnasciuga c’era qualche bottiglia di plastica della nostra civiltà consumistica, ovviamente messa fuori dall’inquadratura. Ma nel nostro intimo ci sentiamo gratificati quando gli amici ammireranno lo scorcio che abbiamo ripreso. Ingannandoli.

 

Chi non ama aspettare, non può diventare fotografo – Sebastião Salgado

 

Saper aspettare è effettivamente una condizione siddhartiana indispensabile per qualsiasi fotografo. Anche per il fotoreporter che può trascorrere ore o giorni interi ad aspettare che un’azione avvenga per poi attivarsi improvvisamente.

Il fotografo di still life? Anche. La sua è tutta questione di pazienza nel preparare sapientemente il set, senza affrettarsi. Perché ogni lama di luce colpisca il soggetto lì dove deve andare. Il paesaggista? Sì, anche lui, attende la luce giusta. Quella che magari ha già in mente. O aspetta che la conformazione delle nuvole sia quella che preferisce prima del click.

 

Di sicuro, ci sarà sempre chi guarderà solo la tecnica e si chiederà come, mentre altri di natura più curiosa si chiederanno perché – Man Ray

 

Non c’è niente di grave chiedersi, di fronte a una particolare fotografia, “come” è stata realizzata. Anzi, serve a scoprire e individuare nuovi linguaggi espressivi che andrebbero a sommarsi al proprio bagaglio professionale. Chiedendolo direttamente all’autore non sempre potremmo avere una risposta. Per qualcuno il segreto professionale è sacro.

Ma il “perché” esiste una determinata fotografia, bisognerebbe sempre chiederselo.

Perché è stata scattata? Perché è stata pubblicata su un’autorevole rivista? Perché è esposta in un museo? Perché (non) ci piace? Perché è fatta in un certo modo? Cosa vuole comunicare? È una fotografia utile per chi la osserva? Qual è il target? Chi dovrebbero essere i potenziali fruitori?

Perché i nostri occhi si sono posati su di essa per oltre cinque secondi?

 

 

Le citazioni sulla fotografia sono tante e forse, se si leggessero tutte, potrebbero fare più danni che altro. La cosa migliore potrebbe essere quella di conoscere l’intero pensiero del fotografo e il suo lavoro, la sua ricerca, per comprendere a fondo una sola frase.

Ma che il gioco dell’interpretazione delle citazioni continui! Trovatele in rete o inventatene voi, postatele sui social e avvierete discussioni interessanti.

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05.11.2021 # 5831
Claudia Rocchini, la ritrattista degli animali, espone nella rassegna Animal Emotion

Dimitra Dede in mostra alla Spot Home Gallery con Ápeiron: l’assenza di confine

Immagini introspettive di un’insostenibile leggerezza dell’essere che indagano l’indefinibile della vita tra il buio e il buio

di Marco Maraviglia

Chi è Dimitra Dede

Dimitra Dede è un’artista visiva greca che vive a Londra e lavora prevalentemente con la fotografia. Ha conseguito una specializzazione in New Media dopo gli studi in fotografia.

La sua pratica artistica coniuga la pittura e l’uso di sostanze chimiche con la fotografia. La creazione delle sue immagini si basa su un processo intuitivo. La sua ricerca esplora la connessione tra spazio e tempo, memoria e disorientamento, perdita e vulnerabilità umana, la vita e l’Assurdo. Le sue opere sono state esposte in gallerie, musei e festival in Europa, Stati Uniti e Asia.

Il suo libro Mayflies è stato selezionato nella shortlist del premio per il Miglior Libro d’Autore ai Rencontres d’Arles 2020, e del premio Unseen Dummy Award 2018 all’Unseen Festival di Amsterdam.

- dal comunicato stampa

 

Osservando le foto di Dimitra

Si entra in un mondo grigio torbido, dove i neri sembrano carboncini sfumati a mano. E tratti come tracciati a china. Macchie slavate.Tutto si confonde, tutto è inafferrabile. Nell’oscurità il circostante è fluido. Onirico. Sogni o incubi?

