Paolo Falasconi //
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Il prossimo 30 giugno Jose Compagnone, Antropologo digitale che da oltre 20 anni si occupa di comunicazione digitale sarà ospite alla Ilas per un seminario per gli studenti e professionisti del Digital Marketing sul tema del Customer Mindset, un approccio multidisciplinare allo studio degli utenti, per capire come ragionano e come prendono la decisione di acquisto. Un nuovo approccio al mercato digitale che non lavora su risposte univoche e universali ma allena la capacità di intuire e creare la soluzione a misura di specifici business digitali, fornendo molteplici idee e strumenti per rispondere alle domande degli imprenditori e dei marketer e aiutarli a trovare una strada realmente adatta alle proprie esigenze.
A margine del seminario, in anteprima assoluta, Compagnone presenterà il suo ultimo libro "Customer Mindset" una guida pensata per imprenditori e professionisti del digitale che desiderano sperimentare operativamente i principi di questo nuovo approccio.
A pochi giorni dal seminario abbiamo incontrato Jose Compagnone per una interessantissima intervista. Ecco cosa ci ha detto.
D: Ciao Jose e grazie per averci concesso questa chiacchierata. Dunque, il 30 giugno terrai un seminario per Ilas sul tema del Customer Mindset.
R. È un evento molto significativo per me, avrò l‘opportunità di entrare nei dettagli del progetto Customer Mindset e raccontare che anche qui al Sud abbiamo le carte in regola per competere nel settore della comunicazione digitale.
Customer Mindset è un progetto multidisciplinare ed è diventato un libro in cui ho raccolto e racconto le mie esperienze nello spazio del WEB accumulate in oltre 20 anni di attività. Lo considero un motore di ricerca cartaceo. Perché è come un manuale, un prontuario dove gli argomenti possono essere letti con modalità random. Scorri l‘indice e trovi ciò che ti interessa. È utile agli addetti ai lavori ma anche per i dirigenti di piccole e medie imprese che intendono capire nuovi meccanismi del management.
D. In una nota che hai scritto, ho letto che la tua filosofia di lavoro è fondata su un approccio multidisciplinare. Che cosa intendi?
R: Bisogna considerare che l‘universo del consumatore è fatto di pensiero e quindi non lo si può considerare solo un acquirente automatico del tipo “io vendo/tu compri”. L‘approccio di lettura sulle abitudini, desideri e bisogni dei consumatori viene fatto sotto un aspetto umanista. Gli studi di antropologia mi sono serviti non poco per approfondire e affrontare certe dinamiche che spingono il consumer all‘acquisto.
Nella Goodea, l‘agenzia di WEB marketing di cui sono fondatore, ci sono 10 dipendenti che si occupano anche dei fattori umani che riguardano la psicologia cognitiva, l‘ergonomia. In maniera più specialistica c‘è chi si occupa di SEO, copywriting, WEB design, social media.
Il consumatore ha il potere della scelta, sa scegliere ma a volte deve essere accompagnato e studiare i suoi comportamenti sul WEB ci aiuta nel poter stimolare le sue decisioni.
Capita di fare ricerche sulle cose irrisolte della nostra vita, bisogna individuare lo sviluppo dei desideri latenti e fare in modo di dare una risposta a tali bisogni.
La ricerca è basata sul rapporto funzionale tra utente e oggetto.
Nelle nostre analisi studiamo anche come l‘occhio si muove sui contenuti WEB. L‘utente deve trovare facilmente ciò che cerca con pochi click e non spulciare l‘intero sito.
È un lavoro che svolgiamo a 360° per l‘analisi della comunicazione digitale. Al termine di tale analisi si fa un report sulle azioni da mettere in pratica per l‘azienda che, riconoscendo un‘eventuale falla su cui intervenire, decide di affidarsi a noi.
D: Quindi è tutto un lavoro di WEB marketing cognitivo.
R: Sì, è un ponte tra il marketing tradizionale e il marketing moderno. Si adottano regole del marketing classico applicate al digitale utilizzando le teorie antropologiche e psicologiche.
Negli anni sono sorte nuove tecniche sulle quali si può lavorare.
C‘è ad esempio la “teoria della scarsità” secondo la quale si adotta la scadenza di un‘offerta o un numero limitato di pezzi da vendere e la sensazione di poter perdere un affare, spinge l‘acquirente a desiderare qualcosa che potrebbe esaurirsi in breve tempo.
Contribuisce non poco la viralità in queste operazioni che con il WEB si diffonde in tempi velocissimi via condivisioni tra gli utenti.
