Marco Maraviglia //
Le destrutturazioni di Francesco Chiarenza
Da scultore di marmo a scultore di fotografie
Francesco Chiarenza è nato a Comiso in Sicilia il 27 febbraio 1944 dove consegue l‘Attestato di Licenza in Decorazione Plastica. Con un gruppo di compagni si trasferì a Perugia per ottenere il diploma di Maestro d‘Arte in Marmo e Pietra. Successivamente vinse una borsa di studio per quattro anni per frequentare l‘Accademia di Belle Arti, ma vi rinunciò per seguire un corso di due anni all‘Istituto Statale d‘Arte di Napoli per conseguire il diploma di Magistero e poter insegnare.
Fu allievo dello scultore Lelio Gelli che lo tenne sotto la sua ala trasmettendogli tecniche e segreti della scultura.
Finalmente iniziò a insegnare: in Sardegna.
Tornò poi a Napoli per insegnare all‘Istituto Palizzi grazie a una segnalazione di Lelio Gelli. Per meriti.
Perché negli anni ‘60-‘70, per l‘insegnamento negli istituti d‘arte, c‘era bisogno della chiara fama.
Al Palizzi era docente di scultura dove insegnò la lavorazione di marmo e pietra. Andò in pensione come docente di disegno professionale e progettazione e con relativa direzione del laboratorio dove gli allievi realizzavano ciò che disegnavano.
Francesco Chiarenza fa parte di quell‘epopea di artisti che frequentava, e con alcuni sta ancora in contatto, come Vittorio Pandolfi, Aulo Pedicini, Eduardo Alamaro, Enrico Cajati, i fratelli Luigi e Rosario Mazzella, Gaetano Gravina. Un ricco serbatoio di energie e conoscenze condivise.
Nel frattempo fotografava con una vecchia macchina a soffietto, imparò la pratica di camera oscura per stampare le proprie foto in bianconero che scattava a sculture e oggetti di design.
Una vita da curioso e sperimentatore. Negli anni ‘70 disegna e realizza vetrate artistiche, oggetti di design, lampade, vassoi, specchi. Progetta giardini per alcuni amici fin quando negli anni ‘80 inizia a smanettare su un programmino della Apple per il ritocco delle immagini.
Oggi ha ottant‘anni di mente fresca che gli ha consentito di non perdere il treno delle tecnologie digitali.
Cominciò a usare il Photoshop e solo da qualche anno ha iniziato la sua ricerca di destrutturazione delle immagini fotografiche dopo qualche indicazione del figlio Stefano.
Chiarenza realizza immagini le cui composizioni richiamano gli effetti dei lavori di Agostino Bonalumi o, talvolta, quelli di Enrico Castellani.
Se non c‘è si può immaginare. Se non si vede si può osservare perché a volte anche l‘astratto può ingannare: potrebbe non essere astratto in senso lato. Ci sono figure astratte che nascono esclusivamente da un concetto basato sulla poetica di un artista, sul loro concetto espressivo, dalla pulsione emozionale dell‘artista. Ma possono esserci immagini indefinite, blur, che partono dalla realtà. Modificate, manipolate, smontate, destrutturate.
Non è importante che le fotografie destrutturate di Chiarenza partano da immagini di soggetti reali da lui scattate o di altri, scaricate dalla rete. Perché gli interventi di elaborazione digitale le trasformano per ottenere altre visioni. Interpretazioni che dilatano, contraggono scene, restituendo percezioni oniriche, come realizzate da un caleidoscopio anarchico.
Immagini che incuriosiscono, sulle quali ci si sofferma per cercare di intercettare elementi della realtà, stentare nel riconoscere un dettaglio di partenza. Come sogni che ricordi di aver fatto ma di cui non riesci a ricostruire la loro logica e la storia.
Mondi nuovi, come paesaggi di fantascienza o metafisici, colori elettrici, shocking, immagini dinamiche che suggeriscono un movimento in spazi indefiniti dove il primo piano a volte non è che lo sfondo.
È l‘immaginazione creativa di un 80enne che non cerca gloria ma è bello sapere che c‘è, come un “perfetto sconosciuto”.