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22.05.2023 # 6264
Peggy Kleiber e le emozioni della vita

Marco Maraviglia //

Peggy Kleiber e le emozioni della vita

Per la prima volta l‘opera e l‘archivio in mostra di una fotografa svizzera autodidatta, tra foto di famiglia e viaggi nell‘Italia degli anni ‘60 e ‘70

Non era una misteriosa bambinaia che aveva i libri sullo scaffale con il dorso contro il muro e con l‘hobby della fotografia (v. Vivian Maier). Non era nemmeno la Regina Elisabetta di cui tutte le foto di famiglia che ha scattato non sapremo se riusciremo mai a vederle. E qui non si tratta nemmeno di un ritrovamento fortuito di lastre fotografiche in un mercatino e realizzate da un eccellente anonimo fotografo.

Di Peggy Kleiber si sa abbastanza della sua vita. Una vita trascorsa a immortalare i momenti felici e salienti della sua famiglia che la stessa ha voluto generosamente condividere pubblicamente il suo archivio fotografico.

 

Le fotografie del passato sono una preziosa memoria storica che non riguarda i fatti documentati di per sé, ma è universale, patrimonio dell‘umanità che non può non fare i conti col passato per conoscere il “come eravamo”.

Ci sono persone che preferiscono essere proiettate verso il futuro o il presente. Emotivamente non reggono la visione delle fotografie di famiglia dei tempi andati. Tendono a rimuovere i ricordi forse per non avere rimpianti, rimorsi o per non rivivere il dolore dell‘assenza dei propri cari. Non tutti hanno (avuto) la pazienza o il tempo di metabolizzare il passato esorcizzando un malessere latente che può esserci in ognuno di noi, trasformandolo in ricordi naturali da vivere con serenità. E purtroppo molti archivi fotografici di famiglia non vedranno mai la luce delle gallerie. Chissà quante belle immagini saranno disperse, dimenticate o custodite gelosamente per “rispetto della privacy” o per l‘inconsapevolezza del tesoro antropologico posseduto.

Non c‘è nessuno da condannare per questo.

Ma questa è un‘altra storia.

Due valigie cariche di negativi e stampe fotografiche ritrovate. 15.000 fotografie scattate tra la fine degli anni ‘50 e gli anni ‘90. Attimi di vita ripresi spontaneamente, senza intento commerciale/professionale e per questo si tratta di fotografie fresche, genuine, spontanee. Senza particolari sovrastrutture di impronta tecnica: è il bello di certa fotografia amatoriale, quella istintiva, realizzata con partecipazione emotiva, che restituisce la bellezza emozionale sentita da chi le scatta.

La scoperta di questo materiale arriva dopo la morte dell‘autrice, Peggy Kleiber, avvenuta nel 2015. In seguito la famiglia decide di valorizzare e rendere pubblico questo importante patrimonio rimasto a lungo nell‘oblio. Nel 2019 si pensò quindi di voler realizzare una mostra iniziando a digitalizzare una parte dei negativi ritrovati.

 

Peggy Kleiber cresce in una famiglia numerosa e vivace a Moutier in Svizzera. Tra le passioni della poesia, musica e letteratura, coltiva la passione per la fotografia. Non fa della fotografia una professione anche perché dalla fine degli anni ‘70 diventa insegnante, senza comunque abbandonare la Leica. La sua ricerca abbracciava la vita privata e la storia collettiva. Fotografie che sì, raccontano attimi intimi di vita familiare ma ricercava la stessa intimità ed empatia quando fotografava i luoghi che visitava nei suoi viaggi in Italia e in Europa.

 

In mostra ci sono 150 fotografie e una selezione delle stampe ritrovate, nei loro formati originali. Tutte scattate da Peggy Kleiber con la sua Leica M3, dotata di esposimetro sul corpo macchina. Con la bellezza dell’assenza di fotoritocco digitale: pure, così come ritrovate.

E poi c’è un video che ripercorre la riscoperta dell‘archivio attraverso i materiali inediti e filmati Super8 di famiglia.

La mostra è in due sezioni: una dedicata alla famiglia con immagini dei momenti salienti (cerimonie, nascite, compleanni, gite…) e l‘altra dedicata ai viaggi in Europa e in Italia, in particolare in Sicilia e a Roma alla quale era particolarmente legata, a partire dai primi anni ‘60. Immagini che non colsero solo la parte turistico-monumentale e artistica della città, ma con excursus nelle periferie che lasciano ricordare le storie di borgate di P. P. Pasolini.

Si tratta di entrare in una storia lunga 40 anni di un mondo che ha subìto repentine trasformazioni sociali, culturali e paesaggistiche.

Fotografie, queste di Peggy, che ci spingono a prestare attenzione alle emozioni tra le persone e alle loro sfumature nei gesti.

Qualcosa di cui abbiamo dimenticato.


