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29.12.2021 # 5865
Jacquie Maria Wessels espone al PAN Garage Stills, le nature morte fiamminghe delle officine per auto

Jacquie Maria Wessels espone al PAN Garage Stills, le nature morte fiamminghe delle officine per auto

Luoghi destinati a scomparire, l’artista ne immortala l’essenza restituendoci fotografie di still life site specific

di Marco Maraviglia


Jacquie Maria Wessels: Breve bio

Jacquie Maria Wessels è nata a Vlaardingen, nei Paesi Bassi, e attualmente vive e lavora ad Amsterdam. Inizia la sua carriera fotografica nel 1981 a Bruxelles. Successivamente si trasferisce ad Amsterdam dove studia alla Gerrit Rietveld Academy tra il 1985 e il 1990 nel dipartimento di fotografia e disegno. Durante i suoi studi svolge un programma di scambio presso la Quicksilver Place Academy of Arts di Londra, incentrato sulla pittura/disegno. Alla fine la fotografia si è rivelata il mezzo preferito da Wessels per esprimersi.


Abstract


La prima lezione di guida me la fece un amico che mi spiegò quanto fosse per lui indispensabile immaginare che guidare è come compiere un atto sessuale. Dimmi come guidi e ti dirò come sei a letto, si potrebbe sintetizzare. Se usi male l’auto, la tendi a guastare e ti ritroverai più spesso in un’officina per farla riparare.

Le officine meccaniche come ne troviamo oggi tenderanno a scomparire. Le auto sono sempre più computerizzate e nelle officine spariranno man mano anche chiavi inglesi e bullonatrici. E non esisteranno più i veri medici dell’auto, quelli vecchia maniera che, prima di farti un preventivo, entrano nella tua auto per provarla in una distanza di 500 metri e, a seconda dei suoni e delle vibrazioni, ti fanno diagnosi e terapia. Quel che tu credi sia un ammasso di metallo senza vita, per un meccanico è un essere vivente.


L’essenza delle officine meccaniche


Officine come ospedali di automobili. Luoghi scarsamente illuminati al neon in cui si ascolta la concentrazione dei medici di automobili. Odori di cocktail di olio, carburante, copertoni, grasso, ferodo, sudore e caffè. Panelli attrezzati con cacciaviti e altri oggetti non identificati, compressori, carrelli di metallo, banchi da lavoro con morse e tornio, elevatori. I suoni e rumori di un’officina meccanica sono un concerto sinfonico per gli appassionati. Corredato da calendari di pin up del XXI secolo e santini. Sacro e profano che convivono sulle pareti difficilmente rimesse a nuovo da qualche strato di pittura. Perché non c’è tempo per farlo: il papà di quell’auto ha urgente bisogno di riaverla per un viaggio di piacere o di lavoro.

Ma tutta questa magia che avvolge un’officina scomparirà. Le auto escono dalle fabbriche sempre più computerizzate e non ci sarà più bisogno dei meccanici “a orecchio” e sensibili alle vibrazioni. I computer di bordo e le strumentazioni tecno-digitali delle auto-officine sostituiranno l’esperienza dell’uomo e l’obsolescenza programmata porterà probabilmente a rendere irreparabili o economicamente non conveniente riparare le auto che avranno una vita media di 3-4 anni. 


Garage Stills


Jacquie Maria Wessels da alcuni anni ha intrapreso la sua ricerca Garage Stills per immortalare queste atmosfere in via di estinzione che normalmente sfuggono all’occhio di chi è costretto a portare la propria auto in riparazione. Probabilmente sfuggono anche agli stessi meccanici che vivono 8-10 ore al giorno nel proprio ambiente di lavoro.

Wessels realizza le sue nature morte anche riassemblando, disponendo in maniera decontestualizzata gli oggetti che catturano la sua attenzione, rendendo le inquadrature più pittoriche e nelle quali aleggia la presenza umana che mai compare in esse, trattandosi appunto di still life site specific.

E lo fa lavorando su pellicola a medio formato, per coerenza con il suo concetto di lotta contro la scomparsa della memoria umana. Perché i pixel non sono che polvere elettronica soggetta al rischio di disperdersi in tempi più brevi, mentre l’analogico è un’altra storia.


Al PAN – Palazzo delle Arti di Napoli sono quindi esposte circa trenta opere di Wessels, fotografie realizzate in Olanda, Sri Lanka, Suriname, Istanbul, Marrakech, Cambogia, Russia, Giappone, Cuba, Belgio, ed è interessante scoprire la presenza o meno di analogie dello stesso ambiente-soggetto ma ripreso in luoghi culturalmente diversi.


Le sue fotografie si equiparano a quadri astratti, a metà tra mondo reale ed immaginario, un felice connubio tra realtà ed astrazione, momento presente e memoria; a cavallo tra il particolare dell’oggetto e l’universale della storia; tra pittura astratta e fotografia; tra visione poetica ed indagine antropologica, tra osservazione e rivelazione, e si presentano come dispositivi della psicologia della società meccanica che sta inesorabilmente scomparendo.

- Marina Guida



Nota dal comunicato stampa

In mostra anche alcuni lavori di due serie fotografiche precedenti, “Cityscapes” e la nuova serie “Fringe Nature”. Le opere di Jacquie Maria Wessels sono state esposte in tutto il mondo e fanno parte di varie collezioni private e museali, tra i quali: Rijksmuseum di Amsterdam (Paesi Bassi), al Huis Marseille- Museo della fotografia di Amsterdam (Paesi Bassi) e il Surinaams Museo in Paramaribo (Suriname).





GARAGE STILLS di Jacquie Maria Wessels

a cura di Marina Guida

Promosso da Assessorato alla Cultura del Comune di Napoli

PAN | Palazzo delle Arti di Napoli 

Dal 18 dicembre 2021 al 13 gennaio 2022

Tutti i giorni: dalle ore 10:30 alle ore 18:00

Domenica: dalle ore 10:30 alle ore 13:30

Martedì: giorno di chiusura

Festività nazionali (25, 26 dicembre; 1 e 6 gennaio): chiuso al pubblico

https://www.jacquiemariawessels.nl/ 

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13.04.2022 # 6019
Jacquie Maria Wessels espone al PAN Garage Stills, le nature morte fiamminghe delle officine per auto

Fotografia moderna 1900-1940. A Torino la collezione Thomas Walther del MoMA di New York

Il CAMERA - Centro Italiano per la Fotografia di Torino, ospita un’eccezionale mostra fotografica che raccoglie oltre 230 opere fotografiche di 121 autori della prima metà del XX secolo

di Marco Maraviglia

Fu un periodo, quello della prima metà del XX secolo, con fermenti artistici che determinarono un nuovo corso delle arti figurative. Dadaismo, Surrealismo, il Costruttivismo russo, il Futurismo italiano, il Bauhaus furono un vero e proprio punto di rottura con i canoni del passato aprendo a nuove ricerche visive. Tra le più originali degli ultimi 100 anni. Tutti furono movimenti che ribaltarono vecchi concetti riguardo il modo di concepire il vedere. E quindi il modo di pensare. Già dal 1913 un punto di partenza del ribaltamento del pensiero fu la pratica del Ready-Made duchampiano: la defunzionalizzazione originaria di oggetti, come un orinatoio, rifunzionalizzandoli in opere d’arte.


Si proveniva dalla Belle Époque, un periodo splendido di pace e progresso tecnico-scientifico. Le connessioni tra gli intellettuali erano più rapide e frequenti grazie alle prime auto e all’infoltirsi delle reti ferroviarie che consentivano di viaggiare più facilmente. I giornali proliferavano. I caffè letterari erano punti di riferimento di artisti di ogni ramo e cifra che si incontravano condividendo notizie, idee, opinioni, ipotesi. Qualcuno si intratteneva giocando a cadaveri squisiti. E il pensiero volava a velocità supersonica.


A cavallo delle due guerre mondiali anche la fotografia, grazie all’innovazione tecnologica che iniziò a produrre pellicole più sensibili e fotocamere più leggere, versatili e meno ingombranti, come la Leica uscita nel 1925, seguì questo processo di cambiamento. Un cambiamento che portò inoltre a sperimentazioni come collages, doppie esposizioni, immagini cameraless tipo i rayogrami e fotomontaggi che raccontano una nuova libertà di intendere e usare la fotografia. 

Quel fermento creativo iniziò in Europa subito dopo la Prima Guerra Mondiale per arrivare poi a New York, dove presero rifugio artisti e intellettuali in fuga dalle dittature.


Con la collezione di Thomas Walther, ex giudice conosciuto come "l'ultimo dei cacciatori di nazisti", si deduce un bisogno storico di recuperare e preservare parte di quella cultura artistica fotografica nata in quel periodo travagliato da libri bruciati, opere d’arte sequestrate con le quali si tenne anche la mostra di Arte degenerata nel 1937.

Non sappiamo per certo se nel bottino dei nazisti delle 4.800 opere rubate e ancora conservate nei depositi del Governo tedesco, in attesa di rilevare gli eredi, vi siano anche fotografie di quel periodo.

Fatto sta che la più grande opera della collezione di Thomas Walther sarebbe da considerare Walther stesso.

Ogni autore delle fotografie della collezione, avendo esercitato la propria attività a cavallo delle due guerre, ha vissuto sulla propria pelle momenti tormentati. Chi perché ebreo, chi oggetto di stupro, chi perché considerato eversivo o una spia, chi esiliato ecc., dietro ogni fotografia c’è la storia personale del suo autore interconnessa talvolta con alcuni degli altri autori o comunque con i fatti socio-politico-culturali dell’intero contesto.


È la particolarità di questi decenni a spingere il collezionista Thomas Walther a raccogliere, tra il 1977 e il 1997, le migliori opere fotografiche prodotte in quegli anni riunendole in una collezione unica al mondo, acquisita poi dal MoMA nel 2001 e nel 2017.


