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27.09.2023 # 6340
I futuri possibili di Pino Dal Gal

Marco Maraviglia //

I futuri possibili di Pino Dal Gal

In esposizione 20 fotografie che immaginano futuri visionari, forse non auspicabili

Pino Dal Gal è un giovanottone veronese di 86 anni che non smette mai di stupirsi di fronte a ciò che ha innanzi alla sua fotocamera. Direi che ci sono tre età per ogni individuo: anagrafica, biologica e mentale. E l‘età mentale di Dal Gal sembra quella di un ragazzino puro. Di quelli che si pone sempre domande per scoprire il mondo. Il suo punto di vista di ciò che fotografa non è mai, quasi mai, dall‘esterno, ma dentro.

Rileva e poi rivela ciò che il soggetto che riprende vorrebbe raccontare di sé. Sposta, accantona, scavalca le sovrastrutture normalmente inviolabili e terrene dove si ferma l‘occhio umano, per insinuarsi in uno spettro invisibile di informazioni non dette, non descritte, ma percepibili. Come rallentare i battiti del cuore. Respirare lentamente. Distaccarsi da se stesso. Abbassare la soglia dei sensi per mettersi in contatto con una realtà irreale, surreale, metafisica. Immaginando di ascoltare racconti nella brezza delle energie che emanano i suoi soggetti. Senza parole ma fatti di essenze da ricostruire in significati da restituire attraverso le immagini.

Sembrerebbe una pratica mistica, stregonesca, sciamanica e forse lo è.

 

Immaginate di trovarvi a 86 anni. Avete visto quasi tutto della vita. Bellezza e bruttezza. Avete vissuto la parte più bella della vita italiana. A 30 anni vivevate il pieno del boom economico. Osservavate comunque con coscienza la rivoluzione cubana e la Guerra Fredda, la guerra in Vietnam, la rivoluzione studentesca e il movimento hippy. Un mondo che vi è corso dietro per 86 anni. A 50 anni avete vissuto il boom delle tv private e l‘apoteosi della pubblicità. Un mondo dove i grandi fenomeni culturali facevano a cazzotti con gli anni di piombo, il terrorismo ecc. ecc. Poi raggiungete l‘età in cui le nuove tecnologie iniziano a cambiare il mondo, i computer, internet, la fotografia digitale, gli smartphone, i riconoscimenti facciali, l‘intelligenza artificiale ma nel frattempo l‘Amazzonia viene disboscata e osservi tutte le altre le problematiche dell‘ambiente.

Ecco, a un certo punto della vita ti rendi conto di averne viste tante e immagini quel che potrebbe essere il futuro prossimo imminente e quello più lontano.

 

Futuri possibili ma non necessariamente auspicati.

La curiosità di un fotografo ma innanzitutto un uomo che immagina un futuro deprivato spesso della componente etica, morale e umana e quindi di un mondo depravato.

 

E nell‘inquietudine di un quadro apocalittico e catastrofico Dal Gal, in questo suo ultimo lavoro, presenta un “quadro” visivo della scena contemporanea che guarda al futuro, con una concreta e possibile visione che investe le persone e le cose, l‘ambiente e il paesaggio, i territori e le nostre città.

Il conflitto bellico, esteso in più parti del pianeta, la difficoltà a pensare un‘ecosostenibilità dell‘ambiente e la spersonalizzazione dell‘individuo, trovano nelle opere di Dal Gal una propria linea e idealità della rappresentazione visiva, attraverso figure e paesaggi che il fotografo veronese rilancia quale prospettiva sul mondo grazie al suo attento e profondo sguardo”.

- Enrico Gusella

 

È come osservare una macchina del tempo che spara cartoline dal futuro i cui destinatari sono quelli che dovrebbero salvaguardare il presente per costruire un futuro sostenibile e a misura d‘uomo.

“Cartoline” che fanno da monito. Immagini che sembrano voler anticipare paesaggi desertificati, automi ormai inservibili. Una prospettiva che Pino Dal Gal non auspica di certo ma che con il suo occhio da “sciamano” ci pone avanti affinché resti la volontà di non perdere bussola e timone per arginare i disastri planetari e la spersonalizzazione dell‘individuo.

 

 

Breve Biografia (dal comunicato stampa)

Pino Dal Gal (1936) vive e lavora a Verona.

Inizia il suo percorso fotografico con il neorealismo degli anni Cinquanta e Sessanta, conseguendo numerosi riconoscimenti e premi nazionali.  Negli anni Settanta lavora  ai servizi editoriali della A.Mondadori e, in seguito, apre a Verona la prima agenzia di pubblicità e marketing, attiva fino al 2008. Nella propria ricerca fotografica Dal Gal, ispirandosi al cinema di Michelangelo Antonioni ha narrato costumi e società, persone e solitudini, con i “racconti” La Mensa, Cimitero d‘auto, Alberi, ma anche noti artisti come Paloma Picasso, lo scultore spagnolo Miguel Berrocal con il quale ha avuto un lungo sodalizio e una Mostra dedicata alla Galleria Il Diaframma/MI 1972 (testo di Lanfranco Colombo), oltre all‘artista australiana Vali Myers (V.Myers Trust, Melbourne).  Successivamente si focalizza su denunce sociali, come testimoniano le foto di “Chicken Story” e “La Cava”, esposte nel 1976/77 al Museo di Castelvecchio di Verona nella mostra antologica curata dal direttore  Licisco Magagnato. Affascinato dalla potenza della natura ha immortalato le rocce antropomorfe di Capo Testa e pubblica il suo primo libro “Là dove parla il silenzio” (testo di Italo Zannier).