«Nessuno si preoccupa più di tanto degli utenti: l‘analisi di mercato così come viene fatta oggi, è solo tecnica di matrice economica. Quello che cerco di fare, è portare lo studio delle persone all‘interno di questi processi: ci sono gli analisti che indagano gli utenti, ma con metodiche obsolete. Il consumatore digitale è sofisticato, rispetto al passato le cose ce le cerchiamo da soli: oggi chiunque è in grado di comparare i prezzi sul web, di conseguenza un‘azienda deve essere attenta a capire qual è il valore che deve tirare fuori. Deve vendere soluzioni, prima ancora che oggetti. E le aziende italiane, purtroppo, non sono ancora in grado di compiere questo passaggio».
D: Quando qualcosa può diventare virale?
R: Ci sono due condizioni di base: autorevolezza e affettività. Capacità di mettere una storia che inneschi un trasporto narrativo che tocchi le corde profonde del consumatore.
I contenuti devono essere spontanei e non artefatti affinché la combinazione chimico/cognitiva possa riuscire.
Ci sono cose da tener presente per i contenuti e non solo per quelli che si vogliono diventino virali. Ad esempio l‘occhio si abitua a video ridondanti. Il gesto di scorrere su Tik Tok è automatico e solo se di primo impatto ci si accorge che c‘è qualcosa di diverso, ci soffermiamo.
A volte non serve mostrare bei contenuti, bei video o foto realizzate professionalmente, ma conta la spontaneità del contenuto. Qualcosa che possa empatizzare con l‘utente rendendolo partecipe di un certo contesto.
E comunque l‘utente ormai ha una certa esperienza nell‘individuare qualcosa di artefatto, un “pacco” come diciamo a Napoli.
D: Esistono nuove tecniche e strategie per differenziare la promise e il benefit di un‘azienda?
R: Secondo me no. Rispetto al passato molte tecniche sono state abusate e molte persone ci sono cascate, ma l‘utente è diventato più scaltro come già detto.
I consumer, o meglio, gli acquirenti sono diventati più impermeabili ai proclami. Messaggi pomposi in cui si vedono grandi sale riunioni, mega corporation che ostentano potenza di immagine… è tutto finito rispetto al passato. Si punta alla spontaneità, dicevo. Si cerca la genuinità delle cose.
Il messaggio neutro, pulito, fresco viene più apprezzato dalla gente.
E serve sempre qualcuno esperto che sappia come semplificare i messaggi. Sia per la sola cura del brand che per un servizio o prodotto.
Partecipa al Gruppo di lavoro per l‘Usabilità dei siti web delle PA presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Alla consulenza strategica web per le aziende affianca l‘attività di docenza presso Ilas, IPE, Unisob, Luiss Guido Carli e Unina.
D: Penso che siamo in una società in cui i target sono frammentati e non esistono più le cosiddette “otto italie” teorizzate dal sociologo Giampaolo Fabris nel 1986. Come si fa a studiare la psicologia del consumo digitale in tale contesto?
R: Non esiste una strategia di mercato valida per tutti, ma ne esistono tante. Però persone differenti possono provare lo stesso bisogno. Un modello di smartphone era uno status per una certa nicchia di mercato ma poi è diventato un articolo usato da qualsiasi strato sociale.
Con le campagne Google si riescono a differenziare per parole chiave i contenuti che sono poi indirizzati a target specifici. Dietro l‘utilizzo di determinate key-words si possono infatti scavalcare determinate cerchie di consumatori raggiungendo solo quelli che all‘azienda interessano.
L‘abbinamento di più parole chiave ovviamente sono suggeriti dalla ricerca e analisi dei dati.
Inoltre è utilissimo leggere i commenti sui post delle pagine aziendali su Facebook per capire le parole chiave più utilizzate nel lessico comune di determinati utenti.
Se in un commento mi poni l‘accento su un prodotto, io posso individuare parole che magari non rientrano tra quelle più quotate nelle statistiche di Google.
D: Dici che le piccole e medie imprese non hanno uffici preposti per il marketing. Da cosa dipende secondo te? Anche se le aziende devono prevedere nel budget questo ufficio, non credi che preferiscano destinare il denaro ad altri settori?
R: Le PMI hanno 250 dipendenti al massimo, con un fatturato annuo che può raggiungere i 50milioni.
L‘impresa italiana, specie al Sud, è molto rigida per quanto riguarda gli investimenti di marketing. Il capo, l‘Amministratore Delegato non sempre è in grado di capirne l‘importanza. Manca proprio la cultura del marketing.