Accanto ad immagini iconiche di fotografi americani come Alfred Stieglitz, Edward Steichen, Paul Strand, Walker Evans o Edward Weston e europei come Karl Blossfeldt, Brassaï, Henri Cartier-Bresson, André Kertész e August Sander, la collezione Walther valorizza il ruolo centrale delle donne nella prima fotografia moderna, con opere di Berenice Abbott, Marianne Breslauer, Claude Cahun, Lore Feininger, Florence Henri, Irene Hoffmann, Lotte Jocobi, Lee Miller, Tina Modotti, Germaine Krull, Lucia Moholy, Leni Riefenstahl e molte altre. 

Oltre ai capolavori della fotografia del Bauhaus (László Moholy-Nagy, Iwao Yamawaki), del costruttivismo (El Lissitzky, Aleksandr Rodčenko, Gustav Klutsis), del surrealismo (Man Ray, Maurice Tabard, Raoul Ubac) troviamo anche le sperimentazioni futuriste di Anton Giulio Bragaglia e le composizioni astratte di Luigi Veronesi, due fra gli italiani presenti in mostra insieme a Wanda Wulz e Tina Modotti.


La mostra, leggendo i nove testi ricevuti dall’ufficio stampa, è stata curata nei minimi dettagli secondo percorsi tematici e con un allestimento che comprende anche delle teche nelle quali sono esposte alcune prime edizioni di volumi e riviste, essenziali per la narrazione della storia della fotografia di quegli anni. 


“Anche la scelta della palette di colori della mostra è nata a partire dallo studio di vari prodotti grafici ed editoriali del periodo, trasformando l’esperienza di visita in un’immersione a 360° nello spirito di quest’epoca straordinaria.”


Implementata inoltre da incontri, corsi e workshop, è destinata a essere un momento storico nello scenario delle mostre fotografiche in Italia.

 

 

 

 

Capolavori della fotografia moderna 1900-1940.

La collezione Thomas Walther

del Museum of Modern Art, New York

 

Dal 3 marzo al 26 giugno

 

CAMERA - Centro Italiano per la Fotografia

Via delle Rosine 18, 10123 - Torino www.camera.to | camera@camera.to

 

Orari di apertura (Ultimo ingresso, 30 minuti prima della chiusura)

Lunedì 11.00 - 19.00

Martedì Chiuso


Mercoledì 11.00 - 19.00

Giovedì 11.00 - 21.00

Venerdì 11.00 - 19.00

Sabato 11.00 - 19.00

Domenica 11.00 - 19.00

 

Biglietti
Ingresso Intero € 12
Ingresso Ridotto € 8, fino a 26 anni, oltre 70 anni


© Kate-Steinitz-Backstroke-1930

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05.04.2022 # 5983
Jacquie Maria Wessels espone al PAN Garage Stills, le nature morte fiamminghe delle officine per auto

Visibilità dei fotografi emergenti e cacciatori di fotografi

Alcuni suggerimenti e opportunità per i giovani fotografi che vogliono farsi conoscere

di Marco Maraviglia

Cercasi visibilità: per gloria o per lavorare?

Uno dei principali problemi dei fotografi emergenti è quello di farsi conoscere. Non tanto per avere gloria attraverso la cosiddetta “visibilità”, ma per iniziare la loro lunga, dura, faticosa carriera professionale.

La visibilità è una roba che si può raggiungere abbastanza facilmente spammando i gruppi di fotografia con le proprie foto, caricando immagini sul proprio profilo Instagram, taggandole, hashtaggandole, mettendo like a più non posso alle foto dei profili di gallerie d’arte, editori, studi di comunicazione sperando di essere notati. Ma improvvisandosi social media manager di se stessi porta in gran parte a scarsi risultati di feedback rispetto al dispendio di energie.

C’è chi usa la posta elettronica, WhatsApp, Telegram, blog, sito WEB per promuoversi ma anche per queste cose occorrerebbe avere le conoscenze giuste dei fondamenti del marketing.

Per intraprendere la carriera di fotografo professionista serve la divulgazione online del proprio lavoro ma se questo possiede una certa potenza creativa e qualitativa.

La visibilità dovrebbe essere supportata essenzialmente da un portfolio, con immagini professionali, da presentare direttamente ai potenziali clienti: editori, agenzie di comunicazione, aziende, gallerie d’arte.

 

Qualche nota riguardo alcuni strumenti utili alla visibilità dei propri lavori:

 

Il sito WEB

L’ideale sarebbe quello di avere un sito WEB come vetrina. Anche se non si ha uno storico curriculare. Anche se non si possiede ancora una P. IVA. La legge non lo vieta.

Un buon sito dovrebbe essere essenziale, intuitivo, avere un menu di facile comprensione, con sezioni tematiche, con un minimo di biografia e possibilità di poter far interagire i naviganti lasciando aperto il form per i commenti, se vi è anche una sezione destinata al blog.

Esistono piattaforme che offrono gratuitamente spazio per caricare i propri album fotografici ma bisogna ben valutare i pro e contro.

 

Il blog

Il blog è un’altra opportunità per dare visibilità al proprio percorso visivo raccontandolo. Non è sempre vero che le fotografie non debbano essere supportate da parole.

Non occorre essere grandi scrittori per scrivere testi a corredo delle proprie immagini. Va bene essere sintetici. L’importante è evitare strafalcioni grammaticali e ortografici.

 

La pagina Facebook

È un’opportunità gratuita che però non porta molte visualizzazioni se non si hanno almeno dieci-cinquantamila follower. Ma consente, quando non si ha un sito WEB, di avere i link di album fotografici tematici da inviare all’occorrenza a chi riteniamo opportuno.

 

Telegram e WhatsApp

Sono strumenti da non trascurare.

Negli ultimi anni i messaggi di posta elettronica sono letti dai destinatari sempre meno, causa loro eccesso.

Via WhatsApp è possibile annunciare iniziative relative a mostre o altro genere di eventi ma possiamo messaggiare solo se provvisti del numero di telefono di chi vogliamo informare. E poi non tutti gradiscono questo genere di messaggi considerati a volte spam.

Possedere invece un canale Telegram al quale invitare i potenziali interessati, significa segmentare un pubblico veramente interessato alle iniziative di cui sopra.

 

Mostre, fiere, concorsi fotografici

Riguardo le mostre fotografiche non contano solo il lavoro esposto, l’allestimento, il catalogo, ma il pubblico che dovrebbe visitare una determinata mostra.

Premi e concorsi fotografici possono essere un altro trampolino di lancio, specie quelli internazionali. Analogamente vale per le fiere e i festival di fotografia ma occorre spesso un livello di professionalità già abbastanza buono per parteciparvi. Per non fare un buco nell’acqua.

 

I cacciatori di fotografi

Insomma, non bisognerebbe puntare alla casualità nel promuoversi. Ma un fotografo emergente potrebbe iniziare a sperimentare le varie modalità sopra descritte iniziando a postare qualche foto u Facebook nei gruppi dedicati alla fotografia. Se non altro per iniziare a confrontarsi.

L’esposizione pubblica dei propri lavori potrebbe essere intercettata “da cacciatori di fotografi”. O semplici acquirenti privati di immagini, se si tratta di foto che meriterebbero di essere appese a una parete di un ufficio o di un appartamento.

Talent scout della fotografia come picture editor, galleristi, editori, art director, titolari di aziende, potrebbero individuare qualche giovane promessa da contattare.

 

Alcune opportunità per cacciatori di fotografi

Vi sono spazi virtuali e cartacei organizzati da esperti e grandi appassionati di fotografia, che talvolta senza nulla a pretendere, divulgano il lavoro di fotografi misconosciuti e che consiglio di seguire e magari partecipare.

 

La stanza degli ospiti

Ideata e curata dal fotogiornalista e artista Giovanni Ruggiero che individua periodicamente un autore da ospitare sul suo sito: https://www.ruggierogiovanni.com/la-stanza-degli-ospiti-old/

 

Clic-He’

È una piattaforma curata da Paolo Contaldo attraverso la quale vengono lanciate delle call a tema. Le immagini dei fotografi partecipanti selezionati vengono poi impaginate in un pdf sfogliabile online.

https://www.clic-he.it/

 

Best Select

Best Select è una creatura di Vanni Pandolfi, attivo animatore sui social che intercetta fotografi, anche non professionisti, e seleziona alcuni di loro per realizzare pubblicazioni di qualità.

 

«BestSelected è un progetto che nasce di getto, dall'amore per la fotografia di qualità dalla volontà di premiare, distinguere ed evidenziare  quei fotografi amatori e professionisti disseminati nella rete ,presenti con le loro opere  nei vari social network e community di fotografia, molto spesso soffocati , confusi con e nella massa di mediocrità fotografica.»

 

Candidature per i fotografi: https://www.bestselected.it/

 

Altre opportunità: spazi cartacei, fisici e virtuali

Associazioni fotografiche, intraprendenti curatori di mostre fotografiche, gruppi di fotografia su Facebook e quant’altro, offrono numerose altre possibilità per divulgare i propri progetti fotografici e ricerche visive. Resta il fatto che conviene sempre valutare costi, energie impiegate e benefici per alcune di tali operazioni.

Una cosa è però sicura: le fotografie non si regalano indiscriminatamente a terzi per fini di lucro. Se un giornale si sostiene con la pubblicità, è giusto chiedere all’editore un equo compenso per le proprie foto pubblicate.

 

 

 

© Foto di Kaique Rocha da Pexels

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23.03.2022 # 5955
Jacquie Maria Wessels espone al PAN Garage Stills, le nature morte fiamminghe delle officine per auto

Alma Carrano… e questa è un’altra storia. Una zelig in mostra.

Tre storie fotografiche tra contaminazioni di tecniche e sperimentazioni di stili. Fotomontaggi, sandwich e “storyboard” circolari

di Marco Maraviglia

Chi è Alma Carrano

Donna della III età. Insegnante di scienze naturali ormai in pensione.