Dettagli che divengono galassie. Il reale diviene immaginazione. Tutto si sovrappone. C’è tanto blur. Indefinibile, come ciò che la nostra zona grigia nasconde nella mente. Vedo riflessi, o sovrapposizioni di spazi, corpi e paesaggi? Non conta saperlo perché meglio lasciarsi andare a quel segmento della vita che c’è tra il buio e il buio. Tra il ventre materno e l’ultimo sospiro. Non conta perché il messaggio, la sensazione che l’osservatore riesce a percepire, è sufficiente.

Immagini da decifrare o ascoltare? Quale anfratto del proprio intimo bisogna esplorare per riconoscersi in quei frame che sembrano in movimento, che si avvicinano, ci sfiorano, si allontanano ma ci affollano come sogni labili, profetici, inconsci?

Ma poi, perché cercare di capire in un mondo in cui non esistono certezze? Tutto scorre in un arco temporale breve. I segni ci travolgono, ci attraversano.

Acqua, terra, il verde… tutto in grigio/nero. Il bianco è la luce, la somma di tutti i colori, e qui non serve, resta nel mondo di fuori per non distrarre da un’introspezione inconscia e meditativa. Tra accenni pareidolici immersi nell’eleganza di un glamour celato. Apoteosi della sensualità perché nascosta e da scoprire.

E tutto scorre, tra ricordi di passaggio, di quelli che forse non ne abbiamo bisogno riviverli, ma ci sono, esistono, vivono ancora in qualche meandro della nostra anima.

 

…una mano, un corpo, un ghiacciaio, un sesso femminile, delle nuvole, un volto, un albero, un corpo o una roccia si equivalgono. Pretesti per formare immagini, per provocarle, per generarle. Dimitra Dede le tratta come materia prima che lei lavora, graffia, trasforma, muta e stravolge per raggiungere un mondo che esiste solo nell’immagine, un mondo fluttuante ancorato ad un reale già dissolto. Il tempo si è fermato, o eternizzato, non sappiamo, tanto strettamente fotografico da non aver più nulla a che vedere con quello dei nostri orologi.

- Christian Caujolle.

 

Come nasce la mostra

Cristina Ferraiuolo, gallerista della Spot Home Gallery, è una cacciatrice di teste del campo fotografico. Per la sua attività spulcia anche libri fotografici di editori indipendenti ed ha scoperto Dimitra Dede che ha voluto nella sua galleria per la mostra Ápeiron curandone la realizzazione insieme a Michael Ackerman.

63 opere, frutto di un percorso di circa 20 anni.

Ápeiron, dal greco antico “à”, assenza e“peras”, confine: assenza di confine. Il principio, infinito ed eterno, da dove tutte le cose hanno origine e ove si dissolvono, è un concetto intorno al quale ruota l’intera produzione artistica di Dimitra Dede, ben riflesso nella frase dello scrittore greco Nikos Kazantzakis: "Veniamo da un abisso oscuro; ritorniamo in un abisso oscuro. Lo spazio luminoso che intercorre tra di loro lo chiamiamo vita".

 

La tecnica di Dimitra

L’artista non usa programmi di manipolazione di immagini ma interviene direttamente sui negativi con bruciature, cera, solarizzazione in camera oscura, vernice e usa tutto ciò che può per imprimervi dei segni come graffi e incisioni.

Un processo di trasformazione “punitivo” della materia che le consente di elaborare il dolore e di raggiungere l’armonia ricomponendo i pezzi frammentati della sua esistenza di donna, figlia, madre e artista.

I negativi così trattati vengono poi scannerizzati e stampati in giclée su diversi tipi di carta, a seconda dei soggetti.

Alcune immagini sono stampate su una spessa carta materica, di cotone, che restituisce l’opacità, il mistero e l’indefinito del suo lavoro; per altre una preziosa carta giapponese, la Taizan, sottile, leggermente trasparente, ma eccezionalmente resistente: assonanza con un femminile materno che coniuga fragilità e forza, amore e cura.

