Paolo Falasconi //
Perché la competenza nel graphic design ci salverà dalla superficialità
Vi spiego perché, nell‘era digitale in cui la manipolazione delle immagini è onnipresente, la competenza diventa un baluardo contro la superficialità.
Come abbiamo visto è facile cascare nel perverso circuito delle fake news. Ma noi non vogliamo condividere con i nostri amici le famose catene di sant’Antonio, vero? Per proteggerci contro tentativi di persuasione indesiderata esistono diversi metodi che combinano informatica, psicologia, comunicazione, fino all’economia comportamentale. Parliamo qui della teoria dell’inoculazione e di come possiamo vaccinarci contro le bufale online. Per di più, in maniera divertente tramite il gaming.
Ma facciamo un passo indietro.
Cosa si sta facendo per combattere la disinformazione online? In estrema sintesi sono quattro i macro-settori sui quali si sta intervenendo: in ambito legislativo, per approvare nuove leggi e migliorare i meccanismi già esistenti per la verifica dei fatti; investendo nell’educazione, nell’alfabetizzazione mediatica e nell’uso sicuro dei nuovi media; nel miglioramento dei meccanismi di fact-checking (smascherare le bufale) e soprattutto agendo sul meccanismo degli algoritmi, per perfezionare quelli esistenti e crearne di nuovi capaci di individuare le notizie false (Google e Facebook, proprietaria anche di WhatsApp, ci stanno lavorando da tempo).
Questi interventi presentano però dei limiti evidenti. Diversi studi hanno dimostrato che il debunking e il fact-checking possono non essere armi efficaci (almeno non da sole) per combattere la disinformazione. Confutare immediatamente le fake news sui social media si è sicuramente rivelata una pratica efficace, ma pensate alla mole di bufale che circolano in rete e la velocità con la quale si propagano: smascherarle tutte diventa impossibile! Inoltre, una volta messo radici, la disinformazione può continuare a influenzare i nostri atteggiamenti: se siamo stati esposti a una falsità c’è il rischio di continuare a crederci, anche se la notizia è stata corretta: in psicologia questo fenomeno è noto come effetto di influenza continua.
Vaccinarci contro le fake news
Da qualche anno gli scienziati si stanno concentrando molto sulla technocognition, un approccio che appare oggi più corretto per affrontare la disinformazione e che tiene insieme diverse discipline, dalla psicologia, alla comunicazione, fino all’informatica e all’economia comportamentale. In questo contesto, due studiosi, Van der Linden e Roozenbeek, hanno studiato il ruolo del prebunking, intervenire cioè preventivamente per evitare che le bufale possano mettere radici.
Per attuare il prebunking, gli scienziati comportamentali hanno attinto dalla teoria dell’inoculazione, un quadro psicologico proposto negli anni ’60 dal sociopsicologo William James McGuire alla cui base c’era l’idea di indurre una resistenza preventiva contro tentativi di persuasione indesiderati.
McGuire ha dimostrato come sia possibile proteggere un atteggiamento partendo proprio dall’analogia medica: così come un vaccino inietta nel corpo umano dosi indebolite di un virus capaci di attivare le risposte immunitarie dell’organismo, così con un trattamento preventivo contro la persuasione è possibile ottenere lo stesso effetto anche con le informazioni. I risultati hanno dimostrato che chi è stato sottoposto a “vaccinazione” sviluppa una maggiore resistenza a messaggi persuasivi più forti ed è capace di attivare le proprie difese contro quella “minaccia”. Una vera e propria protezione contro un’intera gamma di notizie false.
Inoculazione tramite gaming: il caso Bad News
Una delle prime simulazioni nel mondo reale di inoculazioni nel campo dell’informazione è stata sviluppata dagli stessi studiosi all’Università di Cambridge. I due hanno progettato un gioco di “cattive notizie” chiamato Bad News (https://www.getbadnews.com/), in cui viene simulato un vero feed di social media e i giocatori devono immedesimarsi nel ruolo di produttori di fake news.