Bio (dal comunicato stampa)

Nata il 25 giugno 1940 a Moutier, Peggy Kleiber cresce in un ambiente ricco di stimoli culturali, con tanti fratelli e sorelle. Peggy è la secondogenita: vivace, sensibile, curiosa e generosa. Ama la letteratura e la musica, incontra la passione per la fotografia nel 1961 ad Amburgo, frequentando la scuola Hamburger Fotoschule. Questa esperienza segna un punto di svolta nella vita di Peggy: da quel momento, la sua Leica M3 la seguirà in ogni momento, nei riti di famiglia e nelle ricorrenze, così come nei viaggi all‘estero, alla scoperta del mondo.

Dall‘inizio degli anni ‘60 viaggia in tutta Europa (Parigi, Praga, Amsterdam, Leningrado, solo per citare alcune destinazioni), dedicando una grande attenzione all‘Italia: Roma e la Sicilia sono due capitoli importanti che le permettono di sperimentare e di lasciarsi incantare da luoghi ignoti.

Per Peggy Kleiber la macchina fotografica è un modo per nascondere e rivelare, anche se stessa. Lo fa attraverso lo splendido ciclo delle foto di famiglia, racchiuse nel libro autoprodotto “Rue Neuve 44 Cronaca della vita familiare 1963-1983” e donato ai suoi parenti nel 2006. Dalla fine degli anni ‘70 in poi si dedica con passione all‘insegnamento, senza abbandonare la fotografia, che diventa un modo per ripensare a distanza di tempo all‘intreccio dei rapporti di una vita. Peggy scompare prematuramente nel 2015.

 

 

 

Peggy Kleiber. Tutti i giorni della vita (fotografie 1959 -1992)

a cura di Arianna Catania e Lorenzo Pallini

Museo di Roma in Trastevere

Roma, Piazza S. Egidio 1/b

19 maggio -15 ottobre 2023

Da martedì a domenica ore 10.00 - 20.00

La biglietteria chiude alle ore 19.00

Chiuso lunedì.

 

L‘esposizione è promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura - Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e realizzata dalle associazioni culturali Marmorata169 e On Image, con la collaborazione dell‘associazione Les photographies de Peggy Kleiber. Servizi museali Zètema Progetto Cultura.

12.05.2023 # 6263
Peggy Kleiber e le emozioni della vita

Marco Maraviglia //

Io sono Chiara, mostra fotografica di Corrada Onorifico

La ricerca di una matrice identitaria attraverso un ritratto lungo tre anni

C‘è una professione che è sbarcata anche in Italia: quella del Personal Brander.

È una sorta di coach che tira fuori le caratteristiche peculiari di una persona, le screma, le evidenzia attraverso un percorso di analisi della persona stessa. Il fine è quello di individuare il brand di un individuo che avrà poi i riferimenti adeguati per proporsi. Per proporre la sua immagine in relazione all‘attività che svolge.

La persona diventa quasi un prodotto da piazzare sul mercato. Nell‘accezione migliore, intendo.

Un influencer da un milione di follower, ad esempio, ha il suo brand.

Alcuni personaggi pubblici commissionano alle agenzie specializzate la valutazione della loro reputazione online. Se qualcosa non coincide con il loro brand, l‘agenzia stessa si occupa di far rimuovere dai motori di ricerca immagini o notizie compromettenti. E questa cosa costa.

Costa meno acquistare in tutte le librerie del mondo, biografie non autorizzate come qualche volta è successo. Parlo di libri informativi, documentati e quindi non sequestrabili: solo da rimuovere con l‘acquisto. Per chi se lo può permettere.


“Uno nessuno e centomila”. Citando il libro di Pirandello siamo ciò che sentiamo di essere o ciò che percepisce la gente che ci conosce?

Il Personal Brander è lì che opera affinché la tua immagine coincida con la percezione altrui.

Philip Kotler, guru del marketing, nel 1987 pubblicò Alta visibilità, marketing della celebrità trattando la figura dell‘Image Maker, ben diversa dal Personal Brander. Tracciò alcune linee guida per la gestione della celebrità citando anche alcune case history in cui la finzione superava la realtà.

Matrimoni tra attori costruiti a tavolino per lanciare un film, presenziare in certi eventi, essere a capo di qualche Fondazione che si occupa del sociale. E chi ricorda le risse degli anni ’60 tra attori e paparazzi in via Veneto a Roma? Molte erano progettate dai maghi degli uffici stampa degli attori. Per acquisire visibilità attraverso i giornali gossip.

Ma questa è un‘altra storia.

 

Il Personal Brander non crea, non costruisce, non trasforma, non si inventa nulla di bizzarro. Non fa altro che tirare fuori quel che già c‘è in una persona.

E una parte del lavoro consiste nel mettere a nudo una persona attraverso l’obiettivo spietato di una reflex. Ed è il lavoro realizzato da Corrada Onorifico, fotografa documentarista che questa volta ha voluto misurarsi con un progetto nuovo. Passando un attimo dal viaggio geografico a un viaggio intimo.

Realizzando un viaggio-ritratto lungo tre anni: Io sono Chiara.

