Paolo Falasconi //
Sessantanove giorni nel segno di Vito Nesta
Al Palazzo Reale di Genova la prima mostra dedicata a un designer contemporaneo, in collaborazione con il Dipartimento di Architettura e Design dell’Università di Genova.
Cosa fanno gli artisti per produrre opere? Pensano. A volte si lasciano passare addosso il malessere della vita. Come tir che affondano le ruote su dune di sabbia lasciando tracce, impronte, ma senza distruggerle, accolgono il tormento di quei copertoni che li investono. Metabolizzano il vissuto, a volte inconsciamente, mentre conducono la vita di tutti i giorni. Poi la lente della mente mette a fuoco su ciò che stanno per andare a materializzare. Comunicano visivamente la loro immaginazione. Il loro briefing consiste in quegli input che solo gli artisti colgono grazie a una sensibilità che raccoglie metadati tra i rumori di informazioni lasciate inesplorate dai comuni mortali. Talvolta con risultati avveniristici.
Alla fin fine, fanno comunicazione visiva. Con un approccio diverso da quello di un creativo pubblicitario. Ma comunque comunicano. Art director, copywriter e grafici questo lo sanno e perciò li incontriamo spesso in musei o in occasione di mostre d’arte. L’arte è linfa per la mente. Sorgente per la comunicazione.
Massimo Sgroi, curatore della mostra Modalità: No Humans, ha messo insieme otto artisti internazionali (fotografia, pittura, digital art, installazioni) seguendo il filo di un racconto su quel che potrebbero essere le (im)probabili trasformazioni dell’ambiente psicologico e fisico vissuto dall’uomo; urbano e naturale: Güler Ates, Jean Michel Bihorel, Patrick Jacobs, Federica Limongelli, Suzanne Moxhay, Barbara Nati, Helene Pavlopoulou e Simon Reilly.
Tecnologia e innovazione favoriscono il progresso ma c’è un prezzo da pagare? L’individuo si arricchisce umanamente, emozionalmente, o sta subendo un processo di svuotamento della sua stessa presenza attraverso la trasformazione del proprio habitat?
Il tempo scorre trasformando la vita reale sempre più in un universo parallelo, virtuale, fatto di polvere elettronica. Le piazze dove ci si incontrava divengono “second life”; al calcio o minigolf si gioca online con persone che manco conosci e che vivono (vivono?) in altri luoghi. Con i lockdown si è testato il gradimento del pubblico rispetto ai concerti da seguire online. Da casa. Senza l’essenza del brusio e di sguardi che si incrociano che solo dal vivo fanno meglio apprezzare lo spettacolo. Incontri culturali svolti in video. I veri effetti psicologici dello smart working e della didattica a distanza sono ancora tutti da approfondire. Ma non possiamo negarci che hanno contribuito a una desocializzazione che porta a uno svuotamento di valori dell’individuo. Alterazioni nelle sfere amicali, affettive. E quindi della propria mente.
Un progresso che sembra sfuggire di mano, in cui valori come l’identità, la memoria storica, il pensiero emergente, vengono penalizzati, sopraffatti.L’uomo rischia di diventare sempre più un passivo consumer. Con quella protesi-display di cui non riesce più a farne a meno.
In un mondo di un futuro prossimo, potremmo essere costretti a restare chiusi in casa per lunghi periodi per avversità climatiche, tempeste geomagnetiche, blackout, lunghi periodi di austerity per scarsezza di risorse. Sarebbe una grande brutta guerra che noi contemporanei non vorremmo vivere e di cui abbiamo modo di vedere le prime avvisaglie.
Come sarà il mondo con lo svuotamento interiore dell’individuo? E come sarebbe il mondo con una popolazione fisicamente decimata o annullata del tutto?
Modalità: No Humans ci pone di fronte a riflessioni etiche lasciando all’osservatore un’ampia interpretazione. Ma l’aspetto positivo di un mondo che si rigenera grazie all’assenza umana, per un’implosione del progresso, in paesaggi metafisici e iperrealistici, contrasta con il dramma della sua stessa estinzione. L’URBEX (Urban Exploration) suggerita in alcune opere, contiene fascino e allerta. Il fascino di avere il privilegio di sentirsi unico abitante di paesaggi rigenerati, sfuggiti a regole geologiche e biologiche. E un avvertimento che dovrebbe farci pensare sul dove stiamo andando.