Dalla fine degli anni ‘70 è presente alla HRC Gernsheim‘s Collection di Austin (Texas) - la più importante collezione mondiale di fotografia – che nel 2013 espone all‘Hengelhorn Museen di Hildesheim in Germania nella mostra internazionale “The Birth of Photography” (curatori e catalogo Wieczorek, Claude W.Sui).

Nel 2000 a Verona, al Centro Internazionale di Fotografia Scavi Scaligeri,  la sua grande mostra antologica a cura di Lanfranco Colombo, Flaminio Gualdoni e Giorgio Cortenova, allora direttore della Galleria d‘Arte Moderna di Verona. Nello stesso anno pubblica il libro “Emozioni. Immagini luci e silenzi sul Po”, con una presentazione di Alberto Bevilacqua e Italo Zannier a cui segue la Mostra personale “Chicken Story”, testo di Piero Racanicchi, alla Keith De Lellis Gallery  a N.Y.C. Nel 2003 presenta “Soul Shapes” Mostra personale p/ Swinger Art Gallery Verona (testo catalogo (Flaminio Gualdoni). Sue recenti mostre hanno avuto luogo al C.R.A.F di Spilimbergo “Il fiume e altri racconti” testo  di Luigi Meneghelli (2018/2019);  Senigallia con “Mattatoi” Fotografie di Pino Dal Gal e Mario Giacomelli” (2021) cura e testo di Simona Guerra.

 

 

Un futuro possibile. 20 fotografie

di Pino Dal Gal

Villa da Porto Barbaran

Via L. da Porto, 36050 Montorso vicentino VI

Inaugurazione venerdì 29 settembre 2023 ore 19.00

Fino al 15 ottobre

25.09.2023 # 6339
I futuri possibili di Pino Dal Gal

Marco Maraviglia //

Quando Stefania Adami decise di andare adagio sui Quartieri Spagnoli

I vicoli più fotografati di Napoli dove gli abitanti non sono folklore

Stefania Adami con la sua personale Adagio Napoletano, visitabile fino al 12 ottobre, apre il nuovo ciclo di mostre fotografiche presso Movimento Aperto in via Duomo 290/c, dell‘artista e gallerista Ilia Tufano.

 

«Sono foto fatte sui Quartieri Spagnoli»

«Eh, ma ce le ho anch‘io»

«Sì, ma queste non sono “street photography”»

«Io ho il ritratto di Tarantina»

«Sì, ma è frontale, asettica, un semplice “trofeo”. Giusto per dire che l‘hai fotografata. E poi tutte le tue foto sono in bianconero e non so perché o forse lo immagino»

 

Più o meno questa potrebbe essere una breve conversazione con chi ha scattato spesso foto in uno dei quartieri di Napoli più battuto da decine di fotografi dal dopoguerra ad oggi. Del tipo “lo potevo fare anch‘io”.

Tanti i documenti fotografici di denuncia sociale, di esaltazione folkloristica, di ironia popolare che non raramente ridicolizzano certi aspetti locali restituendo l‘apoteosi dell‘oleografia partenopea. Il pittoresco banale. Come quelle cartoline, ormai sbiadite dal sole, esposte fuori la bottega di souvenir e messe a basso prezzo per improbabili collezionisti del vintage.

 

Si tratta di un territorio che negli ultimi anni si è trasformato divenendo di alta curiosità turistica. Dove finanche i turisti stranieri, tra pizzerie, trattorie, panni stesi, “via Totò e Peppino” (via Portacarrese a Montecalvario) e palazzi del ‘600, vanno a visitare il “tempio di D10S” con annesso murale che negli anni pure è stato soggetto a trasformazioni e restauri.

Stefania Adami nelle sue foto non ha ripreso nulla di turistico, non ha spettacolarizzato un luogo per compiacere turisti a caccia di folklore, antropologi, urbanisti, detrattori e denigratori di una parte di Napoli.

A 27 anni venne da Lucca per lavorare a Napoli. Prese casa a ridosso dei Quartieri e la mattina, per evitare le attese dei trasporti pubblici, li attraversava per andare al lavoro. Senza guardare in faccia a nessuno, con gli occhi sui basalti. A passo svelto. Era un periodo in cui percorrere quei vicoli sembrava come addentrarsi in un territorio astioso dove “bisognava stare attenti”.