Questa la presentazione del gioco:
«In Bad News, assumi il ruolo di un venditore di notizie false. Abbandona ogni pretesa di etica e scegli un percorso che costruisce il tuo personaggio come un magnate dei media senza scrupoli. Ma tieni d’occhio i tuoi misuratori di “follower” e “credibilità”. Il tuo compito è quello di ottenere più follower possibile mentre costruisci lentamente una falsa credibilità come sito di notizie. Ma attenzione: perdi se dici bugie evidenti o deludi i tuoi sostenitori!»
Lo scopo è aiutare le persone a capire come si diffondono online le varie fake news o le teorie del complotto. Come ha spiegato lo stesso van der Linden, è come quando «vai a vedere uno spettacolo di magia; la prima volta resti ingannato se non sai come funziona, ma quando il mago ti spiega il trucco, non sarà così la prossima volta». Quindi, grazie al gioco, le persone apprendono quali sono «queste tecniche, come individuarle, come riconoscerle e non esserne influenzati».
Il primo test di Bad News ha riguardato circa 15mila partecipanti e i risultati hanno rivelato che i giocatori hanno aumentato significativamente la capacità di comprendere l’affidabilità delle notizie dopo aver giocato.
Cosa aspetti allora? Corri a giocare!
È inutile negarlo, ci siamo cascati qualche volta anche noi. Abbiamo condiviso un post su Facebook o inoltrato un messaggio con WhatsApp alimentando la classica “catena di sant’Antonio”. E abbiamo scoperto solo dopo che si trattava di una notizia totalmente infondata: una fake news.
Il problema è che, senza accorgercene, talvolta contribuiamo a diffondere bufale anche su temi di forte interesse sociale: basti pensare a quello che sta accadendo in questi giorni rispetto alla comunicazione sul conflitto in Ucraina, o ciò che è accaduto con la pandemia Covid o per i cambiamenti climatici.
Nei giorni scorsi è stata pubblicata l’ultima indagine condotta da Ipsos, per Italian Digital Media Observatory, che ha analizzato la capacità delle persone di distinguere bufale e fake news. Il 73% degli intervistati ha dichiarato di essere in grado di riconoscerle (l’80% tra i più giovani), ma solo il 35% crede che le altre persone siano in grado di distinguere notizie vere da notizie false. Eppure, il campione non si dimostra così attento quando è chiamato a dire la sua su fatti totalmente inventati: il 39% crede che la comunità scientifica sia molto divisa sulla crisi climatica; il 29% che l’uso frequente del forno a microonde aumenti il rischio di diffusione di onde elettromagnetiche nocive per la salute e il 13% addirittura che dietro lo scoppio della pandemia ci sia Bill Gates.
Insomma, siamo di fronte a un problema di non facile soluzione. Quello che è certo, è che la diffusione di false informazioni è un fenomeno crescente – online, ma con forti ripercussioni nel mondo reale – di cui si sono occupate tutte le principali istituzioni a livello globale. Per la Commissione Europea, la disinformazione è un grave pericolo per la democrazia, mentre l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) l’ha addirittura definita una infodemia globale, che al pari dei virus è altamente contagiosa e cresce in modo esponenziale.
Verrebbe a questo punto da porsi una domanda: perché anche persone apparentemente dotate di un buon livello di istruzione cadono nel circolo vizioso delle fake news? Perché noi stessi ci siamo cascati qualche volta?
Anche se il quadro di riferimento della ricerca scientifica è piuttosto recente, c’è unanimità nel ritenere che i fattori psicologici dei singoli individui siano una componente decisiva nei meccanismi di diffusione della disinformazione. Questo avviene in particolare tramite le piattaforme online, immersi in quella che Eli Pariser ha definito Filter Bubble: isolati in una bolla culturale o ideologica, di fatto, ignoriamo tutto il resto e l’ideologia ha la meglio sulla realtà. Siamo per Lee McIntyre nell’era della post-verità e dobbiamo capire come uscirne indenni.
Abbiamo già visto in questo articolo come i meccanismi propri dell’influenza sociale condizionino i nostri comportamenti e le nostre decisioni. Può tornare utile riprendere la prospettiva memetica e quelli che Richard Dawkins chiama meme: i “geni” di una cultura – informazioni e comportamenti - che hanno permesso all’umanità di evolversi fino ad ora, grazie alla loro capacità di replicarsi in maniera esponenziale. Proprio come dei virus, utilizzano gli individui per sopravvivere e tramandarsi. Gli ambienti digitali rappresentano l’habitat perfetto per la proliferazione dei meme e vi entriamo in contatto a prescindere dalle nostre intenzioni.