 

 

SPOT HOME GALLERY di Cristina Ferraiuolo

ÁPEIRON

Dimitra Dede

dal 28 ottobre 2021al 28 gennaio 2022

 

Opening 28 ottobre2021

dalle ore 12 alle ore 20

PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA sul sito www.spothomegallery.com

 

Contatti

Spot home gallery

via Toledo n. 66, Napoli

+39 081 9228816

info@spothomegallery.com

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28.10.2021 # 5822
Claudia Rocchini, la ritrattista degli animali, espone nella rassegna Animal Emotion

Lo stato italiano adesso, ora, il presente. Call per fotografi percettivi di una realtà distorta

Un’opportunità per partecipare a una collettiva per raccontare l’impatto pandemico sulla società. A cura di Simona Guerra

di Marco Maraviglia

Che succede? L’impatto pandemico sulla società

Cosa è successo negli ultimi due anni? Ce ne siamo accorti? Crediamo veramente di avere piena consapevolezza della nuova dimensione umana in cui siamo stati catapultati, causa pandemia? Sono cambiati i nostri rapporti sociali e interpersonali? Frequentiamo le stesse persone allo stesso modo di quando eravamo nel “mondo di prima”? Abbiamo percezione di eventuali danni subiti nella nostra mente per aver vissuto il lockdown? Capita di trovarci soli in auto con la mascherina indossata e senza accorgercene? Abbiamo ridotto l’uso dei trasporti pubblici preferendo spostarci a piedi? Ci chiediamo mai quali sono i parametri per cui si potrà uscire dall’emergenza in cui viviamo? Tendiamo a programmare le nostre vacanze in luoghi meno frequentati? Ma veramente è aumentata la folla della movida perché vuole riprendersi un pezzo di vita perduto,come se non ci fosse un domani? Siamo ormai già abituati a mostrare un QR code per entrare in un museo? O evitiamo di andarci perché emotivamente non accettiamo di esibire un’etichetta preferendo aspettare che si ripristini la normalità? È possibile l’adattamento dell’uomo alla distopia sociale senza conseguenti effetti collaterali?

Se non vi siete mai fatti almeno una di queste domande o altre ancora, potete terminare qui la lettura.

 

Call: chiamata alle armi per gli invisibili effetti sociali della pandemia

Simona Guerra, scrittrice, critica di fotografia e curatrice di mostre cerca narrazioni riguardanti lo stato attuale dell’Italia: Lo stato italiano adesso.

 

Sembra che il presente non sia più così semplice da trasmettere con le immagini. Anche perché un terremoto si può fotografare; gli effetti di una bomba con i suoi morti e feriti si può raccontare. Ma gran parte dei problemi di oggi restano inaccessibili agli occhi e all’apparecchio fotografico, a cui sembra sia stata lanciata una nuova sfida.

 

Si cercano progetti che esprimano visivamente e con l’ausilio di testi, narrazioni che vadano concettualmente oltre quelle immagini già viste come gente sui balconi, file fuori ai supermercati e carrelli in uscita stracolmi di provviste, gente distanziata con mascherina nei giardini pubblici, segni arrossati sui volti del personale sanitario causa mascherina indossata a lungo, ecc. ecc.

NO. Simona Guerra cerca il “dentro”, l’invisibile intimo, il tormento di quei fotografi che stanno ancora soffrendo per la mancanza di un abbraccio con un’amica incontrata per strada dopo oltre un anno; soffrono nell’evitare feste in casa con i soliti 30-40 amici; per il preferire la video-chiamata con un cliente; per non poter andare a trovare un amico in ospedale.

Tutte privazioni che non fanno parte di una vita normale. Perché non sono a dimensione umana.

 

Le immagini che ci propongono i media servono, o dovrebbero servire, a rappresentare il presente, dunque, chi e in che modo sta raccontando: la paura, la diffidenza, la perdita d’identità e quella di autodeterminarsi? La ricerca della Verità, continuamente rovesciata da versioni tra loro contrastanti, spesso offerte dalla stessa persona. E ancora: il terrore della sofferenza e della morte, le divisioni, gli attriti, i pensatori in lotta, il concetto di altruismo, dovere, responsabilità?