Ha sempre avuto la passione per le immagini che potessero farla sentire in quel cuscinetto di confine tra realtà e finzione. Ha un’attrazione per la sensazione di sospensione, di allontanamento dalla realtà dove le storie vanno rilette, inventate, ricostruite, dilatando le dimensioni degli spazi e della vita.

Da ragazza per soddisfare questo bisogno di essere artefice di percezioni tangenti la realtà, usava una cinepresa Super8 e solo in età adulta iniziò a fotografare.

Lesse qualcosa di Feininger per iniziare a imparare a fotografare ma fu grazie a un corso che seguì, tenuto da Augusto De Luca sul finire degli anni ’80 presso il Centro Krome, che si appassionò con entusiasmo alla composizione fotografica.

Preferisce il racconto fotografico alle immagini singole. Il racconto da costruire attraverso un’immaginazione onirica. A volte come in quei sogni in cui lo storyboard è fatto di frame emozionali, senza un inizio e una fine, ma i vari elementi comunicano comunque un concetto.

Contamina pensieri, immaginazione, parole e immagini. E realizza videopoesie come Le rose di Sarajevo, che le fa conquistare il primo posto al Premio Città di Latina 2020.

Sua è la storia e la realizzazione di Le avventure di broccoletto, un libro edito da Temperino Rosso Edizioni nel 2021. Un racconto fotografico realizzato con fotomontaggi, dove un broccoletto incontra altri ortaggi e il cui fine educativo è quello di dimostrare che la diversità e l’aggregazione è ricchezza.

Quindi Alma Carrano scrive anche sceneggiature. La sua scrittura cinematografica percorre sentieri umani dai tocchi duri, storie concrete che si intrecciano con i drammi della società reale. E vince anche dei premi nazionali come il Premio Mauro Bolognini 2014 e il Premio Città di Ascoli Piceno 2021.

Tra i premi di fotografia vince il Premio Città di Como 2018, con una recensione di Giovanni Gastel; II Trofeo Portfolio Città di Sulmona; è finalista di Autore dell’Anno 2017 FIAF Campania con il progetto “Ofelia, ieri e oggi vittima di femminicidio”.

 

E questa è un’altra storia…

È il titolo della mostra allestita all’ArtGarage di Pozzuoli fino al 24 marzo.

«È un titolo provocatorio perché so che a molti fotografi non piacciono parole come “progetto” o “storytelling”» e in realtà le storie “scritte” sulle pareti con le fotografie in mostra di Alma Carrano sono tre. Realizzate in periodi diversi e con tre stili foto-grafici diversi tra di loro.

Come una zelig nell’accezione migliore del termine dove il suo stile è il contenuto, la storia stessa del messaggio che vuole comunicare e non la fotografia di per sé.

 

Angeli caduti

Otto immagini ispirate alla tradizione giudaica del Libro di Enoch e strizzando l’occhio a Giovanni Gastel.

L’immaginazione dell’osservatore può passare dalla storia del patriarca Enoch il cui testo racconta di angeli ribelli che per punizione divina caddero sulla terra unendosi agli umani, o anche passare per Il cielo sopra Berlino o per il suo remake di La città degli angeli con Nicholas Cage.

Angeli graziati ma che decidono di tornare a contatto con i sapori della vita terrena fatti di amore e di sofferenza.

Gli angeli di Alma Carrano hanno ancora le ali. Forse perché appena giunti sulla terra. Forse contemplano e si pentono della loro evasione. Sono in limbi senza tempo. Non sappiamo se si libereranno per sempre delle loro ali. Non sappiamo se decideranno di tornare da dove sono venuti.

 

John Doe sulle vie dell’Ovest

John Doe è l’equivalente americano del nostro Tizio o Caio. Un personaggio che c’è, esiste, ma non si sa nulla di preciso della sua vita perché potrebbe essere chiunque.

John Doe nella prima fotografia è di spalle accanto a una moto. Pronto a mordersi un favoloso viaggio on the road come solo i biker possono comprenderne le emozioni a contatto con i paesaggi sconfinati del West. Con Don’t bogart that joint o l’intera colonna sonora di Easy rider che risuona nella mente.

Nove immagini in bianconero. Ispirandosi ad Ansel Adams. Un viaggio circolare nella Valle della Morte. Perché prima o poi, si ritorna. E tutto torna.



Schegge di donna

È un lavoro analogico di Alma Carrano realizzato circa venti anni fa. Si tratta di stampe dai cosiddetti sandwich: sovrapposizione di due o più diapositive nello stesso telaietto.

Schegge di donna consiste in composizioni di dettagli di sguardi femminili tratti da quadri o pagine di giornali che si sovrappongono alle foto di frammenti di foglie e fiori.

Alma Carrano con questo lavoro indaga sull’intimità della donna attraverso le espressioni dei volti di Marilyn Monroe, la Gioconda di Leonardo e altre ancora, ricercando un’affinità con la natura. La sua bellezza e inevitabile caducità la rendono “la chiave del tempo”. Un tempo che nel suo trascorrere rende la donna fata, sibilla e strega: “Fata quando nasce, maga quando ama e strega per la società e la religione”.

E, osservando queste immagini, non si riesce a non ricordare La fata Edoardo Bennato.

Ma questa… è un’altra storia.

 

 

…E questa è un’altra storia

di Alma Carrano

FOTOARTinGARAGE, rassegna coordinata da Gianni Bccari

Parco Bognar, 21 – Pozzuoli -NA

12-24 marzo

Da Lunedì a Venerdì 10,00-13,00 e 16,30-21,00
sabato 10,00 13,00 16,30-20,00
Domenica Chiuso

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15.03.2022 # 5939
Jacquie Maria Wessels espone al PAN Garage Stills, le nature morte fiamminghe delle officine per auto

Francesca Artoni. Il tempo in un attimo di ghiaccio

Fotografie di attimi di vita congelati. Wunderkammer sentimentali fatti di “perle” raccolte a KmZero

di Marco Maraviglia

Chi è Francesca Artoni

Classe 1978. Nata a Guastalla (RE).

È perito chimico, lavora in ambito ospedaliero in un reparto operatorio, volontaria della Protezione Civile e non ha mai fatto studi artistici ma in età più matura e in pochissimi anni, è entrata nella carreggiata della fotografia artistica. Con risultati che non avrebbero deluso lei per prima visto che ha sempre coltivato la sua vena creativa dipingendo, disegnando o ritrasformando oggetti riportandoli a vita nuova.

Pur essendo una nativa digitale appartenente alla grande famiglia dei Millennials, appare come una donna d’altri tempi. Nata a contatto con la campagna e cresciuta nell’azienda vinicola di famiglia, la sua personalità sembra uscire da una fiaba dei fratelli Grimm.

Colleziona quelle che lei definisce “perle”. Tutto ciò che possa ricordarle attimi di vita. Suoi o quelli di altri. Le raccoglie e, attraverso processi di empatia e contaminazioni di tecniche artistiche che vanno dal collage al congelamento, passando per ruggine, ritagli di idee e quant’altro, le racconta in poesie visive.

Nel 2012 il marito le regala la prima fotocamera e inizia a frequentare alcuni incontri di fotografia. Dopo niente è stato più lo stesso.

 

Conservare (abstract)

In un mondo in cui tutto scorre sul filo della corsa al consumo, dove qualcosa che si rompe o si guasta finisce per lo più in discarica perché scompaiono gli “aggiustatori”; la produzione in serie rischia di non far più distinguere il lavoro esclusivo e certosino dell’artigiano; la sovrapproduzione di fotografie che non vengono stampate  facendo disperdere nell’ambiente momenti di riferimento della vita e valori umani rendendo anaffettive le persone, c’è chi rema controcorrente.

Qualcuno conserva ancora le vecchie cartoline ricevute dagli amici o le lettere d’amore dell’era pre-email. Qualcuno possiede i barattoli o le scatole dei ricordi in cui sono custoditi il primo dentino perso, una noce a tre spicchi, una piccola saponetta rubata in un albergo ancora nella sua confezione originale, un sassolino a forma di cuore raccolto su una spiaggia proprio durante un incontro sentimentale o anche una levetta di una lattina di bevanda vintage che fu la prima fede di fidanzamento.

Si tratta di una sorta di disposofobia positiva, la selezione di oggetti fatta non in maniera compulsiva ma legata a momenti particolari della propria vita. Wunderkammer sentimentali. Per accarezzare la vita del passato in un processo psico-emotivo che ci lega alla bellezza del presente. Amando il già vissuto.

Ma a chi saranno destinati questi oggetti senza racconti scritti che ne descrivono i loro attimi, del perché sono lì, conservati accuratamente anche se giù in cantina?

Forse chi li ritroverà durante gli sfratti di vecchie case senza più parenti, coglierà la magia contenuta in essi. Un’energia percepibile da qualche sensitivo o da chi ha a cuore il rispetto della memoria. E i mercatini delle pulci sono grandi serbatoi di sentimenti andati. Lì dove la memoria ha l’opportunità di percorrere altre vi(t)e.

Come capsule del tempo destinate a quel che resterà di un’umanità estinta o agli alieni di passaggio su questo pianeta.

 

Lo spacciatore di vecchie foto

Francesca Artoni cavalca l’onda dei ricordi. Non soltanto quelli suoi.

Per lei conservare oggetti nasce dalla necessità di catturare momenti che possono sembrare banali ma che in realtà sono sintesi del suo modo di “aver cara la vita”.

E questo può avvenire anche attraverso la post-fotografia: il recupero di foto vecchie di famiglia attraverso una reinterpretazione che non ne intacchi il ricordo, ma lo congela.

Francesca Artoni ha il suo pusher di fiducia. Uno dei tanti svuota cantine che hanno il triste compito di rimuovere ciò che è stato per tanti anni serbatoio di ricordi di famiglia e smistarlo tra mercatini, antiquari, discarica. Da lui Francesca riceve delle foto che lei continua a preservare.