Siamo, poi, naturalmente portati a elaborare le informazioni in nostro possesso in maniera rapida e veloce grazie alle euristiche, quelle scorciatoie mentali che ci permettono di costruire un’idea su un argomento senza effettuare troppi sforzi cognitivi. E dalle euristiche è facile passare ai bias: errori cognitivi che possono portarci a diffondere la famosa “catena di sant’Antonio” senza rifletterci troppo.
Una delle scorciatoie mentali, che attiviamo facilmente mentre scorriamo il nostro feed social, è quella della disponibilità: percepiamo la probabilità di un evento in base alla misura in cui esso è disponibile e all’impatto emotivo del ricordo, piuttosto che sulla reale probabilità che questo si verifichi. Per intenderci, più un’informazione è disponibile e condivisa dagli altri, tanto più penseremo che sia questa sia reale. Qui può scattare uno dei bias di cui parlavamo, ovvero l’effetto del falso consenso: tendiamo a proiettare sugli altri il nostro modo di pensare e crediamo che le nostre preferenze, le nostre opinioni siano condivise dalla maggioranza. A questo si collega anche l’ignoranza pluralistica, l’effetto che rafforza la propensione a conformarci alle opinioni di un gruppo, anche se dissentiamo, visto che abbiamo la percezione che tutti la pensino in un determinato modo (e magari li riteniamo più informati di noi su quell’argomento).
Così, soprattutto se le nostre idee di partenza sono errate, per esperienza personale, per l’appartenenza a un gruppo, tenderanno a trovare conferma in un perverso circuito vizioso alimentato dalle tecnologie proprie dei social network.
Essendo naturalmente portati ad aggregarci in “comunità”, lo facciamo anche online – seppur non del tutto consapevolmente –, polarizzando le nostre posizioni con gruppi omogenei e chiusi, in un processo determinante nel rinforzare l’echo-chamber. Il confronto viene minimizzato ed è sempre più difficile trovare in un ambito omogeneo e chiuso, come può essere un social network, visioni alternative che possano contaminare la nostra “idea” di partenza (o per meglio dire, quella che l’algoritmo pensa sia la nostra). E chi magari avrebbe qualcosa da dire molto spesso è vittima di quella che Noelle-Neumann chiamò la spirale del silenzio: un singolo individuo è disincentivato dall’esprimere apertamente la propria posizione se percepisce che è contraria all’opinione della maggioranza.
Il rischio è quindi, come spesso accade, che personaggi incompetenti occupino spazio sui social media con dissertazioni prive di valenza scientifica, che spaziano dal complottismo alla disinformazione.
I nostri pensieri e le nostre opinioni personali determinano ogni scelta che facciamo.
Ovvio, no? Peccato che sia un’idea sbagliata.
Anche se non ne siamo consapevoli – o peggio fatichiamo ad ammetterlo – le persone intorno a noi hanno un’influenza enorme su ogni aspetto della nostra vita. Qualunque scelta facciamo, dal ristorante dove mangiare al prodotto da acquistare, perfino la scelta del parcheggio, è condizionata dall’influenza sociale.
Molti di voi, probabilmente, staranno pensando: «ok, ma io non mi lascio influenzare, lo faranno gli altri». È l’approccio più sbagliato da assumere. Processi e dinamiche proprie dell’influenza sociale si manifestano a prescindere dalla nostra intenzione di entrarvi in contatto. In un altro articolo abbiamo affrontato l’importanza di conoscere i principi alla base di queste “pressioni”, anche se non è questo il luogo per citare tutti gli studi che negli ultimi decenni hanno coinvolto scienziati e ricercatori di tutto il mondo su questi argomenti.
Quello che possiamo fare è avere la mente aperta per comprendere i meccanismi e la potenza dell’influenza sociale. Come utenti, per imparare a difenderci dalla persuasione tossica e discernere contenuti e comportamenti dannosi che affollano le piattaforme digitali. Come professionisti della comunicazione, per provare a usare questi meccanismi a nostro vantaggio. Attenzione, strutturarne la potenza, non vuol dire cadere negli stessi sbagli che vogliamo combattere con un approccio umano della tecnologia: i principi etici da rispettare sono un faro da seguire, sempre!