 

Gli artisti che hanno raccontato i disagi della storia

Negli anni l’arte ha comunicato contesti storici rappresentandone il tedio, il disagio, i drammi vissuti dalla società ma metabolizzati e rappresentati dagli artisti. Mi vengono in mente L’Urlo di Munch, apoteosi dell’Espressionismo; Il sonno della ragione genera mostri di Goya; Guernica di Picasso; fino ad arrivare ad alcune opere di Andy Warhol che metteva in discussione la frenesia della civiltà americana. Non sono che alcuni esempi che non documentano visivamente fatti, ma mostrano visivamente stati emozionali, invisibili, immateriali e che colpiscono duramente al cuore l’osservatore. E chissà se esistono fotografie che riescano a mostrare gli attuali stati psico-intimi attraverso gli invisibili metadati di questa realtà.

 

Che ne è, oggi, della narrazione dei fatti? È tornata ad essere ricca come prima dell’inizio della pandemia o ci sarebbe bisogno di materiale aggiuntivo perché si possa dire di avere una narrazione dell’oggi più completa?

 

Diamoci da fare: come procedere

Fino al 1° dicembre, Simona Guerra accoglierà e visionerà lavori fotografici (corredati da scritti) realizzati sulla base di questa traccia. Gli autori che meglio sapranno spingersi oltre i confini della narrazione già disponibile (per temi e punti di vista) verranno esposti all’interno dello Spazio di Piktart, sito a Senigallia, in una mostra della durata di 10 giorni, nell’inverno 2021.

Verrà inoltre valutata la messa a punto di un catalogo della mostra, edito dalla Piktart, con un testo critico a corredo e presentazione.

Si tratta di una vera e propria chiamata alle armi, visive e testuali, da sempre potenti strumenti di espressione e utensili preziosi del concetto artistico di attivismo.

Le attività di curatela di questa mostra vengono offerte a titolo gratuito e rappresentano il sostegno di Simona a quella parte di società che si è accorta di quanto minaccioso sia questo momento storico e sente l’urgenza di comunicarlo.

 

Dettagli:

www.pikta.it/piktart


Credit: Ph. Enrique Meseguer da Pixbay

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18.10.2021 # 5819
Claudia Rocchini, la ritrattista degli animali, espone nella rassegna Animal Emotion

Lost the Way Home, il libro di Antonino Condorelli per gli invisibili di Amburgo

Iniziativa editoriale in tandem con i medici volontari di ArztMobil Hamburg per sostenere attività di solidarietà per indigenti e senzatetto

di Marco Maraviglia

Chi è Antonino Condorelli

Classe 1973. Fotogiornalista freelance nato a Catanzaro e dove ha vissuto parte della sua vita.

Ha studiato fotografia a Milano. Inizia la professione di fotografo lavorando per i giornali calabresi coprendo fatti di cronaca, politica e i primi sbarchi dei migranti nello Jonio.

Si è sempre occupato principalmente del Sud nel mondo documentandone i suoi aspetti sociali.

Ha collaborato con agenzie nazionali e internazionali. Ha pubblicato su giornali Italiani e stranieri. Ha viaggiato in Argentina durante la crisi del 2002, in varie città d’Europa e in Burundi dove capì che l’Africa e il vicino Medio Oriente erano i luoghi dove avrebbe concentro la sua attenzione.

È stato in diversi paesi africani colpito da quel che si dice “il mal d’Africa”. Un amore che lo ha visto impegnato 

Dal 2015 si trasferisce in Germania con la sua famiglia e dove ha più opportunità professionali.

Nel 2016 ha vinto il “Blauer Löwe” per un lavoro realizzato in un paese della Bassa Sassonia circa gli immigrati che vivono in quel posto.