Poi Stefania Adami, con la sua indole un po‘ ribelle, decise nel tempo di rallentare, guardarsi intorno e…

 

…passo dopo passo, con sorpresa, quei “malfamati” vicoli senza sole diventarono la melodia più accogliente. Si tinsero di colore umano ai miei occhi, offrendomi un ventre materno popolato di sorrisi nuovi e d‘inverosimile generosità.

 

 Volse quindi una nuova modalità di osservazione che cavalcava i versi di una vecchia canzone:

 

Si vuje vulite bbene a ‘stu paese, fermateve ‘nu poco rint‘ e viche, guardate rint‘ ‘e vasce e for‘ ‘e cchiese. Venite insieme a me, pe‘ strade antiche, invece e cammenà vicino ô mare…

(Se volete bene a questa città, fermatevi un poco nei vicoli, guardate dentroai bassi e fuori le chiese. Venite con me, per le strade antiche, invece di camminare vicino al mare)

- Roberto Murolo “Adagio Napoletano”

 

E nasce il suo progetto: Adagio Napoletano.

Gli occhi di una toscana fermano il tempo tra i vicoli più fotografati d‘Italia in un‘atmosfera ovattata, senza rumori, con immagini dall‘intonazione calda. Come caldo è il rapporto che è riuscita a stabilire tra lei e i soggetti ritratti.

Passeggia con la fotocamera tra quei vicoli scrollandosi di dosso i pregiudizi e inizia a conoscere gli abitanti dei bassi. Da vicino. Dentro i loro sorrisi. Attraversando i loro occhi. Per ritrarli in maniera confidenziale. E loro collaborano per le pose.

Salvatore nel frattempo a 58 anni, «se n‘è juto». Viveva tra icone religiose di madonne, Padre Pio e Gesù Cristo. E il quadretto di Marilyn Monroe ai suoi piedi nella foto è quello che dà contemporaneità al suo volto avvolto da una nuvola di fumo.

In un quartiere popolare si fuma tanto per trascorrere il tempo, ma una signora fuma fuori casa per rispetto del figlio che dorme. E se lo guarda con occhi materni che possiamo solo immaginare perché è di spalle.

Tarantina assorta nei suoi pensieri, sembra non avere le rughe che in tanti conosciamo, la luce radente sul suo profilo ne esalta una bellezza dolce e vissuta che probabilmente lei sente di avere.

Una corona di palloncini dopo la festa, di quelle che adornano i portoni per un matrimonio o una comunione, non viene distrutta scoppiando i palloncini stessi, ma è accantonata su un muro, come due paia di scarpe da donna. Perché “possono servire sempre a qualcun altro”. Quasi a voler raccontare quel fil rouge di solidarietà che lega gli abitanti. Perché i bassi dei Quartieri sono una grande casa, un‘unica famiglia con finestre i cui affacci sono interconnessi. Immaginando un «favorite, buon appetito» che si dicono forse a ora di pranzo come quando si pranzava sulle pedane delle cabine al mare.

E in quell‘umanità varia si scorge l‘autoironia, una nascosta eleganza dignitosa anche nello stare in vestaglia per strada. Dove la tv è accesa 24h e si prepara da cucinare fin dalle 10.00 del mattino. Tra sedie fuori i bassi, “bancarielli” (banchetti) e edicole sacre. Mentre qualcuno si arrangia in casa con qualche lavoretto.

 

Sono i Quartieri Spagnoli di Stefania Adami. Intimi. Morbidi. Lenti. Adagi. Un Adagio Napoletano.

 

 

Stefania Adami

Fotografa per passione dall‘età di 11 anni.

Numerose le mostre personali e collettive in tutta Italia e le pubblicazioni di libri fotografici.  L‘opera “L‘inquiLinea del 2014” è esposta in via permanente nel Museo a cielo aperto di “Bibbiena Città della Fotografia”.

 

 

 

Adagio Napoletano

di Stefania Adami

a cura di Giovanni Ruggiero

Movimento Aperto, via Duomo 290/c, a Napoli

dal 20 settembre al 12 ottobre 2023

il lunedì e il martedì ore 17-19, il giovedì ore 10.30-12.30 e su appuntamento chiamando i numeri 3332229274 - 3356440700

18.09.2023 # 6336
I futuri possibili di Pino Dal Gal

Marco Maraviglia //

Il Real Albergo dei Poveri visto da Giancarlo De Luca

Dieci anni di esplorazione fotografica lenta nel più grande edificio di Napoli

Venerdì 22 settembre alle 16.00 sarà inaugurata al MANN – Museo Archeologico Nazionale di Napoli la mostra fotografica di Giancarlo De Luca “Il Real Albergo dei Poveri” a cura di Roberta Fuorvia.

Una mostra con oltre venti fotografie in bianconero che documentano i dieci anni di esplorazione di De Luca nel maestoso edificio a ridosso del Real Orto Botanico che affaccia su piazza Carlo III.