Per capire meglio i principi alla base dell’influenza sociale vorremmo consigliarvi due libri, entrambi best seller scritti da Jonah Berger professore di marketing alla Wharton School of the University of Pennsylvania, esperto di tendenze, marketing virale e contagio sociale.
In “Influenza invisibile - Le forze nascoste che plasmano il nostro comportamento”, Berger approfondisce la miriade di modi in cui gli altri influenzano ciò che facciamo: dalla tendenza umana all’imitazione, all’impulso che porta a differenziarci; ancora, il conflitto tra familiarità e novità e il valore che riveste la capacità di distinguersi dagli altri o come l’influenza sociale possa condizionare le nostre motivazioni. E lo fa con esempi pratici: problemi comuni affrontati da aziende e persone che l’influenza sociale può aiutarci a risolvere.
In un altro libro diventato ormai un riferimento del settore, Berger svela i meccanismi della trasmissione sociale e mostra i sei punti di forza che deve avere una campagna per rendere contagiosi prodotti e idee. Nel libro, che si intitola non a caso “Contagioso. Perché un'idea e un prodotto hanno successo e si diffondono”, individua sei ingredienti costanti di un contenuto che diventa argomento di discussione e da qui virale. Per farlo devono essere rispettati sei “STEPPS”: «poter fungere da valuta sociale, rispondere agli stimoli dell’ambiente circostante, saper suscitare reazioni emotive, avere visibilità pubblica e valore pratico ed essere inseriti in storie più ampie». Vediamoli nel dettaglio.
Valuta sociale (Social currency). Condividiamo quello che ci fa fare bella figura con gli altri – Vogliamo sempre offrire agli altri, ai nostri amici, una certa immagine di noi stessi, quella che contribuisce ad aumentare la nostra autostima. I fatti che veicoliamo, le opinioni che condividiamo, servono a nutrire la nostra immagine percepita, a rappresentarci come persone informate e, perché no, alla moda.
Stimoli (Triggers). Se è facile pensare a qualcosa, è facile parlarne – Il nostro cervello è abituato a lavorare per schemi ed euristiche: siamo quindi portati a ragionare per associazioni mentali e tanto più il meme (una unità di informazione culturale e mentale, analoga al gene) si assocerà a contenuti per noi familiari e che coinvolgono la nostra quotidianità, tanto più avrà possibilità di diffondersi ed essere condiviso. La familiarità, sottolinea Berger, conduce al gradimento.
Reazioni emotive (Emotion). Quando teniamo a qualcosa, lo condividiamo – Ragionando in termini generali, i contenuti contagiosi provocano in noi delle emozioni (positive o negative). Per innescare la scintilla, e creare contenuti virali, è essenziale creare forte emozioni.
Visibilità pubblica (Public). Se qualcosa è fatto per essere visibile, ha buone potenzialità di crescita – Berger riprende una regola molto diffusa negli anni ‘20 tra i manager americani (monkey see, monkey do) e ci ricorda che “la scimmia vede, la scimmia fa”.
Valore pratico (Practical value). Informazioni utili – Se un contenuto appare utile, con un immediato riscontro per i nostri interlocutori, è molto più probabile che questo venga condiviso. Se lo facciamo apparendo disinteressati e spinti da puro spirito “altruistico” ancora meglio.
Storie (Stories). Le informazioni si trasmettono con quelle che a prima vista sembrano semplici chiacchiere – Gli individui, scrive Berger, «non si limitano a condividere informazioni; raccontano storie» e tutte le storie contengono una morale e una lezione. In quelle che apparentemente possono sembrare semplici chiacchiere viene inserito il “Cavallo di Troia” che include le informazioni o le idee che vogliamo far passare. Il messaggio è ancorato saldamente alla storia elaborata che è impossibile, sottolinea ancora Berger, che «non possa essere raccontata senza che venga trasmesso anche il messaggio».
Berger ci aiuta così ad apprendere una serie di tecniche specifiche e, soprattutto attuabili, per fare il modo che il nostro messaggio, o la nostra campagna pubblicitaria, possa far presa sulle persone e soprattutto che siano loro stessi a condividerlo.
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