Chiara Scoglionero si è fatta ritrarre da Corrada per tre anni. Prima di decidere di operare nel personal branding.

 

Lo scopo di un percorso identitario è proprio quello di rimettere in discussione la propria identità personale e professionale affinché, dalla loro fusione, ne esca fuori una sola, nota come “Identità di Brander OnLife”, che possa parlare della persona che sei in quello che fai e di quello che fai grazie alla persona che sei.

Questo viaggio identitario ha messo Chiara di fronte a ponti da attraversare e ponti da bruciare. Della sua vecchia identità professionale da consulente di comunicazione, copywriter - storyteller , ha scelto di salvare il settore che ha sempre amato (comunicazione & marketing), e ha lasciato che la sua identità personale definisse meglio come e dove declinare le proprie conoscenze e competenze.

- Chiara Scoglionero

 

Corrada Onorifico accetta questa sfida. In fondo, scoprire una persona attraverso i suoi racconti è un po‘ come leggere un romanzo. Ma quel romanzo fatto di ferite, insicurezze, di confessioni e fobie che porteranno alla loro consapevolezza e quindi a una rinascita di Chiara che individuerà la sua matrice identitaria, Corrada ha avuto il compito di documentarlo illustrandolo fotograficamente.

 

Ne sono nati una serie di polittici. Nel primo, dal titolo “Chiara e lo scuro”, lei è attratta per istinto dal buio, ricerca istintivamente le ombre in cui trova protezione e rifugio. È il periodo in cui Chiara sta scavando nelle sue profondità nel tentativo di riportare alla luce della consapevolezza i suoi dolori.

- Corrada Onorifico

 

E così via, fotografie che tracciano le varie fasi di quella crisalide che sboccerà poi in farfalla. La luce prende il posto del buio lasciando emergere le insicurezze fisiche ed identitarie con disturbi alimentari annessi e poi quella ferita del primo scatto, fatto il giorno in cui Chiara ha deciso di raccontarsi, esplode in una meravigliosa fioritura.

 

Bio

Corrada Onorifico è una regista documentarista: per più di dieci anni ha scritto, condotto e diretto numerosi documentari sul turismo internazionale per varie emittenti italiane: Rai3, Rai International, Rai Sat, Gambero Rosso. Oggi continua il lavoro intrapreso in questi lunghi anni, scrivendo, per la carta stampata e per il web, articoli di viaggio corredati da fotoreportage che le permettono di raccontare i suoi viaggi sempre in chiave documentaristica ma con un approccio più antropologico.

 

 

Io sono Chiara, di Corrada Onorifico

PIT ART GALLERY

via Roberto Murolo 34

Dal 6 al 13 maggio 2023


08.05.2023 # 6259
Peggy Kleiber e le emozioni della vita

Marco Maraviglia //

Le palme di Gigi Viglione

Svettano verso il cielo, danzano col vento. La grazia estetica di un verde inosservato

Se non possono migrare spontaneamente, si importano.

Nel 1492 Cristoforo Colombo importò dall‘America fagioli, mais, patate, peperoni e peperoncini, pomodori e zucche, e poi ananas, arachidi, cacao, fichi d‘india e mais. Credeva fossero prodotti dell‘India. Ma l‘equivoco fu poi risolto da Amerigo Vespucci.

Cosa buona è che sono prodotti che ormai fanno parte della nostra alimentazione quotidiana.

Probabilmente diventeremo anche un popolo consumatore di farina di grilli, ma questa è un‘altra storia.

 

Tante sono le specie di piante che abbiamo importato dai paesi esotici: felci, orchidee, mango, papaya…

All‘inizio del ‘900, quasi come trofei del colonialismo, furono importate e piantate le palme che si adattarono al nostro clima europeo.

La Costa Azzurra è pittoresca grazie all‘estetica delle palme.

Sembra che presto torneremo a rivedere le palme in viale Augusto a Napoli nel suo vecchio splendore che i boomer ricordano.

Palme imponenti e secolari le troviamo all‘Orto Botanico, nei giardini di Villa Rosbery, salvate grazie a una sperimentazione dei ricercatori della Federico II, in qualche giardino dei palazzi Liberty, nei luoghi borbonici come la Villa Comunale o il Museo di Capodimonte.

Alla fine degli anni ‘30 nel progetto del parco nella Mostra d’Oltremare si comprese anche la piantumazione di palme. Quasi a voler marcare l‘ulteriore traccia del colonialismo.

E nell‘immaginario collettivo le palme ci riportano sempre all‘Africa o alle strade di Hollywood o ai polizieschi girati a Miami.

Ma hanno un loro fascino che è oggetto della mostra di Gigi Viglione.

 

Sono alberi. Belli. Dall‘apparenza robusta ma non invulnerabili. Dalle chiome consistenti. Le foglie fanno parte di una simbologia religiosa. Vi sono varie specie di palme. Alcune hanno resistito alla strage del punteruolo rosso e ai forti venti che si sono generati negli ultimi anni.

Sono palme. Ma quanti di noi si sono soffermati per osservarle e assaporarne la loro bellezza grafica?