Poi succede che quando l‘azienda inizia a perdere la governance forse è già tardi per recuperare.
Queste aziende sono quelle che rischiano di entrare nella tipologia che io definisco “last minute”: clienti che sperano di recuperare il fatturato perso negli ultimi anni.
E poi ci sono anche clienti “pronto soccorso”: quelli che stanno perdendo fatturato e chiedono aiuto.
Ogni giorno ci sono circa 250milioni di ricerche su Google. Significa che tra quelle ricerche potrebbero esserci consumer che già stanno cercando qualcosa che potrebbe avere un‘azienda in difficoltà che non investe in WEB marketing. L‘imprenditore deve fare in modo di farsi trovare ma dovrebbe studiare in rete per individuare persone che lo aiutino.
Se ciò non accade a volte si verifica un fenomeno paradossale: ci sono aziende che acquistano i prodotti all‘ingrosso da quelle in difficoltà a prezzi stracciati per rivenderli online. Non fabbricano, non producono, fanno solo da rivendita con prezzi concorrenziali rispetto alle aziende stesse dove hanno acquistato.
Manca una conoscenza approfondita del ruolo del consumatore, tante aziende non hanno nemmeno capito quale social cavalcare, su quali strumenti puntare. Le imprese non sanno esattamente cosa devono fare e si affidano al primo che capita, spesso perdendo solo tempo: e nel frattempo, si sono persi clienti e in generale fette di mercato difficili da recuperare. Chi governa le aziende dovrebbe immedesimarsi nel ruolo dell‘utente, mettersi dall‘altro lato della barricata.
D: Le aziende sono pronte a conoscere “i freddi dati dei numeri” per capire le esigenze dei consumatori?
R: Potrebbero essere pronte ma devono predisporsi in maniera differente. I dati di una campagna l‘imprenditore può imparare a leggerli.
Se ad esempio facciamo dei report dei dati di Google Analytics, semplifichiamo il tutto con delle relazioni scritte in linguaggio accessibile scremando la terminologia tecnica. Data-telling.
Perché non è bello ritrovarsi a fare dei mini-corsi al cliente.
Anche per quanto riguarda il rispetto di tutta la parte giuridica, come ad esempio il GDPR (il Regolamento europeo della privacy digitale), c‘è un forte gap. Da un lato, c‘è l‘inconsapevolezza da parte di molti imprenditori dell‘importanza dei dati, dall‘altro lato molti avvocati non hanno ancora le giuste competenze in merito. E c‘è di più: le leggi sono purtroppo soggette a interpretazioni piuttosto larghe.
D: Un‘ ultima domanda riguarda la tua esperienza come docente nel Master di Social Media e Web Marketing della Ilas. È forse la domanda che sembra essere sulla bocca di tutti ma che nessuno osa mai pronunciare: non temi, con l‘insegnamento, di trasferire esperienze, trucchi del mestiere, saperi che possano farti ritrovare concorrenti nel tuo mercato?
Pensa che se ogni anno nascessero 1000 agenzie di comunicazione digitale, il numero sempre crescente di potenziali clienti sarebbe "scoperto" in ogni caso.
Ogni attività e professione richiede competenze digitali, c‘è spazio per tutti. In aula diventiamo colleghi; essendo più grande d‘età, generalmente i ragazzi si riferiscono a me per avere consigli anche dopo il master.
CHI È JOSE COMPAGNONE
José Compagnone è un antropologo digitale, nasce a Napoli nel 1975 e da oltre 20 anni si occupa di comunicazione digitale. Ricercatore e autore, è l’ideatore di un innovativo metodo per la valutazione dell’esperienza che gli utenti compiono online, descritto nel libroWhat User Want – Web Usability 3.0. Partecipa al Gruppo di lavoro per l’Usabilità dei siti web delle PA presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Alla consulenza strategica web per le aziende affianca l’attività di docenza presso Ilas, IPE, Unisob, Luiss Guido Carli e Unina.
IL SEMINARIO
30 Giugno 2023
NH Hotel Napoli PANORAMA
"Customer mindset: capire i clienti nell’era digitale"
SEMINARIO GRATUITO
RELATORE
Jose Compagnone
ORARIO
Dalle 16:00 alle 18:30
LOCATION
NH Hotel Panorama, via Medina, 70 Napoli
PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA
L’evento è gratuito e a numero chiuso. Verranno accettate le prime 100 prenotazioni. Per prenotare occorre compilare il form cliccando il seguente link:
Quando si parla di scrittura, fotografia, grafica e altre professioni creative, esce sempre fuori una domanda: l’Intelligenza Artificiale, mi ruberà il lavoro? Per esempio, chi come me fa il copywriter, da anni si chiede se i computer scrivono meglio di un professionista della scrittura e quindi potranno “rubargli il lavoro”.