 

Il Sud del mondo

Quando pensiamo al Sud del mondo immaginiamo quelle zone economicamente depresse concentrate in Africa, nel Sud dell’Asia, luoghi dell’America latina. Ma i punti cardinali possono acquisire una loro soggettività in un mondo dove anche nelle metropoli più ricche, civilizzate, tecnologicamente avanzate,esistono sacche di emarginazione socio-economiche, di minoranze bistrattate. Il Sud del mondo si trova anche nella dispersione scolastica delle grandi città, nel non riconoscere pari diritti di lavoro a prescindere dal genere, nei disabili che vivono in contesti urbani che li impediscono di spostarsi autonomamente causa barriere architettoniche, negli immigrati sfruttati sul lavoro, carceri sovraffollate, nei senzatetto, indigenti e tanto altro. Invisibili. Un Sud di cui molti girano la testa dall’altra parte. Un Sud a volte considerato parassitismo che “meglio se non ci fosse”. Ma c’è. Esiste. E servirebbe un po’ di sensibilità ed empatia in più per salvaguardare la dignità umana. Sostenibilità umana.

 

L’esercito dei volontari

Fortunatamente quel Restiamo umani di Vittorio Arrigoni sembra calzare a pennello come un claim per tutte quelle attività di associazioni ed altre organizzazioni che si prodigano nel sostenere i cosiddetti “invisibili”. Minoranze “fastidiose”.

A mia memoria credo che tutto sia iniziato nel 1865 conl’Esercito della Salvezza, un’organizzazione evangelica che aiutava i bisognosi e ancora operativa in tutto il mondo. La solidarietà si è poi estesa a tante altre realtà e il fotoreporter Antonino Condorelli entrando in contatto con una di queste, ha voluto dare il proprio contributo.

 

Antonino Condorelli per ArztMobil Hamburg

“Lost the way homeè un progetto fotografico nato durante la prima ondata della pandemia da Coronavirus nel 2020. Il Fotogiornalista Antonino Condorelli ha seguito in quel periodo un’organizzazione di medici volontari che, nella città di Amburgo, si prendono cura delle persone senza tetto e con scarsa sufficienza economica. Il lavoro, partito inizialmente come un reportage da pubblicare sui giornali, ha preso una "piega" diversa quando Condorelli ha proposto ad ArztMobil Hamburg di realizzare un libro con il quale poter sostenere economicamente l'organizzazione.

Per più di un mese il fotografo Antonino Condorelli ha seguito i medici di ArztMobil Hamburg cercando di raccontare il difficile lavoro che svolgono i volontari nel curare e assistere i senzatetto della città, soprattutto in questo periodo incerto di pandemia. Lost the way home è un viaggio intimo nella vita di medici e assistiti che attraverso il loro incontro rischiarano le ombre della vita. Lost theway home allude al complicato rapporto con la vita di una società che esclude chi vive diversamente.” (Dal comunicato stampa).

 

 

Il libro Lost the way home

Il libro consta di sessanta fotografie in bianconero con testi dell’autore e dei medici di ArztMobil Hamburg per un totale di 88 pagine.

Immagini che raccontano l’attività dei medici volontari, tra visite mediche nel camion attrezzato ad ambulatorio, rifornimenti alimentari e relative distribuzioni tramite furgone; momenti intensi le cui foto lasciano intuire il rapporto di fiducia instaurato tra medici e pazienti e con ritratti di alcuni di questi. Ritratti dove si scorge un filo comune per tutti: lo sguardo sofferto, di una vita provata che racconta storie probabilmente irraccontabili, fatte di miseria, violenze, soprusi, abbandoni subiti da chi magari doveva esserti vicino. Persone che non ce l’hanno fatta perché emotivamente fragili, senza spirito combattivo e che si sono lasciate andare. Per scelta o per vicissitudini della vita.

Ma i volontari sono lì. Non fanno domande. Ascoltano, i loro malesseri, per curarli o perlomeno alleviarli.

 

Il nostro autobus non è solo una sala per trattamenti sanitari, maanche un rifugio. Spesso l'attenzione non è solo sulle cure mediche, ma sulletue preoccupazioni e sui tuoi problemi.

- JuliaHerrmann; volontaria dell’ArztMobil Hamburg

 

E l’obiettivo di Antonino è lì, occhio discreto ma penetrante, dentro quelle atmosfere dure ma impregnate di bontà.