 

È il palazzo più grande di Napoli. Uno dei più maestosi d‘Europa. Centodiecimila metri quadrati di superficie coperta. La Reggia di Caserta, per intenderci, è di quarantasettemila metri quadrati.

La costruzione del Real Albergo dei Poveri fu voluta dal re Carlo III di Borbone che molti storici, in prima linea Benedetto Croce, ne hanno apprezzato particolarmente la sua visione politica.

Detto anche Palazzo Fuga, dal nome dell‘architetto a cui fu affidato l‘incarico per la sua costruzione, servì ad accogliere la popolazione povera del Regno di Napoli. E così fu.

Ospitò anche orfani e quei bambini abbandonati nella ruota degli Esposti del Complesso Monumentale dell‘Annunziata, una volta fattisi grandicelli.

Ospiti che avevano l‘opportunità di istruirsi, formarsi, imparare un mestiere. Un grande progetto di sussistenza che poteva portare all‘autonomia quotidiana chi non aveva altre strade da intraprendere per vivere.

 

Giancarlo De Luca per dieci anni ha frequentato il Real Albergo dei Poveri in occasione di eventi, visite guidate, festival, aperture occasionali, approfittando ogni volta di scoprire in esso nuovi punti di vista, scorgendo qualche dettaglio insolito, scorci, angoli per tanti anni obliati e non battuti dai consueti visitatori.

 

ho spiato dalle finestre tra i frantumi dei vetri immedesimandomi negli ospiti che avevano riempito di voci e corpi quei luoghi così fuori posto nella loro attuale vuota vastità.

 

Nonostante alcuni spazi siano messi a regime e funzionanti, Giancarlo De Luca principalmente ci mostra con le sue fotografie le zone più abbandonate e che in parte saranno oggetto di restauro grazie anche ai fondi del PNRR. Finestre murate che dopo il restauro probabilmente saranno ripristinate. Scheletri di sedie da scuola accatastate. Erbacce selvagge sparse sui tufi e generate dagli escrementi di piccioni. Zone ancora puntellate in seguito al terremoto dell‘80. E poi ancora, corridoi a tunnel che portavano alle camere degli ospiti. Stanze con volte a botte con rimanenze di affreschi settecenteschi. Dettagli di trompe-l‘oeil.

Immagini da scrutare per scoprire tanti dettagli e giocare mentalmente a intercettare quali facciano parte dei vari periodi storici che si sono succeduti con i vari interventi costruttivi e di ristrutturazione. Tra contaminazioni di strutture in tufo e cemento armato. Se quel che resta di un pavimento sia del ‘700 o di metà ‘800 o più recente. Chiedersi perché nella parte di un muro in tufo c‘è come un rappezzo di mattoni in cotto. E immaginare, attraverso le vivicissitudini di chi ha abitato questo luogo, attraverso tracce come graffiti, lavatrici dismesse, scarpe e pentolame consumato dal tempo.

Perché la fotografia, insegna Walter Benjamin, è strumento documentale ma anche fonte per una lettura critica degli spazi.

Immagini da osservare come voler fare un‘autopsia a un gigante buono di cui presto, si spera, tornerà a vivere in buona parte.

 

… mi sembra doveroso affidare alla cultura collettiva un pezzo importante della sua memoria.

… da consegnare alle future generazioni, per ricordare cosa è stato e cosa può diventare un posto quando – nato per ospitare circa ottomila persone – finisce per essere dimenticato.

 

In esposizione 20 fotografie che restituiscono uno spaccato dell‘edificio monumentale e che è parte integrante della storia di Napoli.

Un lavoro che si integra con quello artistico-fotografico già svolto in passato da altri autori, offrendo un‘ulteriore narrazione per una filologia architettonica interpretabile da contemporanei e posteri. Per quando un giorno nulla sarà come prima.

 

Oggi che siamo, finalmente, alle porte di un‘attività di restauro e riqualifica dell‘Albergo, mi sembra doveroso affidare alla cultura collettiva un pezzo importante della sua memoria. Presto la necessaria e auspicata attività di ristrutturazione eliminerà calcinacci venuti giù sotto il peso del tempo, rimuoverà la vernice scolorita e screpolata che ancora resiste su qualche ringhiera, conferirà freschezza agli ambienti polverosi e desolati.

 

Non poteva mancare la pubblicazione del volume con le immagini più rappresentative di Giancarlo De Luca, che sarà presentato a dicembre, con testi suoi, del Sindaco Gaetano Manfredi, del Direttore del MANN Paolo Giulierini, della curatrice Roberta Fuorvia, dell‘arch. Francesca Brancaccio, del fotografo Luciano Ferrara e dello scrittore Gennaro Rollo,

 

… E dunque non poteva mancare il ricordo dell‘ultimo dei Direttori dell‘antica Fabbrica, Gennaro Luce, che recentemente ci ha lasciati, restando però impresso per sempre nelle immagini ingiallite donatemi dal figlio

 

 

Il Real Albergo dei Poveri

di Giancarlo De Luca

a cura di Roberta Fuorvia

MANN – Museo Archeologico Nazionale di Napoli

Piazza Museo 18/19 - Napoli

Collezione Farnese – Sale 25-26

dal 22 settembre all‘11 dicembre 2023

 

Inaugurazione venerdì 22 settembre 2023 ore 16.00

13.09.2023 # 6334
I futuri possibili di Pino Dal Gal

Marco Maraviglia //

Straordinarie quelle donne!

