Per avere un'idea di come saranno i virus del futuro, Microsoft ha scelto di rivolgersi ai migliori esperti di mostri ed ecco le loro opinioni: forse ci attaccheranno con le loro pelosissime braccia, e siccome saranno invisibili, enormi o piccolissimi, noi non vedremo le braccia e nemmeno i peli (meno male va).
Faranno esplodere i nostri computer, percepiranno l’energia elettrica, voleranno e faranno addirittura magie.
Siamo certi che ce ne saranno anche in futuro: virus informatici che ci faranno disperare, scompaginando i nostri piani e nascondendo i dati che all’improvviso scopriremo indispensabili.
Ne avevo già parlato qui: Microsoft ha cambiato tono di voce e ha cominciato a parlare al target con un linguaggio nuovo. Emozionale, ammiccante e divertente, il nuovo volto di Microsoft copia il buono di Apple, gli aspetti emozionali, ma sceglie una strada sua e secondo me fa proprio bene. Via la patina grigia, triste e un po’ vecchia e benvenuti sorrisi.
I bambini sono protagonisti di questa svolta un po’ piaciona, come in questo commercial, in cui sono chiamati a immaginare come saranno i virus del futuro.
In principio furono gli alcolici: sulle birre in particolare fu scaricato l’onere (morale) di promuovere un consumo responsabile. Adesso ci sono anche i telefoni cellulari sul banco degli imputati, perché chi li usa alla guida è pericoloso quanto un ubriaco.
E un po’ come succede quando si fanno campagne per dire alle donne di andar via quando un uomo le picchia (consiglio più che saggio), ma ci si dimentica di farne per spiegare agli uomini perché non devono picchiare il prossimo, anche i cellulari sono chiamati a dire agli autisti di usarli responsabilmente, vale a dire non mentre sono alla guida.
Questa campagna di Mobily, società saudita di telefonia, si fa carico di questa responsabilità in modo intelligente e senza particolari guizzi creativi. Ma è un bel visual, sintetico ed efficace.
Le campagne sociali sono un vero challenge secondo me, perché una delle cose più difficili è spingere una persona a modificare i propri atteggiamenti. In psicologia la questione è oggetto di studio da molti anni e, come è ovvio, in particolare da parte di coloro che si occupano di psicologia della pubblicità.
Qualcuno ha posto la questione in termini di tipologia di persuasione. Il modello ELM (Elaboration Likehood Model) ci parla di due vie di elaborazione delle informazione: una centrale, per la quale ci focalizziamo sul contenuto informativo di una comunicazione e ne valutiamo l’attendibilità; e una periferica, in virtù della quale ci lasciamo sedurre dagli aspetti che hanno il maggior impatto emotivo: immagini, musica etc.
La Scuola di Yale invece ha prodotto studi che analizzavano i fattori che rendono più efficace oppure ostacolano la persuasione, in riferimento all’attendibilità della fonte, all’ordine con cui vengono presentati gli argomenti, al tipo di messaggio formulato (molta paura ci fa respingere il messaggio, una paura moderata invece è efficace) e a molti altri fattori.
La sostanza dei fatti è che ci sono molti modi per affrontare una campagna sociale e i risultati sono lunghi a venire, soprattutto se ci si affida alla sola pubblicità.
Un esempio di atteggiamenti molto difficili da cambiare sono quelli legati alla guida pericolosa (bere, usare il telefono, distrarsi).
Segue una piccola gallery di campagne molto diverse tra loro, tutte con lo stesso tema: promuovere una guida più responsabile.
Una curiosità: solo una di esse è di un’associazione che si occupa di sicurezza stradale. Le altre due sono di Bud, che produce birre e campagne sempre improntate all’ironia (io trovo adorabile Helen Mirren che pronuncia insulti), e di Sodimac, una catena di ferramenta, che quest’anno sta investendo davvero tanto in comunicazione e vale la pena di tenere d’occhio.
Tutt’e tre hanno un approccio non banale alla questione e per questo mi hanno colpito, forse quella di Bud è la meno originale, ma il testimonial del tutto inatteso e il modo in cui è girata mi sono piaciuti molto.
A casa mia ci sono tre feste comandate: Natale, Pasqua e Sanremo.
Sanremo è la più celebrata dalla sottoscritta, secondo una liturgia che prevede due ingredienti fondamentali: veleno e Twitter.
Non è tanto la gara in sé, della quale potrei fare serenamente a meno, il clou della kermesse è il commento sferzante e un po’ crudele.
I vestiti, le vallette, il trucco, le pettinature.
Quest’anno è tutto uno sventolare di bandiere arcobaleno, per manifestare sostegno alla comunità LGBT in un momento che potrebbe essere un giro di boa per il nostro paese.
E l’arcobaleno è stato al centro di commenti anche su Twitter: chi era entusiasta della scelta di alcuni di esibirlo, chi lo trovava inutile. Come sempre ci si divide e se ne parla.
Probabilmente avete sentito parlare di Harvey Milk, uno dei primi gay dichiarati della politica americana, eletto al consiglio comunale di San Francisco. Tragicamente ucciso nel 1978 insieme al sindaco George Moscone. Nel 2008 un bellissimo film con Sean Penn ne raccontò la storia.
Attorno alla carismatica figura di Milk giravano molti personaggi, tra cui Gilbert Baker.
Gilbert aveva imparato a cucire perché non poteva permettersi i vestiti che vedeva e desiderava, e quando Milk lo invitò a mettere le sue capacità al servizio del movimento LGBT, Baker decise per quello che sapeva fare meglio: prese stoffa, forbici e filo, taglio delle strisce colorate e diede vita all prima bandiera arcobaleno.