Il mondo di oggi non è un granché ma bisogna essere sognatori per (ri)costruire gli umani.
Photo credit: Barbara Nati, Inverted Kingdom (Underpass); Modalità: No Humans, 2021. CourtesyAndrea Nuovo Home Gallery
MODALITÁ: NO HUMANS
Artisti: Güler Ates, Jean Michel Bihorel, Patrick Jacobs,Federica Limongelli, Suzanne Moxhay, Barbara Nati, Helene Pavlopoulou e SimonReilly.
A cura di Massimo Sgroi
Dal 01/10/2021 al 07/01/2022
Orari: martedì - venerdì, ore 10:00 - 13:15 e 16:15 - 19:00
Sabato, domenica e lunedì su appuntamento / Ingresso Libero
Andrea Nuovo Home Gallery
Via Monte di Dio, 61, 80132 – Napoli
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www.andreanuovo.com/- info@andreanuovo.com
Ufficio Stampa:Fabio Pariante - fabiopariante@gmail.com
La negazione della contemporaneità, secondo Johannes Fabian, è un meccanismo di distanziamento messo in atto non attraverso lo spazio, ma attraverso il tempo. Un meccanismo mediante il quale si tende a distanziare ulteriormente, collocandole nel passato, culture geograficamente lontane dalla nostra, e a percepirle come non pienamente appartenenti al nostro presente.
A partire da questa riflessione, ha preso forma la ricerca di Melissa Peritore - fotografa italo-filippina, classe 1984 - una ricerca che l’ha condotta alla sua nuova esposizione a cura di STUDIO12 ed Helena Lang in mostra a Vienna dal 23 Marzo al 22 Aprile 2021.
In cinque anni di permanenza nelle Filippine, la Peritore, ha raccolto innumerevoli testimonianze che l’hanno aiutata a dare vita alle proprie opere: oggetto della mostra sono le auto-crocifissioni di Kapitangan, un luogo di pellegrinaggio visitato dall’artista e nel quale ha luogo la rappresentazione della Passione. Il percorso espositivo di The Denial of Coevalness è cronologicamente fedele ad alcune tappe della via crucis, così come i nomi delle opere: Portare la Croce, Inchiodare alla Croce, Erezione della Croce e la Crocifissione nella sua interezza.
“Gli scatti creano un momento di alienazione, trasponendo una scena universalmente nota, in un contesto culturale diverso, a noi sconosciuto. La tendenza ad etichettare ciò che vediamo con gli attributi "arcaico" o “antiquato", è evidenziata dall’intento di collocare le immagini in un nostro sistema percettivo precostituito (concetto che Kaja Silverman identifica con il termine sguardo) - spiega Helena Lang, curatrice della mostra - gli oggetti tecnici, così come gli elementi urbani che definiscono la scena come presente, ci fanno interrogare sulle strutture del nostro sguardo preformato.
Con l’aiuto degli strumenti utilizzati, abbiamo l’impressione di assegnare un tempo fisico diverso alla cultura che si presenta ai nostri occhi, per poterci distanziare da essa: neghiamo l´azione reale - la crocifissione - il fatto che la sua esistenza possa essere contemporanea alla nostra cultura occidentale e, quindi, neghiamo la simultaneità di quest’ultima, alle tradizioni locali della cultura filippina. In tal modo, applichiamo la teoria di Fabian de la negazione della contemporaneità: incanalando la cultura descritta nel flusso cronologico della nostra storia, le assegniamo una posizione attraverso una relazione di potere che abbiamo creato. Pertanto, cerchiamo di comprendere quella cultura dalla nostra prospettiva eurocentrica.
Le fotografie di Peritore mostrano le tensioni derivanti dalla negazione di tale simultaneità di azioni, sentimenti ed eventi. Le sue opere sono in grado di attirarci all’interno di una scena familiare, ma anche di farci fare una pausa, chiedendoci di riflettere sulla nostra visione della cultura e della società. Le immagini formulano - se ci atteniamo al tema della salvezza nella storia della cristianità - un appello alla resurrezione dell´accoglienza e all´interiorizzazione della contemporaneità culturale.”
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