Oltre 100 ritratti di Ilaria Magliocchetti Lombi per la campagna INdifesa di Terre des Hommes

Oltre 100 fotografie realizzate da Ilaria Magliocchetti Lombi, su un‘idea della curatrice Renata Ferri, di donne che si sono affermate nel mondo dello spettacolo, della politica, dello sport, del giornalismo, letteratura, editoria, scienza, arte… saranno in mostra allo spazio Extra Maxxi di Roma dal 13 settembre al 6 ottobre.

Oltre cento storie di donne che, in barba ai pregiudizi e discriminazioni di cui sono spesso colpite, ce l‘hanno fatta.

 

Protagoniste contemporanee che hanno vinto battaglie professionali con sacrificio, studio, perseveranza, dedizione. Facendo slalom tra mobbing, indifferenza e spesso svolgendo contemporaneamente anche il “lavoro” più delicato e complesso di questo mondo: quello di madre. Ma c‘è chi ha rinunciato ai figli per la carriera. Perché, tra l‘altro, alcune aziende non accettavano donne decise a fare figli e il congedo parentale su modello svedese, era una lontana chimera.

 

Mediamente lo stipendio delle donne in Italia è dell‘11% in meno rispetto a quello degli uomini.

Donne pluri-laureate che, in certi ambienti di lavoro, sono appellate “signora” e non con il “dott” che sembra riservato stranamente solo agli uomini. O, peggio, usare l‘appellativo “giovane” per una donna quando si ritiene non abbia competenze ed esperienza per pregiudizio o voluta arroganza.

E il cat calling? Il body shaming? Le toccatine non consensuali nell‘ambiente di lavoro? E il non potersi sentire femminile e piacersi, coccolarsi, truccandosi un po‘ e indossare una minigonna andando al supermercato?

Senza parlare delle denunce per stalking, quelle rimaste inascoltate che rischiano di sfociare in finali tragici.

Per dire. Perché non è tutto. In certi luoghi del mondo le cose vanno anche peggio.

 

La mostra è una carrellata di ritratti tutti in verticale, in primo piano, figure intere, piani americani. Immagini sobrie senza essere state scattate con l‘intento di spettacolarizzare i soggetti che sono invece ripresi nella loro semplice personalità.

Perché la fotografa Ilaria Magliocchetti Lombi non ha bisogno di autocelebrarsi attraverso questo lavoro visto che la sua attività è ben consolidata con grandi referenze tra cui pubblicazioni su riviste anche internazionali come Vanity Fair, Rolling Stone, Der Spiegel, El Pais Semanal e tante altre.

Perché qui non si tratta di presentare un lavoro fine a se stesso, ma di un‘operAzione di sensibilizzazione.

 

“Straordinarie” è una sfida agli stereotipi di genere che trasforma il paradigma della donna-vittima in modello di riferimento culturale e politico. Protagoniste del nostro presente, hanno accolto l‘invito alla messa in scena del ritratto fotografico per fare di questa esposizione un corpo unico di volti e voci, una tessitura di memorie, confidenze e dediche.

- Renata Ferri, ideatrice e curatrice della mostra

 

Tra le tante donne ritratte ci sono Alessandra Ferri, Anna Bonaiuto, Concita De Gregorio, Elodie, Emma Bonino, Giovanna Botteri, Ilaria Capua, Ilaria Cucchi, Lella Costa, Liliana Cavani, Liliana Segre, Michela Murgia, Milena Gabanelli, Serena Dandini, Valeria Valente e tante altre personalità di cui alcune anche attiviste riguardo le criticità sulla condizione femminile.

Ogni foto è accompagnata da didascalie con breve biografia delle donne ritratte.

 

La mostra è parte della campagna “indifesa nata nel 2018 (una sorta di gioco di parola: in difesa di indifese), che Terre des Hommes porta avanti ormai da 12 anni per la protezione dei diritti delle bambine e delle ragazze in Italia e nel mondo, con progetti concreti sul campo tra cui anche iniziative di sensibilizzazione come questa mostra, rivolgendosi alle istituzioni e al grande pubblico.

 

Durante i giorni di apertura per le scuole verranno realizzati incontri e visite ad hoc e all‘interno del museo, la mattina del 6 ottobre, verrà presentato il XII Dossier indifesa, l‘annuale report pubblicato da Terre des Hommes, attiva dal 1960, sulla condizione delle bambine e delle ragazze nel mondo.

La mostra è stata realizzata grazie al prezioso sostegno di Deloitte con il patrocinio di Fondazione Deloitte, che ha sposato i valori promossi dal progetto ed è main partner dell‘iniziativa.