Gigi Viglione è un ricercatore di poesia in ciò che osserva e fotografa. E, come tante poesie che non riescono a raggiungere chiunque, certe sue immagini possono sembrare ermetiche. Perché sono tra quelle che necessitano di un accompagnamento. Prendere per mano l‘osservatore e condurlo nei luoghi intimi dell‘immaginazione poetica.

E ha fotografato alcune palme del Bosco di Capodimonte.

 

Sono stato sempre affascinato dall‘immagine delle palme, dalla loro grazia esile e imponente, lanciate verso l‘alto nel vento a disegnare grafie armoniose, figlie di lontani deserti, trapiantate in città per narrarmi storie misteriose.

 

Come osservare nuvole, cercando forme, volti e animali, Gigi Viglione intravede nelle palme figure danzanti in un‘eleganza purtroppo non colta da chi assordato dai rumori di fondo della città. Come sinfonie naturali che cavalcano le pratiche new age della percezione delle energie nei dettagli delle cose.

Fa parte della poetica di Gigi Viglione riscontrabile anche in altri suoi lavori: ricercare il contenuto invisibile nella banalità delle cose dimostrando che esistono mondi celati che arricchiscono il patrimonio e il culto della bellezza da coltivare in se stessi.

 

La mostra consta di sei fotografie in bianconero. Sei dittici per esprimere, attraverso l‘accostamento, la dinamicità del movimento delle palme.

Realizzate su pellicola da lui sviluppata e stampa giclée fine art.

Un video di palme in movimento e al rallentatore, sempre in bianconero, anima ulteriormente la visione delle immagini esposte.

Una breve storia, essenziale, giusto il tempo per metterci di fronte a esseri viventi trascurati nella visione del paesaggio della città.

 

“È per questo le palme sono allegre

come coloro che hanno saputo soffrire in solitudine e ora si cullano nell‘aria, spazzano nubi

e dalle loro chiome consegnano inni alla luce [...]

Tremano, testimoni di un miracolo che conoscono soltanto loro”.

- Juan Vicente Piqueras, poeta valenziano da “Palme”, Ed. Empirìa, 2005

 

Bio

Gigi Viglione è nato a Napoli dove vive e lavora.

Dagli inizi degli anni ottanta sperimenta pittura, poesia visiva e grafica, percorsi creativi confluiti successivamente nella ricerca fotografica.

Luoghi interiori e della memoria, le città del Mediterraneo, isole, marine, forme delle architetture e atmosfere urbane, astrazioni poetiche svelate nella visione reale, sono alcuni tra i temi e la materia con cui compone

il suo racconto umano e fotografico.

www.gigiviglione.com

 

 

Palme, di Gigi Viglione

Porto Petraio

Napoli, Salita del Petraio 18 D - Adiacenze Stazione Funicolare Centrale Petraio

dal 6 al 14 maggio 2023

orari visite: giovedi 11 maggio, dalle 15:30 alle 19:30 e sabato 13 maggio, dalle 15:30 alle 01:00.

Mostra in occasione di “TangoNeta!, evento internazionale di tango che si svolgerà dall‘11 al 14 maggio



26.04.2023 # 6253
Peggy Kleiber e le emozioni della vita

Marco Maraviglia //

Mikael Siirilä, Endless Moment in mostra all‘Andrea Nuovo Home Gallery

Fotografie virate con tè. Sintesi minimaliste della vita quotidiana per una libera interpretazione

Untitled (rocks and man); Untitled (hand and wall); Untitled (bottle), e così via. Sono le didascalie per tutte le venti fotografie di Mikael Siirilä che resteranno esposte all‘Andrea Nuovo Home Gallery fino al 15 luglio.

Chiedo a Mikael perché “senza titolo” ma comunque indica i soggetti ritratti nelle sue foto: «Per lasciare un‘interpretazione libera, aperta, all‘osservatore».

Si tratta di Endless Moment, momenti infiniti che nella loro sintesi grafico-compositiva possono dare percezioni ed interpretazioni infinite. A seconda di chi le osserva.

 

Raccolgo frammenti e osservazioni autentiche della mia vita quotidiana e dei miei viaggi e li ricontestualizzo in camera oscura. Cerco immagini singolari e autonome che resistano all‘espressione narrativa e verbale. Il mio obiettivo è evocare un senso di calma, riflessione e il je-ne-sais-quoi.

 

Astrattismo, minimalismo, essenzialismo, fotografia riduzionista. Attraverso inquadrature ristrette, dettagli, close up, Mikael Siirilä sembra cavalcare quel concetto di less is more coniato dall‘architetto Peter Behrens e amplificato poi dal suo allievo Mies van Der Rohe. Mikael non ci mostra scene aperte con varietà di informazioni visive. Di un paesaggio innevato ne mostra la sua potenza monocolore, il suo spazio immenso pieno e vuoto allo stesso tempo, riportandoci alle proporzioni della realtà della scena con la presenza di un bambino su uno slittino nello sfondo. Una mano, una nuca o una semplice treccia, un piede o dei gradini di una scala, non sono altro che un pretesto per dimostrare forse che è lo spazio intorno che predomina. Uno spazio in cui il dettaglio è evidenziato se messo a margine. L‘occhio vuole sapere perché le dita di una mano sono poste in un certo modo, cosa c‘è oltre quell‘inquadratura. E si immagina, lasciandosi trasportare in un percorso che porta verso più vie d‘uscita.