Antonino Condorelli, in termini di celebrità, non è Dorothea Lange ma ha fatto un passo avanti perché oltre a sensibilizzare con questo libro su uno spaccato sociale della “civiltà” occidentale, ha messo a disposizione la sua professionalità senza badare al profitto.

 

… queste esperienze mi hanno aperto gli occhi. Ho camminato per le strade con più attenzione. E all'improvviso ho notato molte difficoltà nella nostra ricca città che non avevo mai visto prima o forse non volevo vedere. Coloro che vedono le difficoltà devono agire.

-Von Levke Sonntag; volontaria dell’ArztMobil Hamburg

 

 

Il libro è stato autopubblicato nel febbraio 2020 ed èacquistabile sul sito di Antonino Condorelli (https://www.antoninocondorelli.com/prodotto/lost-the-way-home-homeless/)

 

 

PROSSIME MOSTRE:

 

Dal 22-10-21 al 21-11-21

Vernissage giorno 22 ottobre alle ore 19 presso St.Michaelis Kirche, Johan Sebastian Bach Platz, Lüneburg.

La chiesa in cui si tiene la mostra è una delle chiese maggiori di Lüneburg costruita dai benedettini intorno al 1300. Bach è stato allievo lì.

Contatti +49 04131 2072-14

 

Dal 26-11-21 fino al 19-12-21

Vernissage giorno 26 novembre alle ore 18 presso Reso FabrikWinsen Luhe, Neulander Weg 15, Winsen Luhe.

La Reso Fabrik è una fabbrica sociale in cui vengono realizzati programmi di inclusione per gli abitanti della città. Si occupa di realizzare progetti di vario tipo, spesso basati sull'arte, con cui si cerca di aggregare le varie culture presenti.

Contatti +49 04171 783940

 

In entrambe le strutture l'ingresso è libero, e in entrambe le mostre sarà possibile acquistare il libro Lost the Way Home per sostenere imedici di Arzt Mobil. Costo del libro 45,00 € se acquistato sul posto.

 

Ufficio Stampa e Organizzazione: antoninocondorelli@antoninocondorelli.com

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06.10.2021 # 5811
Claudia Rocchini, la ritrattista degli animali, espone nella rassegna Animal Emotion

Marina Alessi in mostra con +D1, i ritratti corali di una perfetta padrona di casa

Presso la Galleria Gallerati a Roma i bianconeri della fotografa Marina Alessi e la possibilità di essere ritratti su prenotazione

di Marco Maraviglia

Chi è Marina Alessi

Classe 1960. Vive e lavora a Milano dal 1984 iniziando come assistente per Giovanni Gastel e Fabrizio Ferri. Professionalmente attiva dalla fine degli anni ’80, fotografa specializzata in ritratti, ha colto attraverso il suo obiettivo  i protagonisti del mondo del teatro, del cinema, della cultura e della televisione, seguendoli sui set, sui palcoscenici e nella vita come ritrattista e fotografa di scena.

Partecipa a tutte le edizioni del CliCiak, il concorso nazionale riservato ai fotografi di scena.

 

Ha lavorato principalmente in grande formato con Linhof Technika 4x5.

Ebbe l’audacia di presentare un progetto alla Polaroid per poter utilizzare la Giant Camera, di cui sono presenti nel mondo solo 5 esemplari, fotografando per sei anni oltre 280 personaggi. La Giant Camera, per intenderci, realizza scatti unici 50x60 su supporto Polaroid a sviluppo immediato.

 

Ha pubblicato i libri fotografici:  44+1, AutoRitratti – fotografia e street art gioco a due (Vallecchi 2009,introduzione di Dario Fo e testo critico di Roberto Mutti); Facce da leggere – 282 ritratti di scrittori(Rizzoli 2010, prefazione di Sandro Veronesi), Zelig – 25 anni di risate (Mondadori 2012).