 

Foto di copertina

alcune tra le foto in mostra: Elodie, Alessandra Ferri e Serena Dandini; © Ilaria Magliocchetti Lombi

 

Straordinarie, protagoniste del presente

Ideata da Renata Ferri, fotografie di Ilaria Magliocchetti Lombi

Per Terre des Hommes

Spazio Extra MAXXI

Via Guido Reni, 4/A - Roma

dal 13 settembre al 6 ottobre 2023

Ingresso gratuito

Orari di apertura:

lunedì chiuso
da martedì a domenica 11.00 – 19.00

24.07.2023 # 6307
I futuri possibili di Pino Dal Gal

Marco Maraviglia //

Dorothea Lange, oltre 200 fotografie al Camera di Torino

Racconti di vita e di lavoro. Fino all‘8 ottobre in mostra una grande retrospettiva di Dorothea Lange

Migranti. Ci son sempre stati.

Da dove fuggono le persone, perché migrano, come vivrebbero se continuassero a restare nei loro territori? Facile dire «è la guerra e la povertà che li fanno andar via», ma dove sono i documentari che mostrano le vite all‘estremo di chi vuol scappare? Quante immagini riprese all‘interno dei centri d‘accoglienza abbiamo? Quante foto mostrano le condizioni di lavoro di chi ha lasciato famiglia e la propria terra? Esiste una filiera documentaria dal disagio in terra natia fino alla “sistemazione” finale del migrante?

 

Tra il 1931 e il 1939 in Canada e Centro America ci fu il Dust Bowl. Tempeste di sabbia causate da decenni di un‘agricoltura inadeguata. Mancanza di rotazione delle colture, terreni arati in profondità distruggendo l‘erba che garantiva idratazione e coesione. Terreni inizialmente fertili che si ridussero in polvere e sabbia e il forte vento ci mise il suo seppellendoli, devastando le case, i mulini, i granai furono abbandonati.

Ci fu un esodo di oltre mezzo milione di americani che restarono senza abitazione, senza terre e quindi senza più lavoro piombando nella totale povertà.

 

Dorothea Lange, proveniva dall‘esperienza di fotografa documentaria del periodo della Grande Depressione del 1929 che impattò economicamente anche sui ceti medi. Durante quel periodo immortalò gruppi di persone disoccupate in strada, gente che dormiva sull‘asfalto, senzatetto, file alle mense per poveri. Una tragedia umana i cui metodi di approccio per documentare con la fotografia gli effetti del Dust Bowl, furono analoghi.

Dorothea, con quel che divenne il suo secondo marito, Paul Taylor, iniziò a seguire l‘esodo da vicino per conto dello Stato della California. Le sue foto attirarono l‘attenzione del governo federale, che stava formando la Farm Security Administration (FSA) sotto il governo del presidente Roosvelt. L‘FSA faceva parte del programma New Deal, il piano economico per risollevare le popolazioni americane colpite dalla grande crisi. 

Dorothea Lange lavorò quindi più volte per la FSA ed oggi ci ritroviamo un patrimonio fotografico che documenta la crisi di quegli anni e che in parte sono in mostra al Camera di Torino.

Chiediamoci quali governi oggi incaricano i fotografi per documentare le trasformazioni sociali, del territorio per opera dell‘uomo o della natura. Chiusa parentesi.

 

Migrant Mother scattata nel 1936 è l‘immagine più conosciuta di Dorothea Lange. Ormai un‘icona di quell‘album dell‘immaginario collettivo dove vi sono le foto più famose del mondo.

Una giovane donna che mostra più dei suoi 32 anni, un volto sofferto per il dramma di aver perso tutto e trovarsi in un presente incerto. Si intravede un bambino tra le sue braccia e altri due le stanno vicini sulle spalle. Con i volti girati. Forse perché consapevoli di essere diventati “diversi”. Catapultati in una in un‘altra realtà, difficile, improvvisamente nomade.

Un‘icona, sì, ma tra le foto di Dorothea Lange ve ne sono ben altre che raccontano quel periodo.

Fattorie abbandonate sommerse dalla sabbia, baracche costruite alla buona con arredamento minimo, migranti a piedi in lunghe strade nel deserto con bagaglio essenziale in spalla, un cartello pubblicitario sembra prendersi gioco di loro con il claim “nex time try the train”, intere famiglie accampate in vecchi furgoni…

Dorothea Lange nel 1919 aprì uno studio come ritrattista. E quindi nei suoi reportage non potevano mancare anche i ritratti delle vittime dell‘esodo del Dust Bowl e dei momenti epocali che cambiarono l‘assetto economico americano.

Sguardi senza gioia, in quei ritratti. Persi nel vuoto. Impercettibili accenni di sorrisi e dove una chitarra o cuccioli di cani possono dare un senso alla vita che sarà.