Qualcuna di queste immagini diventa per lei oggetto di Criogenia.



Criogenia

Criogenia è il progetto di Francesca Artoni di cui sono esposte alcune immagini presso Movimento Aperto a Napoli.

 

  «Criogenia è nata da una mia riflessione sul tempo. È un pensiero che unisce molti miei lavori. Ho tratto ispirazione dal tema capolinea, per riflettere sulla ciclicità del tempo. Il tempo ciclico, o concezione circolare, vede l'universo come un continuo prodursi e disfarsi, nella sequenza eterna ed infinita della vita.»

 

Vecchie foto di famiglia, fiori e insetti del suo giardino, Francesca li congela immaginando per essi un’ibernazione che fissi per sempre la loro essenza. La paura forse di perdere attimi, sia pur minimalisti, che fanno parte comunque dell’armonia ciclica della vita.

Le immagini di Criogenia risvegliano nella mente i profumi che ci hanno donato i fiori, il battito di ali degli insetti, le emozioni di attimi di gioia familiare.

Si tratta di un processo delicato e intimo dell’autrice che non si limita al semplice scatto fotografico di tali oggetti. Francesca ne esorcizza la loro caducità congelandoli, come volerli soccorrere trasferendoli in una macchina del tempo per salvarne la loro bellezza nascosta.

Immagini che traspaiono dal ghiaccio come oltre un vetro appannato di una finestra. Un gioco visivo di vedo non vedo. Immagini oniriche di un mondo realmente esistito oltre quel ghiaccio che lo preserva.

 

La mostra

Criogenia di Francesca Artoni nasce nel 2017. È un work in progress che l’autrice via via implementa con nuovi soggetti ghiacciati e poi fotografati. Nella sua ricerca tende a individuare una gamma cromatica abbastanza estesa e comunque leggera, soft, acquerellata, sfumata.

Sedici sono le immagini esposte su un totale di oltre quaranta foto al momento realizzate.

Una parte è dedicata al mondo vegetale realizzata con fiori del proprio giardino, un’altra parte è dedicata al mondo animale con piccoli insetti. La terza sezione è dedicata all’umano in cui sono “glaciati” oggetti e foto di famiglia.

Le stampe fineart sono tutte quadrate in formati variabili a partire dal 25x25 e incorniciate in 50x50.

Immagini tutte realizzate a Km0: lavori che si sviluppano tra il giardino e gli interni della sua casa di campagna.

Tra i profumi della vigna, il legno di un camino acceso, collage e ricordi rinchiusi in scatole.

 

 

Per chi volesse addentrarsi maggiormente nel senso nel lavoro di Francesca Artoni si suggerisce la visione di Ogni cosa è illuminata di Liev Schreiber e Il favoloso mondo di Amelie di Jean-Pierre Jeunet.

 

 

Il tempo in un attimo di ghiaccio

di Francesca Artoni

a cura di Giovanni Ruggiero

MOVIMENTO APERTO di Napoli, dell’artista Ilia Tufano

Via Duomo, 290/C

dal 4 al 30 marzo 2022

il lunedì e il martedì ore 17-19, il giovedì ore 10.30-12.30

e su appuntamento chiamando i numeri 3332229274 - 3356440700

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09.03.2022 # 5935
Jacquie Maria Wessels espone al PAN Garage Stills, le nature morte fiamminghe delle officine per auto

“Photo chi scatta”, un ciclo di appuntamenti televisivi sulla fotografia raccontata da alcuni protagonisti

Enrico Scaglia è l’autore della trasmissione televisiva in onda su Byoblu la tv dei cittadini. Per una fotografia consapevole

di Marco Maraviglia

Chi è Enrico Scaglia

Classe 1965. Nato a Vittorio Veneto (TV) e vive a Trieste.

Nel 1974 riceve in regalo dalla zia una Comet Bencini che lo inchioderà per sempre alla passione per la fotografia.

Gli si apre un mondo, non si stacca più da quella fotocamera e il parroco della chiesa di quartiere gli concede una sala dove allestire una camera oscura per sviluppare i suoi rullini e stampare da sé le prime foto in bianconero.

A 15 anni, grazie all’aiuto dei genitori, parte da solo per Torino dove studia fotografia al Bodoni.

Inizia a girare il mondo fotografando bambini. Gli anni passano e per necessità professionali apre la P.IVA.

Conosciuto come “il fotografo dei bambini” realizza campagne pubblicitarie per diversi settori merceologici a loro destinati.

Socio dal ’92 dell’Associazione Nazionale Fotografi Professionisti, ne viene coinvolto nel Direttivo.

Si occupa da alcuni anni di formazione a Trieste e lì acquisisce uno spazio destinandolo anche a galleria per mostre fotografiche.

 

Photo chi scatta

Photo chi scatta è una trasmissione di 30’ dedicata alla fotografia ideata da Enrico Scaglia per Byoblu, la tv dei cittadini.

Si articola in otto puntate di altrettanti interventi di autori noti quali il fotoreporter Francesco Cito, Marta Carelli professionista della comunicazione della fotografia sui social, la fotografa ritrattista Marina Alessi, l’esperto di painting light Renato Marcialis che parlerà del suo progetto Caravaggio in cucina, l’avvocato Federico Montaldo che tratterà del diritto d’autore in fotografia, Gabriele Zani fotografo di famiglia, la storica dell'arte prof. Angela Madesani che interpreterà le immagini di Julia Margaret Cameron.

Nell’ottava puntata ci sarà una sorpresa. Un’intervista che definirla surreale sarebbe poco e dai contenuti tecnici che saranno utili a tutti gli appassionati di fotografia.

Ogni puntata è registrata in video-chiamata e non ha tagli. Consta di tre momenti: un’introduzione, poi l’intervento del fotografo supportato da brevi commenti e domande dell’autore della trasmissione durante il quale scorrono le fotografie più significative e la terza parte che si conclude con la chiosa dello stesso Scaglia che evidenzia e commenta brevemente i punti salienti dell’intervento.

Va in onda il sabato alle ore 21.00.

Seguendo la trasmissione ci si sente come stare a cena con il fotografo, con l’amico di famiglia che racconta gradevolmente la sua storia, il suo lavoro.

Dai feedback sui social, Enrico Scaglia ha riscontrato un certo gradimento anche da parte di genitori che hanno seguito la puntata con Francesco Cito insieme ai propri figli.

 

La televisione per la didattica

La tv di Stato trasmetteva programmi come Costruire è facile con il grande Bruno Munari, o Non è mai troppo tardi, corso di istruzione popolare per il recupero dell'adulto analfabeta condotto da Alberto Manzi. Giocagiò che mostrava a bambini e ragazzi anche come riciclare materiali per realizzare oggetti per la casa. Trasmissioni che non erano blindate in un canale specifico ma rientravano nel palinsesto generale della settimana. Gioco, didattica, intrattenimento e cultura erano tutti nella stessa cesta dell’unico tubo catodico che si possedeva in casa.

Poi qualcosa è cambiato. Si è andata creando man mano una segmentazione dell’offerta televisiva con canali dedicati ad argomenti specifici come se si trattasse di riviste specializzate di nautica o numismatica.

 

La televisione che racconta la fotografia

Figlio del baby boom, Enrico Scaglia ha evidentemente qualche reminiscenza del passato storico della televisione.

Da alcuni anni dedica il suo tempo al trasferimento di conoscenze della fotografia. Una generosità certo non rara per quei professionisti che si avvicinano alla sessantina, ma quando ci metti anche la condivisione di conoscenze attinte da altri serbatoi di professionisti, mettendoli in connessione con il pubblico, potremmo dire che si sta compiendo un passo che va un po’ più oltre di un certo individualismo. Il trasferimento delle conoscenze argina il buio della fotografia.

E allora Enrico, forte del suo senso associazionistico, propone alla redazione di Byoblu la tv dei cittadini un programma di fotografia.

 

La fotografia è un linguaggio universale ma la sua massificazione sta facendo perdere quella che è la sua grammatica per comunicare attraverso essa. L’idea della trasmissione è quella di dare degli elementi per imparare a come approcciarsi alla fotografia. In ogni puntata si mette da parte qualcosa che possa essere utile per un discorso di costruzione di consapevolezza fotografica.

 


Per la tv dei cittadini è una novità. Byoblu ha sempre fatto programmi di approfondimento relativi a notizie di attualità ma raramente, forse mai, solo prettamente culturali.

Una strategia di Byoblu per coinvolgere una nuova fetta di pubblico?

Questo non ci interessa. L’importante è che si parli di fotografia. Specialmente perché ce n’è bisogno nell’immenso vuoto dello scenario fotografico dell’offerta televisiva.

Nell’immensa ridondanza di fotografie che non comunicano.

Photo chi scatta, un approccio alla fotografia per tutti per comprenderne la sua (de)codifica.

 

 

 

Photo chi scatta

Autore: Enrico Scaglia

Dove: Byoblu, la tv dei cittadini

Canale tv: 262

Quando: sabato ore 21.00

 

La prima puntata è online su Byoblu

 

Hanno collaborato alla prima puntata:

Francesco Cito

Caterina Puhali

Lisa Dri

Tania Piccin


credit della foto di copertina: © 2022 Lisa Dri (resp.le della fotografia del programma) Enrico Scaglia per Byoblu - frame tratto dalla prima puntata con Francesco Cito

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15.02.2022 # 5913
Jacquie Maria Wessels espone al PAN Garage Stills, le nature morte fiamminghe delle officine per auto

Fotografare letteralmente. La scrittura al servizio della fotografia

Un saggio di Simona Guerra con preziosi consigli che aiutano a potenziare la comunicazione delle proprie fotografie

di Marco Maraviglia

Chi è Simona Guerra

Laurea al DAMS di Bologna. Ha studiato storia della fotografia con Italo Zannier. Si occupa da oltre vent’anni di fotografia e ha lavorato per importanti archivi fotografici tra cui Archivio Fratelli Alinari, Archivio Ist. Antoniano (Zecchino d’Oro), Archivio IlSole24Ore Edagricole a Bologna.

