Urania Casciello //
Essere copywriter nel 2020. Intervista a Piero Fittipaldi
Tra consigli e pensieri sulla professione del copywriter pubblicitario, Piero Fittipaldi ci racconta quanto sia importante non fermarsi alla prima idea.
Con questa lunga lettera, inviata ai capi della Grey nel 1947, Bill Bernbach gettava le basi di quella che di lì a poco sarebbe diventata la rivoluzione: un autentico terremoto che scosse dalle fondamenta la pubblicità e le agenzia, trasformandone il volto definitivamente.
Miei cari,
la nostra agenzia si sta ingrandendo. Di questo possiamo essere felici. Ma è anche una cosa di cui preoccuparsi. Non voglio dire che ci sia da dannarsi all’idea, ma mi preoccupa vedere che stiamo cadendo nella trappola della magniloquenza, che ormai adoriamo sempre più la tecnica e non i contenuti, che inseguiamo la storia invece di esserne artefici, che naufraghiamo nella superficialità invece di farci guidare da solidi principi. E mi preoccupa che cominci a inaridirsi la nostra vena creativa.
In pubblicità ci sono un sacco di bravissimi tecnici. E purtroppo hanno vita facile. Conoscono tutte le regole. Ti dicono che un annuncio pubblicitario sarà più letto se mostra delle persone. Ti dicono quanto dovrebbe essere lunga o corta una frase. Ti dicono che il testo deve essere spezzettato per una lettura più scorrevole. Ti propongono una certezza dopo l’altra. Sono scienziati della pubblicità. Ma c’è un problema: la pubblicità è fondamentalmente un modo per convincere e convincere non è una scienza. È un‘arte.
È la nostra scintilla creativa, della quale cui sono così geloso e che adesso temo si stia perdendo. Non voglio specialisti. Non voglio scienziati. Non voglio gente che faccia la cosa giusta. Voglio gente che faccia cose ispirate.
Negli ultimi anni avrò fatto colloqui ad almeno un’ottantina di persone, tra copy e art. Molti tra loro erano considerati dei colossi nel nostro campo. È stato terribile scoprire quanto questa gente fosse poco creativa. Certo, di pubblicità ne sapevano. E dal punto di vista tecnico erano aggiornati. Ma se guardi sotto tutta quella tecnica cosa scopri?
Conformismo, pigrizia mentale, idee mediocri. Eppure erano capaci di difendere qualunque annuncio per il solo fatto che obbediva alle regole della pubblicità. È come adorare un rituale invece di Dio.
Non sto dicendo che la tecnica sia inutile. Una preparazione tecnica di alto livello ti rende migliore. Ma il pericolo è che la capacità tecnica venga scambiata per abilità creativa. Il pericolo è nella tentazione di assumere gente che usa metodi monotoni. Il pericolo è questa tendenza al prendere gente magari con grande esperienza ma che ci rende simili a tutti gli altri.
Se vogliamo crescere, dobbiamo farlo con una personalità che sia nostra. Dobbiamo sviluppare un approccio originale, invece di adottare il modo di fare pubblicità imposto dagli altri.
Percorriamo nuovi sentieri. Proviamo al mondo che il buon gusto, l’arte, la bella scrittura possono dar vita a un buon modo di vendere.
Con profondo rispetto, Bill Bernbach»
È il momento di riprendere la vita in mano e la prima cosa che viene a tutti da chiedersi è più o meno la stessa: cosa accadrà adesso? Cosa cambierà?
David Droga, il guru della creatività e fondatore dell´agenzia pubblicitaria Droga5 in una recente intervista spiega come anticipare i cambiamenti in arrivo.
La sua carriera comincia all´età di 22 anni in cui è Executive Creative Director di OMON Sydney, per poi passare nel 1996 in Saatchi & Saatchi Singapore con lo stesso ruolo che manterrà anche quando si sposterà a Londra nel 1999. Nel 2003 a New York passa in Publicis Network nel ruolo di Worldwide Chief Creative Officer e nel 2006 fonda la sua agenzia Droga5. In tutti questi anni ha vinto i più prestigiosi premi e ricevuto riconoscimenti internazionali.
Droga è il creativo più premiato al Festival internazionale della creatività Lions di Cannes ed è il più giovane inserito nella Hall of the Fame dell´Art Directors Club di New York.
Logico quindi conoscere il suo parere sul futuro della pubblicità. L´intervista integrale in inglese che si può seguire qui dura un´ora e si parla un po´ di tutto, non senza sorprese.
Come avevo avuto modo di desiderare io stesso in un precedente articolo, David Droga afferma: "in dark times, people want to feel better" criticando tutta la produzione creativa che ha puntato sull´indurre il pubblico a diffondere messaggi sul distanziamento sociale, che a suo dire ha mancato il segno. Piuttosto, dice, è tempo di iniettare un po´di umorismo ed energia positiva nella pubblicità.
Alle volte la vita ci mette di fronte all’imprevedibile, succede anche in pubblicità. In questi casi, più che l’abilità di sfruttare una situazione nuova con una campagna ad hoc, andrebbe premiato sempre la capacità di correggere una comunicazione già pronta in funzione di una situazione nuova. E farla funzionare ugualmente, se non meglio.