E forse quell‘abilità di empatia ritrattistica si è maturata in seguito a due eventi che la segnarono: la poliomielite che le procurò un deficit permanente a una gamba e il padre che abbandonò la sua famiglia quando aveva appena 12 anni.

È fotografia documentaria. Quella di Dorothea Lange di cui John Szarkowski disse «per scelta un‘osservatrice sociale e per istinto un‘artista».

 

 

Dorothea Lange (dal comunicato stampa)

(Hoboken, 1895 - San Francisco, 1965)

Dorothea Lange si avvicina alla fotografia nel 1915, imparandone la tecnica grazie ai corsi di Clarence H. White alla Columbia University. Nel 1919 apre il proprio studio di ritrattistica a San Francisco, attività che abbandona negli anni Trenta per dedicarsi a una ricerca di impronta sociale e a documentare gli effetti della Grande Depressione. Fra il 1931 e il 1933 compie diversi viaggi nello Utah, in Nevada e in Arizona. Nel 1936 si unisce alla Farm Security Administration (FSA). All‘interno di questo progetto epocale realizza alcuni dei suoi reportage più famosi, nonostante alcuni contrasti con Roy Stryker (a capo della divisione di informazione della FSA) in merito alle proprie scelte stilistiche. Nel 1940 ottiene un Guggenheim Fellowship (un importante riconoscimento concesso ogni anno, dal 1925, dalla statunitense John Simon Guggenheim Memorial Foundation a chi ha dimostrato capacità eccezionali nella produzione culturale o eccezionali capacità creative nelle arti.). All‘inizio degli anni Cinquanta si unisce alla redazione di Life e si dedica all‘insegnamento presso l‘Art Institute di San Francisco. Muore nel 1965, a pochi mesi dall‘importante mostra che stava preparando al Museum of Modern Art di New York. Fra le esposizioni più recenti si ricordano Politics of Seeing al Jeu de Paume di Parigi nel 2018 e Words & Pictures al MoMA nel 2020.

 

 

 

 

Dorothea Lange. Racconti di vita e lavoro

a cura di Walter Guadagnini e Monica Poggi

Visitabile in contemporanea: FUTURES 2023: nuove narrative

a cura di Giangavino Pazzola

CAMERA - Centro Italiano per la Fotografia

Via delle Rosine 18, 10123 - Torino www.camera.to

dal 19 luglio all‘8 ottobre

 

Orari di apertura (Ultimo ingresso, 30 minuti prima della chiusura)

Lunedì 11.00 - 19.00

Martedì chiuso

Mercoledì 11.00 - 19.00

Giovedì 11.00 - 21.00

Venerdì 11.00 - 19.00

Sabato 11.00 - 19.00

Domenica 11.00 - 19.00



Copertina:

Dorothea Lange Toward Los AngelesCalifornia, 1937 The New York Public Library | Library of Congress Prints and Photographs Division Washington

Foto sotto:

Dorothea Lange Destitute pea pickers in California. Mother of seven children. Age thirty-two. Nipomo, California, 1936 The New York Public Library | Library of Congress Prints and Photographs Division Washington



18.07.2023 # 6303
I futuri possibili di Pino Dal Gal

Marco Maraviglia //

Pasquale Palmieri fotografo di scena del cinema di Mimmo Paladino

Una mostra fotografica di Pasquale Palmieri a Villa Campolieto svela alcuni retroscena dell‘arte di Mimmo Paladino

C‘è qualcosa di cui molti non sanno.

L‘artista Mimmo Paladino, uno dei massimi esponenti della Transavanguardia italiana, quello della Montagna di sale in piazza Plebiscito nel ‘95, dei grandi cavalli stilizzati, dei “dormienti” che ricordano i resti dei pompeiani sepolti dalla lava, delle illustrazioni d‘arte dell‘Iliade e dell‘Odissea. L‘artista le cui opere sono tempestate di simbolismi arcani e universali. Quello che ritiene Don Chisciotte non un folle ma colui che riesce a guardare un mondo oltre che l‘uomo non è in grado di vedere e quindi metafora dell‘artista: «costruisce e inventa con la parola, con il segno e con il racconto un mondo che probabilmente esiste e che forse noi abbiamo perso la capacità di guardarlo».

 

Bene, molti forse non sanno che Mimmo Paladino tra colori, sabbia, pietra, tele, disegni e sculture, è anche autore di film. Ovvio, filmati d‘arte. Perché per lui il grande schermo è come una tela dove poter lavorare ed esprimersi utilizzando altri materiali: la musica e il suono, la coralità, la luce, i movimenti di macchina e quelli degli attori. Raccontando storie oniriche e surreali che toccano le corde dei sentimenti e dei pensieri del mondo terreno.

Artista a 360° quindi e, con i film Quijote (Don Chisciotte) e La Divina Cometa, raggiunge la vetta della sua espressione artistica in maniera totale.

 

E c‘è questa mostra di 45 grandi fotografie di scena a colori del cinema di Paladino scattate da Pasquale Palmieri, implementate da circa 40 fotografie in bianconero di backstage, che riservano non poche sorprese.