Nel 2000 cura il riordino del patrimonio fotografico di Mario Giacomelli in occasione di una retrospettiva tenutasi a Roma al Palazzo delle Esposizioni. Da questa esperienza nasce il libro Mario Giacomelli. La mia vita intera, edito per Bruno Mondadori nel 2008 e che riceve importanti riconoscimenti.

Il festival Giornate di Fotografia curato con Lisa Calabrese, e altre attività come ideazione e organizzazione di workshop, mostre, saggi di fotografia e la gestione come curatrice unica dello Spazio Piktart per la fotografia, a Senigallia, non sono che alcune attività svolte da Simona Guerra che fanno di lei un’eclettica animatrice culturale dello scenario nazionale.

 

Parole, parole, parole…
A cosa serve la fotografia? A comunicare un’emozione? A documentare un evento? A essere testimonianza di un fatto? A comunicare per immagini quando le parole non bastano? Ma una fotografia può non essere accompagnata da parole?

La fotografia da sola a volte non basta. Occorrono parole che la contestualizzino. Ma si può anche incappare in un rischio quando una fotografia può essere decontestualizzata, riproposta in un contesto diverso da quello per cui è stata scattata per creare in buona o cattiva fede, una fake. Se accompagnata da parole che ne depistano il senso o il contenuto del momento in cui è stata scattata.

E può essere anche manipolata per “ristrutturare” un fatto. Come la rimozione dei dissidenti politici da una foto di gruppo. Lenin docet. O, ad esempio, proponendo una sola fotografia che mostri una spiaggia devastata da sacchetti di immondizia come lasciati lì per caso, oscurando le altre che comprovano invece che si tratta di un’operazione di ecologisti che stanno ripulendo quella spiaggia.

Le foto che le agenzie stampa inviavano via telefoto nelle redazioni dei giornali fino alla metà degli anni ’90, contenevano riferimenti didascalici. Parole. Le foto stampate ai sali d’argento che i fotoreporter consegnavano ai quotidiani, riportavano sul retro oltre che il proprio nome, anche la data e indicazioni del soggetto presente nella foto. Parole. Anche sui telaietti delle diapositive c’erano descrizioni didascaliche. Parole. E oggi, quando mandiamo immagini fotografiche a un editore, inseriamo nelle info file un minimo di informazioni descrittive o alleghiamo un documento in Word descrivendo il servizio fotografico che proponiamo. Parole.

Senza contare poi la quantità di parole spese nei testi dei curatori di mostre fotografiche. Affinché il senso di foto concettuali, artistiche e quant’altro possa raggiungere il pubblico.

Così, giusto per non lasciare una libera interpretazione che potrebbe essere inesatta.

 

“Ho sempre pensato che la fotografia sia come una barzelletta: se la devi spiegare non è venuta bene.”

- Ansel Adams

 

Ma non può esistere una fotografia pura che non abbia bisogno di parole e senza nemmeno il nome dell’autore?

Se la fotografia riporta solo il nome dell’autore, se questo è noto, può rimandare a un’interpretazione che condiziona la visione della fotografia stessa? Un titolo quanto condiziona sull’interpretazione di un’immagine?

 

Perché scrivere se fotografo?

L’obiettivo del libro di Simona Guerra è quello di provare a capire se e come la fotografia “potrebbe essere potenziata nella sua capacità comunicativa ed espressiva grazie all’aiuto delle parole”.

Le fotografie sui giornali servono (almeno dovrebbero servire) ad attirare l’attenzione sul testo della notizia. La sequenza di lettura dovrebbe essere fotografia-titolo-sottotitolo-testo della notizia. Una sequenza che potrebbe essere anche titolo-sottotitolo- fotografia-testo della notizia. Comunque la fotografia ha la sua importanza attrattiva per condurre verso la lettura e l’approfondimento della notizia.

Ma, come dice Simona Guerra, non si tratta di una guerra tra fotografie e parole:

 

Può darsi infatti che in certi casi sia così, ma questo saggio non vuole insegnare a spiegare le proprie fotografie, né ha lo scopo di convincere ad usare testi a corredo delle immagini. Quello che si propone è di conoscere meglio l’espressione scritta al fine di arricchire il proprio lavoro sulla fotografia. Se serve, quando serve.

 

Fotografia e scrittura possono sostenersi. Insieme possono amplificare la comunicazione e una piena percezione vissuta dall’autore delle fotografie. Per trasmetterla all’osservatore.

Perché non tutti possono possedere tutti gli strumenti culturali e conoscenze per leggere qualsiasi fotografia. E non è il caso di trascurare una parte di pubblico restando su un piedistallo ma forse è meglio accompagnarlo nella comprensione. Almeno quando è indispensabile.

Dare il titolo a una foto, scrivere un testo di introduzione a un portfolio da presentare a un editore o a un gallerista, scrivere una sinossi esplicativa di un reportage fotografico per sollecitare un giornalista a farne un articolo per il giornale per cui collabora, o anche scrivere brevi ma efficaci didascalie non può che alzare l’attenzione sul materiale fotografico prodotto. Ma anche scrivere a monte per un progetto fotografico ciò che si intende fotografare, i soggetti, i concetti, aiuta a sviluppare il progetto stesso.

E magari può avvenire anche il contrario: dalle fotografie possono nascere poi storie.

 

 

“FOTOGRAFARE, LETTERALMENTE”

La scrittura al servizio della fotografia

Saggio. Progetto Piktart, 2021

Autrice: Simona Guerra

15x21 cm - 144 pagine - 14  foto - Testo: Italiano - Copertina morbida - Prezzo: € 21,00 –  www.pikta.it/piktart - dicembre 2021 - ISBN: 978-88-946728

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07.02.2022 # 5900
Jacquie Maria Wessels espone al PAN Garage Stills, le nature morte fiamminghe delle officine per auto

Alessandro Fruzzetti. La fotografia come impegno sociale

Padroni contro i valori delle donne. Un’indagine visiva sulle distorsioni dei rapporti uomo/donna

di Marco Maraviglia

Chi è Alessandro Fruzzetti

Classe 1971. Nato a Pisa e vive in provincia di Livorno. Diploma di geometra. Titolare di uno studio tecnico. Appassionato di fotografia. 

Da bambino era attratto dalle arti visive in generale, ha sempre disegnato e dipinto. Da adolescente ha iniziato a fotografare per hobby. Verso i 40 anni inizia a utilizzare la fotografia come mezzo espressivo e indagatore: su se stesso e la sua famiglia, poi volgendo lo sguardo verso la società e soprattutto sui diritti civili.


Abbiamo un problema…

XXI secolo. 21° secolo. O, se preferite, ventunesimo secolo.

Anno 2022 d.C. Abbiamo sorpassato il primo ventennio del secondo millennio ma abbiamo qualche problema. Anzi, il peggio è che ci troviamo ancora a porci il problema dell’esistenza di un problema. Uno tra i tanti. Donne e uomini. Uomini e donne. Un periodo in cui la parità dei diritti sembra risolversi con lo schwa, con un simbolino che non sai nemmeno come scriverlo dalla tastiera del PC e quando lo trovi ne abusi: ǝ ǝ ǝ ǝ ǝ ǝ ǝ ǝ ǝ ǝ ǝ ǝ ǝ ǝ ǝ ǝ ǝ ǝ ǝ ǝ. E nel frattempo, presi da un’esaltazione collettiva, sembrava che sarebbe stata eletta la prima Presidente della Repubblica donna. Come se fosse un avvento. Un miracolo. Quasi come fosse accaduto qualcosa di bizzarro. Qualcosa di anormale. Ma anormale sono i numeri annuali di femminicidio.

Anno 2022 e siamo ancora ben lontani da una normalità. Non siamo ancora PERSONE ma distinti dal genere.

Il livello culturale di un Paese sembra però non avere una relazione ben definita con l’apartheid. Il rispetto delle persone, a prescinde dal genere, non dipende dal grado di civiltà di una Nazione. Forse perché siamo fatti di ormoni, di chimiche che non hanno nulla a che fare con la ragione. Non si tratta di giustificare l’ingombrante e a volte violento peso maschile nella società, ma cercare di capire se e quando il cordone ombelicale con la cultura patriarcale, sessista, maschilista, sarà mai staccato. «Io uomo, tu donna», sembra che rimbombi ancora nelle nostre menti all’alba di tutte le transizioni declamate. Forse siamo ancora lontani, lontanissimi dalla fine dei sessi, quella del «Io Persona, tu Persona».


Quei 6X3 di chi te la dà: il (dis)valore delle donne

Alessandro Fruzzetti con Il (dis)valore delle donne sottolinea con dissenso un certo modo di fare comunicazione pubblicitaria che cavalca quanto sopra accennato. Manifesti che sembrano realizzati per rientrare nella strategia del “purché se ne parli”. 


Battute a doppio senso che ricordano la caserma o certi filmetti sexy all’italiana, sono una violenza diversa che tuttavia mortifica e inorridisce


Dal comunicato stampa:

“Fruzzetti ha raccolto questi manifesti pubblicitari e ha fotografato dodici donne affermate nel loro lavoro, che appallottolano e lacerano questi messaggi. Tra loro c’è anche la maestra della fotografia Giuliana Traverso, scomparsa un anno fa. Ne ottiene dodici immagini in cui è espresso il rifiuto in modo singolare: sulla stessa tavola pone, incollato, il manifesto stropicciato (e quindi negato) e la donna che si ribella al messaggio, appunto strappandolo, perché non sottomessa o assoggettata, come invece quel messaggio vorrebbe suggerire.”