 

Tutto il resto lo si può conoscere sul suo sito: www.marinaalessi.com

 

+D1 –Ritratti corali

Più di uno, più di una. Sono principalmente ritratti di gruppo in bianconero realizzati con reflex digitale. Un lavoro iniziato nel 2019 come residenza d’artista presso il MACRO e, successivamente, implementato da nuove immagini. Una bella avventura fatta non solo di abilità professionale ma di passione per la gente da ritrarre perché senza l’entusiasmo di voler “leggere” le persone, conoscendole attraverso i propri occhi e cuore, senza sovrastrutture e pregiudizi, i risultati sarebbero asettici. O unilaterali. Perché, come scrisse Roland Barthes in Nota sulla fotografia:

 

“Quattro immaginari vi s’incontrano, vi si affrontano, vi si deformano. Davanti all’obbiettivo, io sono contemporaneamente: quello che io credo di essere, quello che vorrei si creda io sia, quello che il fotografo crede io sia, e quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte”

 

Con il solo punto di vista del fotografo non è possibile la danza condivisa del ritratto fotografico. O almeno, non quello che dovrebbe apparire con quella spontaneità tipica di una convivialità dove le espressioni degli ospiti del banchetto sono serene, rilassate, sorridenti, paghe. Dalle immagini di Marina Alessi si intuisce che il suo lavoro la diverte. E, volendo continuare il paragone con una tavolata, Alessi sembra essere la perfetta padrona di casa che riesce a mettere a proprio agio anche invitati sconosciuti, creare l’atmosfera giusta della festa (quella del set) e condire con sapienza le proprie portate: i giusti tempi per sistemare con adeguate indicazioni le pose dei soggetti da ritrarre, tranquillizzarli e decidere il momento dello scatto. E per i ritratti di gruppo, è un po’ come quando a tavola percepisci all’istante che quello più in disparte vorrebbe gli si passasse la saliera che subito gli fai arrivare. Sorprendendolo. Tutti tenuti a vista, perché tutti devono star bene.

Se non si è contenti di ritrarre persone, se non si ha un buon rapporto con se stessi, se il proprio volto non è sereno e sorridente come quello di Marina Alessi, i soggetti che sono davanti all’obiettivo rifletterebbero inevitabilmente tutt’altre espressioni.

 

In +D1 presso la Galleria Gallerati, vi sono esposti ritratti di Daniele Di Gennaro, Luca Briasco, Umberto Ambrosoli, Elisa Greco, Amanda Sandrelli, Serena Iansiti, Emiliano Ponzi, Stefano Cipolla, Chicco Testa, Marco Tardelli, Mario Tronco con tre musicisti dell’Orchestra di piazza Vittorio, e Sonia (Zhou Fenxia) con la sua famiglia. Ed altri ancora. Immagini tratte tra tante da una selezione casuale.

 

“Ho sempre fotografato persone: mi piace la complicità che si crea quando le ritraggo e questa maniera di entrare in punta di piedi nel sentimento, nel legame. Soprattutto quando si tratta di ritratti di gruppo – famiglie con figli – ragiono molto in libertà. Non c’è la finzione della messa in posa. Anche per questo i miei ritratti rimangono classici, non di maniera: ritratti di cuore”

 

Ecco, ritratti affettivi. Affezionarsi alle persone che siritraggono. Con tutte le loro emozioni, stati d’animo sfuggenti, sentendoli vicini attraverso quel processo di empatia alchimistica tipica di un collaudato ritrattista.

Grazie a quella tensione e attenzione che la perfetta padrona di casa riesce a creare: Marina Alessi.

 

 

 

MarinaAlessi

+D1 –Ritratti corali

A cura di Manuela De Leonardis

Galleria Gallerati  (Via Apuania, 55 – Roma)

 

Inaugurazione giovedì 14 ottobre 2021, ore 19.00-22.00

Fino a venerdì 12 novembre 2021 (ingresso libero)

Orario: dal lunedì al venerdì: ore 17.00-19.00 / sabato, domenica e fuori orario: su appuntamento

Secondo le disposizioni in vigore, ingressi contingentati e consentiti soltanto con opportuni dispositivi di protezione individuale


Ritratti in galleria su prenotazione

Ufficio stampa: Galleria Gallerati, ufficiostampa@galleriagallerati.it

Informazioni: info@galleriagallerati.it, www.galleriagallerati.it,  www.marinaalessi.com

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