Secondo me questa domanda non è sbagliata, ma ormai superata. Da anni, infatti, i computer hanno iniziato a scrivere. Non molti lo sanno ma intere sezioni di giornali, e-commerce, blog e post sui social sono scritti in tutto o in parte da I.A. Decine di software si sono specializzati nella scrittura di testi di ogni tipo anche se è solo dopo il lancio di Chat GPT che questa possibilità è stata scoperta da tutti. Quindi, quella che sembrava una possibilità riservata solo a pochi editori è diventata per tutti: chiunque oggi può chiedere a questa I.A. di generare qualsiasi tipo di contenuto, in tempo reale e a costo (quasi) zero.
A questo punto, la domanda non è più se i computer scriveranno come un copywriter, redattore e giornalista, perché già lo fanno. La domanda fondamentale diventa se tu, in quanto professionista della scrittura, riesci a tenere il passo di questi software. Cioè se hai ancora una funzione o puoi essere sostituito da una macchina che scrive. Quindi, la domanda a cui cercherò di rispondere è questa:
“London Bridge is down”. E inizia l‘Operazione London Bridge, il protocollo di tutte le fasi ampiamente preorganizzate per i funerali della Regina. Perché nulla è mai stato lasciato al caso. E non lo saranno nemmeno i dettagli del funerale di Lilibet, come veniva chiamata dai più cari.
Abiti dai colori sgargianti che, se messi accanto in un guardaroba, apparirebbero come una mazzetta di colori Pantone. Un outfit specificamente creato per essere identificabile facilmente dai bodyguard, si dice, ma ovviamente anche dalla gente. Cappelli con decorazioni floreali e con colori coordinati agli stessi abiti. Foulard da campagnola annodato sotto il mento durante le sue passeggiate a cavallo in quel di Windsor.
Quel saluto con la mano, unico, che è entrato nell’iconografia di souvenir turistici: pupazzetti con mano mobile esposti nelle vetrine di Portobello road.
Borsetta sempre nera al seguito che la rendeva una donna normale con le sue cose più essenziali da tenere sempre con sé.
La Regina Elisabetta II indubbiamente è stata un’icona POP senza eguali negli ultimi cento anni.
Una questione di cura del brand? Sembrerebbe di sì.
L‘inizio della gestione del suo brand inizia durante i sedici mesi di preparativi per il giorno dell‘incoronazione. Il duca Filippo di Edimburgo, il marito che fu supervisore dei dettagli della celebrazione, sembra che volle fortemente che l‘evento avesse un impatto mediatico facendo entrare le telecamere della BBC e suggerendo alla regia i punti di vista più adeguati. L‘allora premier Churchill lo sconsigliò, ma l‘ultima parola fu della regina. E tutto il mondo per la prima volta visse in tv, se pur in differita, l‘incoronazione di un reale come una favola che si materializzava. Settanta anni fa. Mese più, mese meno.
Per Elisabetta II tutto è andato bene. O perlomeno questa è la percezione della massa. Con alcune decisioni prese senza far rumore. Con la sensazione che ogni sua scelta fosse la più giusta. Quando, fuori dai cancelli di Buckingham Palace, andò tra la gente che deponeva omaggi floreali per Lady Diana, una signora le porse dei fiori ma Elisabetta le disse che dovevano essere per “lei, Lady D” e così le controversie sul suo rapporto con la nuora furono accomodate.
Non possiamo sapere se si trattò di una scena costruita a tavolino. I più maliziosi possono pensarlo.
Perché è il brand, costruito o meno, che conta. E scandali piccoli e grandi a corte passano sempre in secondo piano.
Consapevole del potere di comunicazione dell‘immagine, nel 1970 concede alla BBC di riprendere alcune scene della vita familiare di Buckingham Palace. Entrare in questo modo diretto nelle case contribuì ulteriormente alla sua popolarità.
Nel 1965 i Beatles vengono insigniti del titolo di baronetti. E così anche Angelina Jolie, Elton John, Mick Jagger, Liz Taylor, Emma Thompson, Steven Spielberg, Bono Vox, Rod Stewart e tanti altri hanno avuto onorificenze direttamente dalla regina Elisabetta II.