Si tratta dell’ennesima operazione di sensibilizzazione sulla monetizzazione dell’individuo donna. Si potrebbe obiettare che, riguardo certi manifesti, si tratti di ironia, di simpatia giocosa verso la donna. Ma purtroppo non esistono strumenti che valutino a monte l’apprezzamento della goliardia da parte dell’universo femminile. Il buon senso su quali parametri si fonda? La sfera del rispetto è soggettiva? Ma se pur fosse che solo una ristretta minoranza di donne si ritenesse offesa, è civile non considerarla? Meglio mostrare, e senza headline, senza claim, solo donne belle per pubblicizzare l’intimo? E ciò non potrebbe essere un’altrettanta mancanza di rispetto nei confronti delle donne meno belle?

Abbiamo evidentemente ancora bisogno di riflettere.

Magari volgendo un occhio all’arte che sembra non sia mai stata attaccata sotto questi aspetti. Eh, sarebbe bello poter vedere un giorno i 6x3 pubblicitari che meritano, in un museo. 


Padroni, dieci assassini tra tanti

Nessun motivo giustifica un omicidio. L’essere umano ha la fortuna di essere dotato della mente: ragione e parola. Strumenti che dovrebbero servire a gestire qualsiasi tipo di relazione umana. Ma ragione e parola non funzionano sempre. Qualsiasi omicidio denota falle nel sistema-uomo decretandone il fallimento.


“Padroni”, è spietato. Violento, per certi aspetti. Tre colori: il bianco, il nero e il rosso, senza mediazione, senza indulgenza e senza accondiscendenza. Come nelle foto segnaletiche prese dentro il carcere o in questura. Se noi, gente comune, mettiamo la faccia in ogni nostra azione, perché non dovrebbero mettercela anche i Padroni, quelli che, vantando una supremazia sulle loro donne, considerate di loro proprietà, arrivano al delitto? Ecco i volti di alcuni di loro.


Dieci assassini colpevoli di femminicidi. Ritratti in bianconero sui quali Alessandro Fruzzetti ha operato incisioni, bruciature, tagli, ispirandosi alle armi del delitto utilizzate dai “padroni”. Coltello, fucile, corda, cutter… Una sagoma è lasciata in bianco, a significare che l’elenco dei “padroni” purtroppo non si arresta. Ci sono nomi e cognomi in queste immagini. Di vittime e carnefici.


Credo molto nella potenza della fotografia come mezzo espressivo e credo che possa essere molto utile come critica sociale. I miei lavori esprimono la mia presa di posizione e sono più eloquenti di ciò che potrei aggiungere con le parole.




La fotografia come impegno sociale

Di Alessandro Fruzzetti

MOVIMENTO APERTO 

Via Duomo 290/C – Piazza Filangieri

dal 4 febbraio al 25 febbraio 2022 

il lunedì e il martedì ore 17-19, il giovedì ore 10.30-12.30

e su appuntamento chiamando i numeri 3332229274 - 3356440700



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02.02.2022 # 5894
Jacquie Maria Wessels espone al PAN Garage Stills, le nature morte fiamminghe delle officine per auto

Ida Marinella Rigo e le contaminazioni sinestetiche

Al TeaCup di Milano in mostra le fotografie dell’artista fino al 22 febbraio

di Marco Maraviglia

Chi è Ida Marinella Rigo

Nata a Savona e vive a Milano.

Diplomata al Liceo Scientifico, laureata in Fisioterapia e Master in coordinamento delle professioni sanitarie, Ida Marinella Rigo attualmente si occupa principalmente di infortuni sul lavoro e malattie professionali.

Ha viaggiato molto perché consapevole che, entrare in contatto con culture diverse, non fa che allargare gli orizzonti percettivi e mentali.

Nel 2016, in seguito a un tormentato cambiamento di vita, inizia a esorcizzare una sua irrequietezza “curandosi” da autodidatta con la fotografia.

 

Tramite le immagini ho cercato di dare voce ai miei urli muti. La fotografia per me non è staticità ma movimento, mutevolezza, è l’indefinito all’interno del finito, è uno strumento malleabile volto a mostrare la “mia” verità.

 

Ha pubblicato per alcune copertine editoriali (libri e riviste) e ha esposto in diverse collettive e personali.

Pur essendo contattata da più riviste per interviste riguardo il suo lavoro e quindi consapevole della qualità della sua produzione, caratterialmente preferisce non affrontare il mondo dei galleristi per proporsi, date le sue complesse capacità relazionali.

 

Il “moto contrario” della fotografia di Ida Marinella Rigo

Tutto è in movimento. Nulla resta per sempre. Le vicissitudini della vita di Ida hanno contribuito a farle maturare una soglia di percezione sensibile in costante trasformazione. La consapevolezza di una personalità caleidoscopica che non si adatta ai flussi standard finalizzati alla ricerca di un consenso, ma si avventura in ciò che via via la sua realtà le mostra.

Tutto si mescola con una ricerca artistica che interagisce con la passione per la musica, pittura, scrittura, cinema e, quando un filone si esaurisce perché raggiunge il suo apice espressivo, Ida inizia a varcare altri spazi creativi. Senza seguire stili del momento, intraprendendo sperimentazioni più adeguate per esprimere i suoi “urli muti”.

 

Mostro la mia realtà fatta di cristallo dove sono visibili alcune mie sfaccettature, a volte luccicanti, a volte fredde, a volte kaleidoscopiche, a volte ironiche,  in schemi ossessivi e controllati che ne celano le fragilità.

 

Le contaminazioni

Ida Marinella Rigo è affascinata e influenzata da pittori e fotografi come Francis Bacon, Édouard Manet, Roberto Kusterle, Antoine d'Agata, Tim Walker, SaulLeiter. Consapevole che tutto è già stato fatto, cerca di reinventare il già visto filtrandolo attraverso il suo (in)conscio per attrazione o repulsione, intrecciando tecniche fotografiche e pittoriche, contaminando generi per affinità visive o anche concettuali.

Nascono quindi le sue contaminazioni come Reflexes, con la sovrapposizione del mondo patinato della pubblicità con il contesto urbano, frenetico o silente. Riflessi nelle vetrine dei negozi o nei vetri delle pensiline d’autobus, i poster di moda non sono più statici e inerti. Divengono «Un mondo all’interno di un altro mondo».  Quasi un infinity mirror effect dove la realtà si (con)fonde con la finzione.

Metamorphosis, altro progetto di Ida, nasce con la passione per la mitologia greca.

 

…per le implicazioni con la natura caratteriale dell’uomo raccontata attraverso simbologie ed intrecci con gli elementi naturali. A volte ti ritrovi a combattere i tuoi demoni, le tue paure, le tue ossessioni. Ho deciso di accettare ciò che sono, di dargli un nome e un volto nelle mie immagini. Così posso riconoscerli e riconoscermi.



Synaesthesia, comprende la produzione fotografica di Ida Marinella che accosta in dittici due immagini diverse che possono essere assonanti o meno, questo non conta, l’intenzione è quella di provocare un effetto sinestetico:


…due immagini con caratteristiche percettive proprie che accostate possono portare a sensazioni completamente diverse, a volte anche tattili o olfattive. Riportano a memorie e ricordi. A volte puoi ricordare il rumore del mare o il profumo di un campo fiorito. Credo però che Due fotogrammi o più, dialoghino nel momento in cui si completano senza prevaricazione: esistono l’uno in funzione dell’altro in un racconto; se uno scatto cattura l’attenzione più dell’altro vuol dire che ha carattere come immagine singola.

 

Lo spazio della mostra

La mostra è ospitata dal TeaCup di Milano, luogo per gli amanti del tè che accoglie mostre d’arte, presentazioni di libri, serate di cinema ed altro ancora.

Esporre in contesti del genere è sempre un po’ una sfida con se stessi perché in questi casi l’attenzione non è concentrata sulle opere esposte ma si confonde con altre attività svolte nel luogo stesso. Il pubblico non si sente costretto a fare formali complimenti all’artista come può accadere invece in una galleria d’arte. Lo spazio alternativo è come un filtro dove solo chi riesce a cogliere l’estro dell’artista rientra in quella fascia di attenti osservatori. Riconoscersi, intercettarsi, quasi per caso perché sono le immagini che fungono da sinapsi.

Le sinestesie di Ida Marinella Rigo intrecciano pensieri.

 

 

 

 

Synaesthesia 

Di Ida Marinella Rigo

TeaCup Tea & Art  via Caminadella, 18 Milano

Dal 22-01-2022 Al 22-02-2022

Orari 10-13. 15:19  lunedì chiuso

Contatti: TeacupMilano

Ida Marinella Rigo su Instagram: https://www.instagram.com/idamarinella/

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24.01.2022 # 5880
Jacquie Maria Wessels espone al PAN Garage Stills, le nature morte fiamminghe delle officine per auto

Sisma80, 23 novembre 19:34. Quel terremoto che è entrato nella storia italiana

A cura di Luciano Ferrara, un progetto iconografico che cerca un’ubicazione permanente per tramandare la memoria di un’esperienza collettiva

di Marco Maraviglia

Quando i fotografi di Napoli partirono la notte

Il 23 novembre 1980 quel che è stato il più grande terremoto italiano a memoria dei viventi, provocò 2914 vittime accertate e oltre 280mila sfollati.

Alle 19.34 la terra tremò per novanta secondi in tutta la Campania danneggiando parecchi comuni dell’Irpinia alcuni della Basilicata e la scossa fu avvertita forte anche nelle regioni confinanti.

Un disastro di proporzioni immani i cui strascichi sono ancora evidenti in termini urbanistici e sociali.

Le linee telefoniche si erano interrotte ma grazie ai radioamatori si stabilirono ponti di comunicazione tra i comuni, i carabinieri e la Prefettura di Avellino per comprendere l’entità dei danni e organizzare i primi soccorsi.