 

Non sono interessato a progetti fotografici, argomenti specifici o narrazioni. Cerco invece impressioni piccole, silenziose, poetiche che appaiano sospese nel tempo, distaccate e solenni come oggetti senza etichetta in un museo di storia.

 

Il mondo fotografico di Mikael Siirilä ha un suo equilibrio contemplativo di ricerca tra il momento della ripresa, le scelte gestite in camera oscura e una post-produzione fisica fatta di interventi manuali sulle stampe consistenti in impercettibili ritocchi di pigmento rendendole tutte copie uniche. A prescindere dalla tiratura.

Il processo del suo lavoro comprende scelte tecniche che seguono la ripresa in sé. In camera oscura non stampa sempre ciò che è presente sul frame della pellicola, fa piccoli tagli dell‘inquadratura che a volte raddrizza o inclina leggermente per ottenere il giusto equilibrio geometrico della composizione.

Ottenuta la stampa su carta alla gelatina d‘argento, una volta asciugata, la immerge in un‘altra bacinella con del tè. E grazie all‘attenta lavorazione di questa fase, tutte le stampe possiedono la stessa intonazione del viraggio simil-seppia. «Perché usi il tè e non il caffè?», chiedo. Il caffè è “oleoso”, non gestibile. Non dà il risultato che vuole ottenere.

 

Alcune delle mie immagini sono trattate con il tè per creare un caldo colore avorio dorato. Dopo questo processo la fotografia viene nuovamente lavata, asciugata e appiattita a caldo per 1-2 giorni.

 

Le mie stampe alla gelatina d‘argento ottengono il loro tono caldo da un bagno accuratamente controllato di tè nero. Di molti possibili coloranti, i tannini naturali del tè sono atossici e resistenti alla luce.

 

Ispirato da fotografi come Masao Yamamoto per il viraggio al tè, da Renato D‘Agostin per i contrasti grafici, da Ralph Gibson per i close up, Mikael Siirilä è riuscito a creare un mix molto personale e riconoscibile, creando un unicum nel suo stile.


Inoltre, Mikael Siirilä possiede in camera oscura un sistema di filtraggio dell‘aria per decontaminare la camera oscura da pulviscoli che potrebbero intaccare le foto. Insomma, tutto concorre alla resistenza nel tempo delle sue stampe. Le fotografie di 150 anni fa, esistono ancora e lo saranno anche quelle di Mikael.

 

Bio

Nato a Helsinki nel 1978, Mikael ha studiato fisica e filosofia teoretica all‘Università di Helsinki. Siirilä è un artista della camera oscura e un imprenditore del design. Sin dagli anni ‘90 studia e perfeziona le tecniche fotografiche avvicinandosi alla fotografia come una pratica lenta e riflessiva.

Membro del collettivo internazionale AllFormat. È cofondatore e visual designer di Innome Oy (2000-2006) e visual designer di Nordenswan & Siirilä Oy (2006-2022). Ha partecipato a diverse mostre personali e collettive, tra cui: InCadaqués Festival, Spagna, 2022; PHOTO Cult magazine, Italia 2021; Zero Pixel Festival, Italia 2021; The Hand Magazine, USA 2021; Collective Paper, Danimarca; Hippolyte Korjaamo, Finlandia; Photo museums; Jaani Seegi galerii, Estonia; Shoot It With Film, online/USA 2020; Zero Pixel Festival, Italia 2020. Tra le pubblicazioni: Black + White Photography, WB Interview, 2023; L‘immagine più che la forma, Fotocult, Giugno 2021; The Hand Magazine – Interview, 2021; Analog Magazine, Svizzera 2019; LEON magazine, Finlandia 2017; Fisheye Magazine, online, Francia.

 

 

Mikael Siirilä

Endless Moment

Andrea Nuovo Home Gallery

Via Monte di Dio, 61, 80132 Napoli.

Dall‘8 aprile 2023 al 15 luglio 2023

Tel: +39 081 18638995

info@andreanuovo.com


Foto di copertina: Mikael Siirilä ritratto da Roberto Della Noce; courtesy Andrea Nuovo Home Gallery

20.04.2023 # 6250
Peggy Kleiber e le emozioni della vita

Marco Maraviglia //

Michael Ackerman, Homecoming. New York/Varanasi/Napoli

Tornando a casa, con un taccuino carico di appunti ai sali d‘argento, dai bordi strappati, come racconti da leggere dentro

Tornando a casa. Ma si è sicuri di tornare a casa? Siamo convinti di avere parametri certi che definiscano il concetto di “casa”?