Circondarsi di personaggi noti del mondo dello spettacolo, a livello internazionale, non fa che aumentare la popolarità su altri canali. Entrando nell’immaginario dei fan che non seguono abitualmente le vicende politiche. E si crea una sorta di transfert di popolarità reciproca. Amplificandola.
Nessun “rumore legale”. La satira non è mai condannata. Stare allo scherzo è caratteristica delle persone intelligenti. E così, guardando i dipinti di George Condo che la ritraggono in maniera ironica, caricaturale, sdentata, aspetto paonazzo, è probabile che abbia solo sorriso.
È stata tra i personaggi che, con la sua effigie, ha occupato più copertine di riviste internazionali.
Nell‘aprile 2022, in occasione dei 70 anni di regno, Vanity Fair le dedica tre copertine diverse tratte dall‘opera in serigrafia Reigning Queens del 1985 realizzata da Andy Warhol. Opera poi acquistata dalla Royal Collection arricchendo la collezione privata nel castello di Windsor.
Un’opera, quella di Warhol, che riproduceva una fotografia di Peter Grugeon fatta a sua Altezza nel 1975 e utilizzata durante il Giubileo d’argento nel 1977.
Il 26 febbraio 1952 Dorothy Wilding realizzò il primo servizio fotografico ufficiale per Elisabetta.
I fotografi hanno avuto un gran ruolo per la comunicazione verso il pubblico, in termini di brand. Quelli che realizzarono ritratti ufficiali della regina sono stati Stirling Henry Nahum (Baron Studios); Cecil Beaton che riuscì a restituire immagini glamour e non austere e “politiche” e così conquistandosi il titolo di baronetto. Poi ricordiamo Antony Charles Robert Armstrong-Jones che sposandosi con Margaret, sorella della regina, ebbe l’occasione di ritrarre scene di vita familiare nella casa reale.
E poi ancora Donald McKague, Anthony Buckley, Annie Leibovitz.
David Bailey, noto fotografo di moda, la immortalò nel 2014. Fotografia in bianconero che lei preferiva perché “i colori distraggono l‘attenzione dal soggetto”.
Il rapporto con la fotografia era costante per Lilibet. Più volte in pubblico è stata immortalata con una Leica a tracolla. Usava anche una cinepresa. In rete circolano foto in cui è ritratta nel momento in cui si “fa un selfie” con alcuni familiari. Segno dei tempi.
Un giorno chissà se vedremo le fotografie che ha scattato in tutti questi suoi anni la regina. Lei – non dimentichiamolo – è stata anche mamma, e poi nonna, ed è stata prima fidanzata e poi moglie. Conoscete fidanzate, mogli, mamme o nonne che non abbiano mai fotografato, per esempio, i loro cari, le vacanze, qualche gita o candeline che venivano spente? Io non ne ho conosciute.
- Giovanni Ruggiero, fotogiornalista
Elizabeth II è stata protagonista in film cinematografici interpretati da Emma Thompson in una serie della BBC, da Helen Mirren (The Queen, 2006) e, ancora, The Crown la serie di Netflix che per quattro stagioni ha ripercorso tutta la sua storia con fatti realmente accaduti e leggermente romanzati. Fino allo spot Happy and glorious per pubblicizzare i giochi olimpici del 2012 a Londra, dove interpreta se stessa al fianco di Daniel Craig, il James Bond dell’epoca. E non sono mancate sitcom dove gli sketch prendevano in giro i comportamenti della regina e i protocolli reali.
Lilibet è stata una donna che sapeva come viaggiare nei tempi che ha vissuto ponendosi sulla stessa lunghezza d’onda. Senza farsi scalfire da critiche o canzoni di protesta come God save the queen dei Sex Pistols. E così non è mai apparsa agli occhi del mondo antiquata, eccessivamente monarchica o una nonnina ingenua.
Tutto ha contribuito alla sua popolarità. In comunicazione si chiama image making e il guru del marketing Philip Kotler ci potrebbe scrivere un libro intero analizzando tutte le operazioni che hanno contribuito a rendere POP la regina Elizabeth II: il look, la scelta delle foto ufficiali, il canale Twitter usato personalmente nel 2014 (@BritishMonarchy, ma non c’è più), le battute in pubblico, i rapporti con i VIP…
Dio non ha salvato la regina. Si è salvata da sé. Perché ha saputo gestire il suo brand fino alla fine. E non con scelte inconsapevoli.
© Marco Maraviglia
Foto di copertina: Elisabetta II a Berlino – 2015. Fonte Wikimedia
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