Immagini allestite, al primo piano di Villa Campolieto, non in senso cronologico, ma secondo tematiche, parallelismi tra un film e l‘altro di Paladino.

Quijote (2006), La divina cometa (2022), i corti Labyrintus (2013), Il Sembra l‘Alzolaio (2013) e Ho perso il cunto (2017) sono i filmati che Pasquale Palmieri ha seguito immortalando quelle fasi di lavorazione che normalmente restano segrete e sconosciute al pubblico: ciò che sta intorno la macchina da presa, le pause per decidere l‘inquadratura di una scena, il ripasso del copione, le prove fuori ciak, le chiacchiere tra attori, maestranze e Paladino. Che qui non considererei regista, ma un designer dell‘arte filmica. Perché dalle foto di Palmieri si evincono i dettagli delle scenografie e di oggetti di scena come le ali di un angelo che sono rami d‘orati, blocchi di ghiaccio, i suoi segni simbolici tipici, limbi di paesaggi senza tempo e altre invenzioni visive che rasentano o cavalcano il cinema surrealista e quello più recente di Fellini.

 

Le fotografie di Pasquale Palmieri non tendono a raccontare soltanto la cronaca di ciò che c‘è e avviene sul set, ma principalmente ciò che vede lui, ciò che lo incuriosisce, per comprendere le sue osservazioni in un dialogo con se stesso. Tende insomma a non ricostruire necessariamente, attraverso le sue fotografie, la storia dei film.

Perché le tipiche inquadrature girate dalla macchina da presa esistono già nel girato stesso. E allora va di controcampi, campi stretti, istanti che non vedremo mai nei film ma che arricchiscono la documentazione del lavoro di Paladino. Smaschera bugie del cinema, compiacendo lo spettatore che è ghiotto del “disvelamento dell‘inganno”.

 

Non di rado il regista si rammarica di non avere un buon controcampo che invece si ritrova nelle fotografie di scena. Insomma con la fotocamera si possono aggiungere alle bugie del cinema le proprie invenzioni: è un bel gioco, e a dirla tutta è il solo motivo per cui amo questo faticosissimo genere di fotografia!

- Pasquale Palmieri, conversazione con Maria Savarese

 

È sorprendente vedere in queste foto la presenza di Lucio Dalla e Francesco De Gregori al fianco di attori professionisti come Alessandro Haber o i fratelli Servillo. Contaminazioni artistiche che Palmieri non si fa sfuggire riuscendo a caratterizzarli, (de)contestualizzarli ed estraendone la loro personalità.

 

Pasquale Palmieri possiede 50.000 negativi e 100.000 fotografie digitali che documentano le ricerche del lavoro di artisti tra cui lo stesso Paladino, Luigi Mainolfi, Perino e Vele.

Un piccolo grande patrimonio archivistico della cultura contemporanea, tessera di quel grande mosaico degli archivi fotografici privati da conoscere, tutelare e valorizzare.

I suoi riferimenti fotografici non includono i maestri della fotografia di scena. La sua formazione si basa sull‘imprinting della letteratura, della pittura, musica e poesia che lo hanno appassionato. E di fotografi come Ugo Mulas, Luigi Ghirri, Chang Chao-Tang, Mark Coehn, Fan HoJosef Kudelka, Man Ray, Daido Moriyama, Robert Frank, Mario Dondero, Mario Giacomelli… tutti per motivazioni ben precise che hanno arricchito la sua formazione.

 

Incontrai Mimmo Paladino ai tempi dell‘università grazie ad un amico comune, che ci fece conoscere perché lui aveva bisogno di un fotografo per raccontare il suo ambiente, il suo modo di dipingere. Mi muovevo liberamente nel suo studio e ci andavo anche in sua assenza. Per me uno stage con il più grande fotografo del mondo non sarebbe stato più formativo della frequentazione di un grande artista. Il contatto con la creazione della bellezza mi bastava per definire la mia visione del mondo. Ho conosciuto l‘importanza del dubbio, dell‘incertezza, dell‘imperfezione, del vuoto che precede la creazione, del non finito, delle zone d‘ombra dell‘arte nel suo farsi.

- Pasquale Palmieri, conversazione con Maria Savarese

 

 

 

Il cinema di Mimmo Paladino. Fotografie di Pasquale Palmieri

a cura di Maria Savarese

Ercolano – Villa Campolieto
dal 22 giugno al 17 settembre 2023
dal martedì alla domenica dalle ore 10 alle ore 18

Il biglietto per la mostra è incluso nel biglietto di ingresso a Villa Campolieto acquistabile solo in loco al prezzo di 5 euro

 

Co-prodotta dalla Fondazione Campania dei Festival, Film Commission Regione Campania e dalla Fondazione Mannajuolo, presentata in occasione dell‘edizione 2023 del Campania Teatro Festival a Villa Campolieto ad Ercolano, grazie alla collaborazione dell‘Ente Ville Vesuviane


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