Contava otto colori, ognuno dei quali aveva un significato preciso: rosa per la sessualità, rosso per la vita, arancione per la salute, giallo per la luce del sole, verde per la natura, turchese per l’arte, indaco per l’armonia e viola per lo spirito.
Prima di allora il simbolo della lotta contro la discriminazione degli omosessuali era il triangolo rosa, simbolo con cui i nazisti etichettavano gli omosessuali. Ma Milk voleva un segno nuovo, che diventasse simbolo di speranza e la bandiera arcobaleno rispose perfettamente alla richiesta.
Il primo Pride di San Francisco, nel 1978, vide il debutto della nuova bandiera, nei suoi primi esemplari realizzati a mano. Quando poco dopo Baker si rivolse alla Paramount Flag Company per la produzione industriale, dovette rinunciare alla striscia rosa, per la difficoltà a reperire il tessuto di quel colore. I colori diventarono sette.
La storia che li ha visti ridursi a sei è la più triste: il 27 novembre dello stesso anno Milk fu assassinato, lasciando la comunità orfana e addolorata.
Il comitato per Gay Freedom Day (oggi San Francisco LGBT Pride Celebration Committee) non si abbatté e decise per una reazione in linea con tutto ciò che aveva fatto il movimento: in occasione del Pride del 1979 Market street, la via della sfilata, sarebbe stata addobbata con la bandiera simbolo della speranza: fu divisa in due bandiera, su ciascuna delle quali c’erano tre colori, che furono distribuite sui due lati della strada, l’indaco fu eliminato.
Da quel momento la bandiera arcobaleno è stata usata ovunque come simbolo di speranza, anche dal movimento per la pace europeo (ma i colori sono invertiti), e perfino a Sanremo esporla o indossarla non è così semplice come possa sembrare: «The flag is an action – it’s more than just the cloth and the stripes. When a person puts the Rainbow Flag on his car or his house, they’re not just flying a flag. They’re taking action»
Tall, Petite, Curvy: le nuove Barbie umane troppo umane
Blog! di Daria La Ragione
È alta, bionda, occhi azzurri, sedere e tette che non conoscono cedimento e negli anni è diventata l’icona della bellezza finta, di plastica.
Perché in effetti, anche se qualcuno se lo dimentica, lei è di plastica. È Barbie.
Eppure, alla Mattel devono aver pensato che era ora di cambiare rotta (il calo delle vendite deve averlo suggerito di certo) ed ecco che, dopo due anni di ricerca e sviluppo, arrivano curvy, tall e petite.
4 diverse silhouette, 7 tonalità di carnagione, 22 colori degli occhi e 24 pettinature per portare la fashion doll numero uno al mondo un po’ più vicina alla realtà.
I commenti delle consumatrici vanno dall’entusiasmo alla rabbia, qualcuno si indigna perché “non sono le bambole che devono educare le bambine”, ma la sostanza è che se ne parla e tanto anche: #BarbieRealistiche è una delle tendenze del giorno, #TheDollEvolves e #Barbie fanno numeri di tutto rispetto. Su YouTube, il video ha realizzato 657.003 views in poche ore.
Le nuove amiche di Barbie sono bassine, hanno i fianchi abbondanti, capelli ricci ed escono dal cliché della bella di plastica. Sono umane troppo umane.
Certo, avranno abiti non più intercambiabili, con un vantaggio consistente per le vendite degli accessori. Ma soprattutto potranno chiamarsi fuori dalle discussioni sugli stereotipi, sui modelli di bellezza fasulli e inarrivabili. Insomma: via dalle polemiche.
E la domanda è: è una buona idea tirarsi via dalle polemiche? O era meglio starci dentro e dire la propria? Riusciranno a farlo ancora?
Per il momento è un grande successo, stiamo a vedere cosa accadrà.
Just do the impossible: Nike e Adidas si scambiano i ruoli
Blog! di Daria La Ragione
Nike aggiusta la mira: dopo anni a costruire un’epica (voi continuato a chiamarlo storytelling se preferite) il cui protagonista era l’atleta sborone (e quasi sempre famoso), quello che del virtuosismo ha fatto il biglietto da visita, quello che a porta vuota deve fare una rovesciata con triplo salto mortale, ecco che fa un cambiamento di rotta.
Non più il momento vincente, non il goal spettacolare, la schiacciata a canestro, ma l’allenamento, la fatica, le cadute: la prospettiva cambia, e tanto; l’eroe non è più quello che vince, ma quello che persevera, si rialza, suda, lavora sodo.
E Just do it diventa un invito a superare i propri limiti, mettere tutto se stesso in quello che si fa: pensiero, volontà, concentrazione ed energia.
Io ho pensato ad Adidas, a quando lanciò Impossible is nothing: all’epoca l’operazione era simile, perché metteva in risalto il momento dell’allenamento, parlava e faceva parlare atleti che avevano conquistato l’alloro contro ogni pronostico in virtù della loro perseveranza e del loro talento: Alì e figlia, Jesse Owens, Nadia Comaneci.
Al centro la sfida: contro se stessi, contro chi diceva loro che non ce l’avrebbero fatta, contro tutto.
Oggi anche Adidas ha cambiato epica, al centro l’atleta che esprime al meglio il suo talento e anche il claim è cambiato: Good things come to those who take. Take it.
Stesso discorso per l’ultima uscita: I’m here to create, con un Messi in grande spolvero che passa da una passerella al campo con la stessa sicurezza.
Aggressivo ed energico, probabilmente efficace, ma l’emozione di quei tempi non c’è più ed è un peccato.