Il giornalista Emilio Fede della RAI fu il primo a comunicare l’accaduto al tg1.

Quella stessa sera a Napoli ci furono vari fotografi che telefonarono a Umberto Sbrescia, noto commerciante di articoli fotografici tragicamente scomparso nel 2021. Gli chiesero esplicitamente di aprire il negozio per rifornirsi di pellicole perché intenzionati a partire nella stessa notte per raggiungere l’Irpinia.

Fu un tragico episodio che sviluppò una delle più grandi documentazioni fotografiche mai realizzate fino allora.

 

Per non dimenticare

La memoria della mente non possiede milioni di terabyte per ricordare tutto ciò che si legge, ascolta, vede. Non ricorda ogni dettaglio, ogni attimo della propria vita. Le fotografie aiutano a ricordare. Le fotografie sono custodi della memoria storica degli eventi che attraversiamo e ci mettono in contatto anche con ciò che non abbiamo vissuto di persona. Con eventi del passato, del presente e anche del futuro per quelle che saranno realizzate. Anche se fatti accaduti lontani da noi. Le parole descrivono, le fotografie raccontano mostrando. A volte non c’è bisogno nemmeno di una didascalia per una foto ma solo la data in cui è stata presa.

 

Gli archivi fotografici

Gli archivi fotografici sono un enorme patrimonio storico che è invece spesso bistrattato dai circuiti culturali, documentaristici, filologici, antropologici. Le ricostruzioni storiche sono fatte fruendo principalmente di biblioteche ed emeroteche pubbliche. Gli archivi fotografici risiedono per lo più presso luoghi privati dei fotografi o di loro eredi che li gestiscono, o ubicati in contesti inaccessibili.

Anche se esiste una piattaforma dei Beni Culturali che tende ad aggregare tutti i principali archivi fotografici nazionali, ci sono città che non hanno un archivio fotografico centralizzato e Napoli è una di queste.

 

Sisma80, 23 novembre 19:34

Luciano Ferrara, noto fotogiornalista freelance napoletano ideatore di Tribunali138 officina di varie attività fotografiche, avendo un senso civico sull’importanza degli archivi fotografici, in occasione del quarantennale del sisma del 23 novembre, intraprende l’iniziativa di allestire una mostra con immagini tratte dagli archivi di una gran parte di fotografi che seguirono l’evento.

La mostra, dopo un anno di progettazione, fu finalmente inaugurata negli spazi interni del Chiostro di San Domenico Maggiore a Napoli nel febbraio 2021.

Un lungo lavoro di ricerca iconografica. Negli anni alcuni fotografi che documentarono i disastri dell’Irpinia, ma anche di Napoli, erano ormai deceduti.

 

I fotografi ormai deceduti volevo a tutti i costi che fossero presenti in questa mostra, per onorare il loro lavoro dell’epoca oltre che omaggiarli come persone. Fotografi che hanno lavorato per mesi sul territorio.

 

Il contatto con i figli, gli eredi, spulciare gli archivi insieme a loro per ritrovare le fotografie più significative e che dessero una narrativa completa di quel periodo.

Con qualche difficoltà Luciano Ferrara riuscì a recuperare materiale di Antonio Troncone, Giacomo Di Laurenzio (detto Peppino), Guglielmo Esposito, Mario Siano (fotografi della Fotosud, agenzia fotografica interna a Il Mattino), di Franco Esse (detto Franchitiello), Gaetano e Franco Castanò della Press Photo, dell’Archivio Carbone e poi ancora di Luciano D’Alessandro, Mario Riccio oltre che di chi è ancora attivo come Mimmo Jodice, Sergio Del Vecchio, Pino Guerra, Guido Giannini, Giuseppe Avallone, Gianni Fiorito, Toty Ruggieri, Annalisa Piromallo, Massimo Cacciapuoti e lo stesso Luciano Ferrara.

 

Le immagini

Le fotografie di Sisma80 raccontano anche aspetti con toni surreali di quel dramma. Un’auto che trasporta una bara sul bagagliaio, gente inerte che fissa le case crollate con grande senso di impotenza, volti di disperazione che non hanno più lacrime, sezioni di partito allestite in tenda, accampamenti in autobus pubblici o nelle carrozze di un treno, un uomo in giacca e cravatta con scarpe lucidate e seduto su una sedia tra la folla, occhiali e sigarette fissate sulle gambe di un morto che sarà trasportato su quel che resta di una porta di legno.

Immagini che lasciano intuire anche quanto si fosse trovati impreparati di fronte a un evento di tale portata.

Ma scorre paradossalmente tanta vita nelle foto di Sisma80. Ragazzini che mordono la vita giocando con un pallone o una vecchia bici, nonostante il disagio per essere stati catapultati in un’altra dimensione facendoli crescere più in fretta.

Ed è tutto scritto, anzi fotografato. Testimonianze iconografiche che fanno e faranno sorgere anche in futuro non poche domande su quel che è stato fatto, come è stato fatto, cosa si sarebbe potuto fare per salvare qualche vita in più.

 

Il futuro di Sisma80

Mi capitò di visitare alcuni musei civici di Lisbona e in ognuno di essi c’erano ampie testimonianze del terremoto che la città subì nel 1755.

La cosa che però notai di Lisbona è che, evidentemente provati da quella drammatica ESPERIENZA, tutte le nuove opere urbanistiche pubbliche erano state realizzate antisismiche e comunque con una certa robustezza strutturale.

Questa è solo un’osservazione personale da geometra che non ha quasi nulla a che fare con questo articolo.

Ma la parola “esperienza” sì.

L’esperienza è memoria. E la memoria dovrebbe servire a cercare di non ripetere gli errori del passato.

Ma questa è un’altra storia.

Luciano Ferrara vorrebbe dare un futuro a Sisma80, come un padre che si preoccupa dell’avvenire della propria bambina. Vorrebbe che Sisma80 diventasse una testimonianza permanente ubicata in uno spazio fruibile a tutti. Perché rappresenta una parte dell’anima del territorio. Perché sintesi di un’esperienza collettiva che andrebbe condivisa anche con i posteri.

Il progetto consisterebbe anche nell’implementare il lavoro con tutto ciò che è venuto dopo il 23 novembre ’80: la ricostruzione. Cosa è cambiato negli ultimi 40 anni. Come si sono riadattate le famiglie sfollate. Quali riferimenti urbanistici sono rimasti: piazze, campanili, strade. L’impatto psicologico, sociale e culturale sui terremotati. E il materiale iconografico c’è. La strada da percorrere c’è.

 

 

Il libro

Sisma80 è anche libro, anzi, “il testimone” e Luciano Ferrara ha voluto che le oltre 100 fotografie, venissero stampate nel volume con gli stessi toni a basso contrasto della stampa dei quotidiani per rispettarne i grigi coi quali si era abituati a vederle.

All’interno vi sono contributi storico-sociali di giornalisti, urbanisti, storici tra cui Pietro Gargano, Francesco Romanetti, Isaia Sales.

È la traccia, di un drammatico evento, che resterà.

 

 

Sisma80. 23 novembre 19:34

A cura di Luciano Ferrara

Grafica di Gix Musella

Organizzazione di Sofia Ferraioli

Prodotto dall’associazione noos aps e tribunali138

Copertina flessibile

112 pagg.

F.to 23x1x28

Pubblicato il 22 dicembre 2020 da Iod edizioni

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13.01.2022 # 5870
Jacquie Maria Wessels espone al PAN Garage Stills, le nature morte fiamminghe delle officine per auto

Il Corso di Fotografia artistica alla ILAS con Antonio Biasiucci

per imparare a costruire un formidabile racconto attraverso le immagini di ogni realtà su cui si deciderà di puntare l’obiettivo.

di Paolo Falasconi

Ricercarsi, catapultarsi in una nuova e straordinaria dimensione, valutare nuove possibilità, scoprire infiniti e differenti orizzonti, conoscersi […] 


Migliorare umanamente ed artisticamente, secondo un percorso strutturato su misura che rivelerà chi sei e qual è la tua visione del mondo. Nel corso di Fotografia Artistica 9 giovani fotografi professionisti diplomati all’Accademia Ilas intraprenderanno un percorso artistico di tipo introspettivo, sotto l’occhio e la guida esperta del maestro Antonio Biasiucci.

Il corso è pensato per offrire ai fotografi l’opportunità di sfruttare appieno le conoscenze tecniche già acquisite e metterle a frutto per sviluppare una ricerca personale e intima, affinare la conoscenza degli aspetti più artistici della professione e costruire il proprio percorso fotografico.

La fotografia di ricerca è vista e vissuta come un processo lento e continuo, come un’azione incessante, perpetua ed in continuo mutamento.“Ripetere un’azione su di uno stesso soggetto fa guardare le cose da diversi punti di vista, rendendola sempre differente fino al punto di perfezionarla.”- afferma Biasiucci.

Le fotografie forniscono spunti di riflessione, ma è sempre chi osserva a completarne il significato e a darle senso.“Cos’è importante in questo tempo?” cosa è importante per ogni individuo, quali sono i desideri e le ambizioni, perché scegliamo di focalizzarci su alcune mete piuttosto che altre.“Qual è la vita che scegli per te?” É su questo che bisogna lavorare.

Un tavolo, punto d’unione ed allo stesso tempo d’interscambio tra docente ed allievi, è l’elemento focale intorno al quale si concentra il momento più importante di ogni lezione, permettendo agli studenti attraverso le letture del maestro Biasiucci di raccontare e raccontarsi, “mettersi a nudo” e instaurare così legami con la parte più intima di se stessi.

In un lento percorso mirato all'acquisizione della consapevolezza di sé l’allievo acquisirà mano a mano gli strumenti necessari per imparare a costruire un formidabile racconto attraverso le immagini di ogni realtà su cui deciderà di puntare l’obiettivo.


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Come lavoravano i fotografi prima dell’arrivo della fotografia digitale?