È quanto accaduto ad Emily, una azienda inglese che produce snack veg, patatine di verdure e di frutta fritte sottovuoto a bassa temperatura, che dopo una attenta pianificazione aveva programmato la sua prima uscita in assoluto nell’outdoor advertising con una grande campagna promozionale proprio nel periodo che poi è coinciso con il lockdown in Inghilterra.
Samuel Wilson era il fornitore ufficiale di carne delle truppe americane nel 1812, durante la guerra di indipendenza. La leggenda racconta che un suo fattorino, che stava consegnando delle casse con la fornitura, scherzando con un soldato avesse sostenuto che la scritta US sulle confezioni si riferisse a Uncle Sam (Wilson).
Pare che questa sia l’origine della personificazione degli USA nello Zio Sam, che almeno per i primi anni ebbe però un concorrente Brother Jonathan, poi scalzato e passato a rappresentare lo stato del New England.
Si dice poi che anche la sua rappresentazione con capelli e pizzetto bianchi e cappello a cilindro, fosse ispirata a Samuel Wilson; ma non è certamente ispirato a lui il celebre manifesto a cui pensiamo ogni volta che evochiamo questo personaggio.
La sua prima apparizione è datata 1916: la rivista Leslie’s Weekly aveva incaricato l’illustratore americano James Montgomery Flagg di realizzare un manifesto che chiamasse i giovani americani all’arruolamento.
In quel periodo Flagg era piuttosto spiantato, a corto di idee e così decise di fare come si fa spesso in pubblicità: copiò un manifesto inglese di qualche anno prima, adattandolo.
Nella versione originale, Lord Horatio Herbert Kitchener – Segretario di Stato alla Guerra britannico – puntava il dito verso lo spettatore e il claim recitava “wants you”; in quella rimaneggiata compariva lo Zio Sam, con le fattezze dello stesso Flagg, che all’epoca non poteva permettersi di pagare un modello e aveva pensato di ricorrere all’autoritratto.
Il manifesto ebbe un enorme successo, tanto che si stima ne siano state stampate oltre cinque milioni di copie.
Gli amanti delle figure retoriche noteranno che in questo manifesto ne compare una molto nota: l’apostrofe, «per la quale chi parla interrompe la forma espositiva del suo discorso per rivolgere direttamente la parola a concetti personificati, a soggetti assenti o scomparsi, o anche al lettore. Quando è accompagnata da toni violenti, ironia o sarcasmo, è detta invettiva.»1
In questi giorni “virale” è una parola che può essere interpretata in modi diversi: suscita pensieri oscuri se pensiamo a Wuhan, a Bergamo e ormai a tutto il nostro paese; ma può essere un parola che aiuta a sperare se pensiamo alle campagne di crowdfunding con cui si stanno raccogliendo fondi per sostenere gli ospedali in prima linea; virale è un messaggio girato ieri su whatsapp, che chiedeva di donare sangue per gli ospedali pediatrici napoletani, e la notizia di questa mattina è che le persone che hanno risposto a questo appello sono state così tante che in questi ospedali non sono riusciti a fa fronte a un’offerta così massiccia e generosa.
Ma in generale, cos’è che rende “virale” un contenuto? Cosa ci spinge a condividere qualcosa creata da un’altra persona? Lo scrivo interrogando prima di tutto me stessa su questo punto: quand’è che sento il desiderio, quando non addirittura il bisogno, di dire e raccontare usando le parole e le immagini di qualcun altro?
Forse la risposta è più semplice di quello che pensavo: quando le sento mie. Quando credo che esprimano qualcosa che sento e che parla anche di me, quando voglio far sapere ad altri che non sono la sola a pensarla in un certo modo, quando quello che sento è espresso in modo efficace da altri, allora io decido di fare mie quelle parole e quelle immagini e di divulgarle, di “passarle” sperando che contagino qualcun altro, che gli raccontino un pezzetto del mio mondo interiore e lo portino un po’ più vicino a me.
In questi giorni, complice questo 8 marzo in cui ogni anno di più noi donne ci confrontiamo con ciò che manca più che con ciò che abbiamo conquistato, uno spot girato per un magazine femminile (Girl! Girl! Girl!) è diventato virale: evidentemente sono molte le persone che hanno sentito sulla propria pelle le parole della scrittrice Camille Rainville, recitate da Cinthya Nixon (l’avete conosciuta come Miranda, in Sex and the city) con grande intensità. Il testo in questione si chiama “Be A Lady They Said”, ed è un lungo elenco di pressioni sociali che le donne, tutte le donne, a ogni latitudine, subiscono ogni volta che viene chiesto loro di essere all’altezza delle aspettative contraddittorie degli altri:
«Be a lady they said. Save yourself. Be pure. Be virginal. Don’t talk about sex. Don’t flirt. Don’t be a skank. Don’t be a whore. Don’t sleep around. Don’t lose your dignity. Don’t have sex with too many men. Don’t give yourself away. Men don’t like sluts. Don’t be a prude. Don’t be so up tight. Have a little fun. Smile more. Pleasure men. Be experienced. Be sexual. Be innocent. Be dirty. Be virginal. Be sexy. Be the cool girl. Don’t be like the other girls.»
L’ho condiviso? Ho fatto di più, ci ho scritto un articolo per un magazine.
Be a Lady They Said from Paul McLean on Vimeo.
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