Cos‘è una casa? Uno spazio dove sentirsi protetti e custodire roba accumulata durante la nostra esistenza che non potremo portarci dall‘altra parte della vita?

Un tetto che ti dia la sicurezza del focolare domestico con un partner, figli, il gatto o il cane, l‘angolino bar dove sai che puoi farti un cicchetto quando vuoi?

Il luogo dove hai acqua, gas, luce, elettrodomestici e il letto per dormire?

È tutto indispensabile?

Giovanni Verga alla fine dell‘800, con la sua novella La roba cercò di dirci qualcosa in merito.

Cosa serve per vivere? Forse la sola stessa vita è sufficiente. La casa è dentro di noi. Sentirsi a casa, e ovunque, è cosa diversa rispetto a essere a casa o di tornare a casa. Sentire o essere? Un po‘ shakespeariano il senso ma ci serve per trovare una chiave di lettura del lavoro di Michael Ackerman.

Sentirsi a casa in ogni luogo è forse una questione di stabilità emotiva esercitata vivendo l‘effimero, con la privazione, con la consapevolezza che nulla è per sempre. E quindi è possibile vivere con l‘essenziale. Dove ambizione e desiderio di possedere punti di riferimento fisici, sono sopraffatti dall‘esperienziale puro. Dagli istanti di centesimi di secondo che rubano il mondo che percorriamo.

A un madonnaro chiesi cosa provava nel sapere che dopo qualche giorno le sue opere disegnate sui marciapiedi scomparivano sotto il calpestio dei passanti e della pioggia: «È una sensazione bellissima. Impari a non legarti alle cose e che la vita continua». Puoi ricostruire ciò che è andato distrutto. Meglio o comunque diversamente. Tutto passa. Tutto ci scorre avanti ad alta velocità e non possiamo portarci tutto dietro. Ma forse dentro sì perché cuore e mente sono più capienti di una valigia o di un tir per un trasloco.

 

Non ho mai avuto la certezza di una casa. Sono nato in Israele, cresciuto a New York e ora vivo con mia moglie e mia figlia a Berlino. Ho sempre saputo di essere un outsider e mi sento legato ad altri outsider, ai paesaggi urbani e non, e agli animali che incarnano questo spirito. Sono guidato dal bisogno di guardare al di là della superficie e delle facciate. In un certo senso, di vedere l‘invisibile.

-Michael Ackerman

 

Michael Ackerman è uno sketcher della fotografia. I suoi sono schizzi ai sali d‘argento. È come se fossero acquerelli di luce realizzati con matite consumate. Dure, grasse o a carboncino. In questi appunti di carta fotosensibile si impongono la grana di pellicole tirate anche a 3200 ISO, le macchie di arresto parziale dell‘emulsione, vignettature, le infiltrazioni di luce di fotocamere vintage ormai non più a tenuta di luce.

È l‘effetto-Holga, la toy camera accessibile a tutti ma usata intenzionalmente e magistralmente per creare contenuti fotografici outsider. La fotocamera qui non serve per fare la bella o la buona fotografia, ma è l‘istante che fa la foto. L‘estetica qui è nella sveltina, intensa, piena, di vita vissuta. Perché la fotografia, quando è passione, è anche come un amplesso rubato dal tempo. E non è lo strumento che fa la foto, ma l‘istante e il ricordo che viene congelato in quell‘attimo stesso. Quel che resta.

 

Ackerman non cerca mai “l‘istante decisivo” come altri fotografi ma cattura quel momento tra i momenti, quell‘attimo in cui l‘inaspettato o l‘invisibile si rivela, cogliendo non ciò che vediamo, ma ciò che sentiamo.

- Sarah Moon, fotografa

 

Quel che deve restare è l‘emozione, l‘attimo, quel magico accordo tra luce, incontro col soggetto e scatto che non necessariamente deve mostrare il visibile, ma l‘intravisto o il percepito, il ricostruire tra i puntini della grana il vuoto: chiudere mentalmente ciò che non si vede ma c‘è. Come nudi velati che intrigano ma senza mostrare.

 

Queste di Michael Ackerman sono appunti sciolti, spaiati come pezzi di carta lasciati liberi sulla scrivania dopo aver parlato al telefono oppure raccolti come taccuini di viaggio. Alcune sequenze sono stampate come piccole fisarmoniche ricordando i souvenir vintage o certi blocchetti per appunti da viaggio della Moleskine.

 

I suoi ritratti, posati o fugaci, mettono a nudo le emozioni di un‘umanità che è allo stesso tempo cupa, tenera, vulnerabile, persino dolce. Sono frutto di profonda empatia e affetto.

Immagini composte in trittici, dittici, usate in sequenza, in formati diversi, scandiscono un ritmo e una narrazione quasi cinematografici.