Breve incursione in quelle che erano alcune modalità operative dei fotografi degli anni ’80-’90

di Marco Maraviglia

Lo scanner

Prima del 2000 erano ancora pochi i fotografi che lavoravano in digitale. Esisteva il Photoshop che consentiva di fare qualche postproduzione alle proprie foto, previa scansione. Ma acquisire a scanner le foto aveva un costo non paragonabile a quello di oggi. I service di preprint lavoravano principalmente con costosi scanner a tamburo se non addirittura con un’altra macchina chiamata reprocamera. Oggi con poche centinaia di euro si può entrare in possesso di uno scanner decente. Ma ormai si scattano fotografie che sono già digitali a monte e quindi lo scanner resta solo un utile accessorio per quei fotografi che intendono ripescare dal proprio patrimonio archivistico immagini per realizzare un libro, una mostra e dintorni.  

 

Le pellicole

Si lavorava quindi principalmente in analogico: pellicole a colori, bianconero e invertibili, le cosiddette diapositive. Dette anche diapo o dia.

C’erano fotografi che avevano a tracolla almeno tre corpi macchina e ciò per un paio di motivi: per evitare di perdere tempo nel sostituire gli obiettivi di focale diversa (cosa che ad oggi i professionisti fanno ancora) ma anche perché in ogni corpo macchina c’era una pellicola diversa. Bianconero, diapositiva a bassa sensibilità, diapositiva ad alta sensibilità, diapositiva per luce al tungsteno, pellicola negativa a colori…

Qualcuno usava i filtri di conversione, quelli in vetro blu o arancioni per convertire la temperatura cromatica che si avvitavano sull’obiettivo e così qualsiasi pellicola riproduceva la luce come se fosse “bianca”, diurna.

Oggi le fotocamere digitali hanno il WB, il White Balance, il bilanciamento del bianco. Impostabile in automatico oppure per luce diurna, luce flash, al neon, tungsteno e basta un dito. Anche per cambiare il valore della sensibilità alla luce (ISO).

 

La postproduzione analogica

Non esistevano i software di elaborazione delle immagini, ma le foto potevano subire qualche manipolazione.

Con del ferro filato e dei cartoncini sagomati a disco, triangolari, quadrati, a mezza luna, realizzavi i dodge le “palummelle”: termine napoletano derivante da “palumme”, colombe, perché tramite il fil di ferro si facevano svolazzare sulle carte emulsionate durante l’esposizione dell’ingranditore per schiarire le zone d’ombra. E se dovevi scurire i cieli e le zone troppo chiare (alte luci), usavi la tecnica del burning per “bruciarle”: un cartoncino nero, magari costruito a tronco di piramide, con un foro al centro attraverso il quale lasciavi passare la luce dell’ingranditore.

Il fotoritocco per eliminare polvere e graffi lo facevi a mano con pennellini intinti in appositi inchiostri. Oppure con pennarelli con punte flessibili di varie scale di grigi o anche a colori.

Non esisteva il filtro fluidifica del Photoshop ma deformando la carta emulsionata sotto l’ingranditore, si potevano ottenere caricature.

Chi non possedeva un banco ottico poteva fare leggere correzioni prospettiche di immagini di edifici in fase di stampa. Un po’ pezzottate ma accettabili entro certi limiti.

Si poteva accentuare la grana in fase di sviluppo della pellicola o cospargendo di segatura fine l’emulsione del foglio durante l’esposizione, si facevano solarizzazioni e posterizzazioni, fotomontaggi e quant’altro.

Ogni fotografo aveva i suoi segreti.

 

36 colpi in macchina

Non c’erano schede di memoria che ti consentivano di fare tanti click senza avere il pensiero del limite delle foto scattabili. Avevi solo 36 colpi in macchina e per ricaricarla con un rullino vergine ti prendeva più tempo della sostituzione di una scheda di memoria.

Se compravi pellicola a metraggio riuscivi a caricare i rocchetti anche con 38 fotogrammi, ma il problema era che non potevi perdere l’ultimo colpo “in canna” proprio nel momento clou. Anche per questo era meglio avere un secondo corpo macchina con una pellicola già caricata.

36 colpi in macchina e non dovevi sgarrare l’esposizione perché la latitudine di posa di una pellicola non era come quella che ti può offrire oggi un file in RAW.

36 colpi in macchina e ogni foto doveva essere pensata prima di inquadrarla, ad alta velocità se eri un reporter. Se eri in gamba ne tiravi fuori una decina utilizzabili, pubblicabili. Vendibili. Se eri bravissimo ne usciva una che riuscivi a piazzare a più giornali.

 

La camera oscura

Era il mondo magico di professionisti e fotoamatori evoluti.

I primi erano super attrezzati in stanze dedicate ma anche nel WC, con tank anche a sei spirali, asciugatrici delle stampe, essiccatoi con termostato per le pellicole, marginatori per formati 30x40 o anche più, filtro per l’acqua per renderla meno alcalina ché sennò macchiava troppo i negativi anche se la soluzione imbibente dava una mano, bacinelle per i bagni extralarge ed altre belle cose.

Ma si riusciva a sviluppare e stampare anche con un’attrezzatura più povera.

Invece della tank si avvolgeva e riavvolgeva il rullino a mano nella vaschetta del rivelatore, c’era chi riusciva a recuperare gli asciugatori elettrici per le mani dei bagni pubblici per costruirsi l’essiccatoio per le pellicole con tanto di foglio di cellophane intorno, la luce rossa si rimediava con una normale lampadina incapsulata da un vaso di vetro rosso. Negli infissi delle finestre si attaccavano pannelli di polistirolo dipinti di nero per oscurare l’ambiente. Chi non aveva l’essiccatore per le stampe, le attaccava sulle piastrelle del bagno strizzandole con uno di quei rulli in gomma che servivano in realtà a spalmare l’inchiostro sulle incisioni o sui telai serigrafici artigianali. E poi, staccandole dalle piastrelle, una botta di phon.

Una magia che qualche ragazzo del XXI secolo ha ripreso e che, se non in possesso di una reflex analogica, si è dato alla fotografia stenopeica.

 

I provini a contatto

Il fotografo professionista tagliava a spezzoni da sei fotogrammi i negativi e li inseriva nei fogli per archivio di carta velina non prima di averli stampati a contatto su un foglio di carta fotografica grazie al provinatore: il provino a contatto. Su entrambi i fogli si segnava lo stesso numero e messi nelle scatole delle carte fotografiche ormai vuote o in raccoglitori ad anelli. Magari in raccoglitori separati: quello delle veline con negativi e quello con i soli provini a contatto. E poi c’era chi usava una rubrica alfabetica cartacea dove per ogni lettera descriveva a penna il nome del soggetto o servizio fotografico, la data e il numero corrispondente al provino a contatto e quindi al foglio contenente i negativi di quelle foto.

Eh già, non esistevano i software di database o il “trova file” sul computer. Perché il computer non c’era.

 

Le diapositive

La diapositiva era, sotto certi aspetti, la maledizione per gli amici dei fotoamatori.

Ti invitavano a casa con la scusa di una cena e poi a sorpresa eri costretto a guardarti centinaia di foto proiettate sullo schermo con musichetta di sottofondo e sorbirti tutto il racconto delle vacanze dell’amico perché le foto da sole non raccontavano nulla. «Che bei colori!!!» era il commento che faceva l’amico più affezionato. Gli altri tacevano. Per educazione.

Altra storia invece, per i professionisti che usavano le diapo per lavoro. Perché quelle servivano per l’editoria e la comunicazione con stampa in offset.

Aspettavi un'ora o un giorno per avere le diapositive sviluppate. Quindici giorni di attesa per le Kodachrome perché venivano sviluppate solo in un laboratorio Kodak a Milano che poi chiuse e allora venivano mandate in un laboratorio di Francoforte. Che poi chiuse. Fin quando anche l’ultimo lab nel Kansas venne chiuso nel dicembre 2009. Fine di una pellicola amata dai Fulvio Roiter, Luigi Ghirri, Art Kane, solo per citarne alcuni.

Non esisteva l'e-commerce e impazzivi a trovare i plasticoni che dicevi tu. Quelli opachi sul retro e difficilmente ingottabili.

Le info file le scrivevi a mano sui telaietti.

Duplicavi gli scatti migliori prima di mandarli ai clienti perché nel caso si smarrivano, possedevi sempre gli originali e per evitare che si danneggiassero gli originali con graffi e vaselina che veniva utilizzata per attaccarle sui tamburi degli scanner. Una gran violenza. Perché non tutti i tecnici della pre-stampa potevano perder tempo ad applicarle certosinamente con lo scotch.

Le etichette dei credit te le stampavi da te con una stampante ad aghi se eri attrezzato con un PC 2.8.6 oppure fotocopiavi un foglio battuto a macchina, ci applicavi il biadesivo sul retro e le ritagliavi una a una prima di attaccarle sui telaietti. Perché il timbro a inchiostro indelebile sbavava e dovevi aspettare che si asciugasse prima di infilarle nelle taschine dei plasticoni.

Le numeravi per archiviarle per benino e a ogni foglio del plasticone attaccavi un’etichetta a sbalzo con la descrizione del servizio fotografico.

Poi riponevi tutto nei cardex e aggiornavi lo schedario cartaceo. E il tuo archivio cresceva.

 

 

Credo che oggi nessun fotografo abbia rimpianti di quegli anni. Di quando si respiravano le esalazioni dei bagni chimici a base di acido acetico, metolo, idrochinone, iposolfito di sodio. O di quando ci si incazzava quando una stampa veniva rifatta più volte perché il contrasto, schermature e bruciature erano venute male. O di quando una pellicola era involontariamente graffiata dal laboratorio. O di quando non trovavi il lentino contafili per scegliere dai provini a contatto le foto da stampare o le diapositive da inviare a un giornale.

Ma quella era magia. Tattile. No “polvere elettronica”.

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