- Cristina Ferraiuolo

 

Sono soggetti ripresi tra New York e Varanasi. Città ad alta densità di stimoli visivi. Alta densità di varietà umana, di spunti di vita e di vista. Sarebbe impossibile fotografare tutto e secondo i canoni tecnici classici. Perché se ne sminuirebbe il concept ackermaniano. Perché nelle metropoli tutto avviene in tempi esponenziali. Michael Ackerman nei suoi scatti volutamente “trascurati”, ci restituisce quelle atmosfere dove anche gli animali hanno un ruolo da protagonisti in quel rapporto di convivenza con gli umani sul pianeta.

 

Ma è lo “strappo” una delle caratteristiche più particolari del lavoro di Ackerman.

Come se fossero provini di stampa, parte delle foto esposte hanno i bordi strappati a mano. Il che fa tutt‘uno con la ricerca estetica di Michael Ackerman descritta fin qui.

E l‘apoteosi dello “strappo di Ackerman” è sulle pareti di un angolo della Spot home gallery, dove sono applicati ritagli di provini di stampa che fanno entrare idealmente il pubblico nella camera oscura di Michael.

Lo “strappo” come marchio di riconoscimento. Appunti di “acquerelli di luce” ai sali d‘argento, quasi come se fossero note di spesa strappate casualmente da un vecchio foglio di carta.

Perché tutto è effimero, riscrivibile. Il confine del definito è solo questione di forma mentis.

Chi torna a casa, sa che ritroverà quegli appunti e dove: dentro di sé. Riconoscendoli anche al buio perché la casualità dello strappo sui bordi, li rende diversi l‘uno dall‘altro. Ogni bordo è il segno di un ricordo emotivo, come se fosse raccontato in una specie di braille: "lo strappo Ackerman".

 

Biografia

Michael Ackerman è nato a Tel Aviv nel 1967. All‘età di 7 anni la sua famiglia è emigrata a New York, dove è cresciuto e ha iniziato a fotografare all‘età di 18 anni. Ha esposto in mostre personali e collettive in tutto il mondo e ha pubblicato 5 libri, tra cui End Time City, edito da Robert Delpire, che ha vinto il Prix Nadar nel 1999. Le sue opere sono presenti nella collezione permanente del Museum of Fine Arts di Houston, del Museum of Modern Art e del Brooklyn Museum di New York, della MEP e della Biliothèque Nationale in Francia, oltre che in molte collezioni private. Attualmente vive a Berlino.

 

 

Michael Ackerman

Homecoming

New York • Varanasi • Napoli

dal 13 aprile al 30 giugno 2023

Spot home gallery

via Toledo n. 66, Napoli

+39 081 9228816

info@spothomegallery.com

www.spothomegallery.com

 

 

In copertina: © Michael Ackerman. New York, 2021

17.04.2023 # 6249
Peggy Kleiber e le emozioni della vita

Marco Maraviglia //

Gianni Berengo Gardin. L‘occhio come mestiere

Oltre 200 fotografie che raccontano l‘Italia dal dopoguerra a oggi. Un mondo estinto o che sta scomparendo

Tenetevi forti! L‘uomo da quasi 2milioni di scatti fotografici è qui.

Quello che non usa mai il 50 mm perché preferisce il 35 mm per stare più dentro la scena. Quello che timbra dietro le sue stampe fotografiche “vera fotografia”, antagonista del digitale, perché lavora solo con pellicola e stampe ai sali d‘argento. Perché solo così sa che può toccarla e avvertirne il possesso. È il fotografo dai quasi 260 libri pubblicati tra cui 30 con il Touring Club Italiano. Perché i giornali lo facevano lavorare poco anche se ha collaborato con riviste come Domus, Epoca, Le Figaro, L‘Espresso, Time, Stern.

È quello che, dopo aver fotografato Giuseppe Ungaretti durante una manifestazione studentesca a Venezia, la polizia caricò e un poliziotto gli spappolò il pollice con una manganellata. E gli è rimasto il bitorzolo. E anche la foto del poliziotto che immortalò con la sua Leica mentre era rincorso.

Quello che ebbe da Ugo Mulas un simpatico rimprovero perché non conosceva la differenza tra una fotografia bella e una buona fotografia.

È quel fotografo che quando propose le sue prime fotografie di Venezia, otto editori che contattò gliele bocciarono perché non era una Venezia “turistica”. Ma gli pubblicò il libro un editore svizzero e fece il botto.

 

Eh sì, c‘è Gianni Berengo Gardin a Napoli. Classe 1930. In realtà a Napoli c‘è già stato diverse volte di persona per fotografare e alcuni degli scatti che ha fatto, sono presenti tra le oltre 200 fotografie in mostra alla Casa della Fotografia in Villa Pignatelli andando a implementare le immagini già esposte al MAXXI di Roma nel 2022.

Si suggerisce di andarci con un paio di tramezzini e acqua per osservarle tutte con calma.

Perché non è una passeggiata. Cioè sì, lo è ma lunga, nello spazio e nel tempo. Perché si attraversa l‘intero stivale, da Nord a Sud, dagli anni ‘50 a oggi.

Una faticata? No. Un piacevole viaggio che inizia dalle gigantografie che ritraggono i dettagli del suo atelier mansardato. Ordinato in maniera quasi maniacale: in una di queste foto non si vede perché è in bianconero, ma gli attrezzi per bricolage ritratti sono tutti dipinti in rosso per avere un certo ordine. Un ordine forse scaturito da un‘esperienza sgradita, se non traumatizzante: di quando durante un trasloco perse alcune foto che fece a Parigi, comprese quelle fatte a Jean Paul Sartre.

E poi si attraversano le altre sale con fotografie esposte in un percorso volutamente non cronologico. Ragazzi che ballano in spiaggia con un vecchio grammofono; un lungo bacio di una coppia sotto i portici e la durata di quel bacio è determinata dai piccioni a terra che sono mossi.

 

Sono un guardone. Il fotografo deve essere un guardone, un curioso, con uno sguardo che vada oltre la fisicità dei soggetti.

 

Le foto di Gianni Berengo Gardin sono tutte rigorosamente in bianconero. Perché è cresciuto col cinema, la tv, la fotografia in bianconero e il colore, come lui e altri grandi fotografi della sua generazione sostengono, distrae l‘attenzione dalle scene ritratte.

Nelle sue immagini vediamo un mondo che, per certi versi, sta scomparendo o è già finito. È la missione consapevole e progettuale di Berengo Gardin: lavorare per l‘archivio per tramandare ai posteri il “come eravamo”.

Come stava, cosa faceva, come viveva la gente nelle città italiane. Per le strade, sulle spiagge, durante le feste, i lavori in strada o, come quella di un basso napoletano da lui immortalato: un negozio di scarpe nella casa.  I villaggi Rom, i luoghi rurali, l‘Aquila colpita dal terremoto, i personaggi che ha incontrato come Cesare Zavattini che scrisse per lui alcuni testi dei suoi libri, Peggy Guggenheim, Sebastiao Salgado, Ugo Mulas, Dario Fo… E poi, gli operai delle fabbriche e dei cantieri. Indagini sociali e urbanistiche di un‘Italia che andava rinnovandosi, si trasformava durante il babyboom, fino a giungere negli ultimi anni alle foto di denuncia delle grandi navi a Venezia.

 

Amavo molto Venezia, poi è stata assassinata dal turismo.

 

Documenti fotografici che fanno ormai parte dell‘iconografia del Belpaese. Come le immagini realizzate per l‘Olivetti che mostrano l‘umanità della fabbrica con spazi destinati a servizi sociali e culturali per le famiglie dei dipendenti.

O quelle sulle condizioni dei degenti nei manicomi italiani, realizzate per il libro Morire di classe, in tandem con Carla Cerati. Immagini struggenti che sensibilizzarono ulteriormente l‘opinione pubblica e lo stesso Franco Basaglia che si batté per la Legge 180.

Alcuni suoi libri già documentano un‘Italia che non c‘è più, altri saranno documenti per il futuro.

 

Il vero DNA della fotografia è la documentazione.

Non sono un artista, non voglio passare per un artista, assolutamente… io sono uno che racconta quel che mi succede intorno, sono un testimone della mia epoca.

 

La fotografia per Gianni Berengo Gardin, non è un divertimento, ma un vero e proprio impegno sociale. Non ha frequentato scuole di fotografia, si è formato dalla lettura dei libri, entrando in contatto con i luoghi e le realtà sociali in essi descritte. A tal fine, furono per lui utili persino le figurine della Liebig di cui possiede ancora la collezione. E poi ha imparato da centinaia di libri di fotografia. Di vecchi fotografi e qualcuno tra i più giovani. E considera suo maestro assoluto Willy Ronis (1910-2009) per l‘aspetto della fotografia umanista.

 

L‘Italia di Giani Berengo Gardin è un mondo che scompare e, per certi versi è già finito. Come disse Goffredo Fofi, nelle sue fotografie vi sono volti dell‘epoca che non esistono più. Quelle espressioni di un popolo povero ma felice, laborioso in cerca di riscatto, creativo, intraprendente, è un‘altra storia.

Ma nulla scompare per sempre. Perché restano come testimoni gli oltre 250 libri che Gianni Berengo Gardin ha pubblicato. A volte collaborando con fotografi come Gabriele Basilico, Luciano D‘Alessandro, Ferdinando Scianna, l‘architetto Renzo Piano.

E alcuni di quei libri sono esposti in questa mostra, da vedere da soli o con i figli. Per mostrar loro “come eravamo”.

Magari inquadrando il QR code per essere accompagnati dalla voce di Gianni Berengo Gardin che racconta in prima persona aneddoti e ricordi legati alla sua vita personale e professionale.

 

 

 

L‘occhio come mestiere, Gianni Berengo Gardin

a cura di Margherita Guccione, Alessandra Mauro, Marta Ragozzino

Villa Pignatelli, Casa della fotografia- Napoli,

6 aprile - 9 luglio 2023

 

Foto di copertina: Una grande nave in bacino San Marco, Venezia, 2013; © Gianni Berengo Gardin/Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia

 

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