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01.01.1970 # 3074

Daria La Ragione //

JUST DOING IT

Pia Elliott

Racconta Dan Wieden che la famosa tagline di Nike, Just Do It, parafrasata nel titolo di questo libro, era nata per caso, all’ultimo momento, come spesso succede con gli slogan famosi. 

Just Doing It, invece, è un titolo ragionato e vuol dire “quelli che lo fanno”, o che hanno fatto la storia dell’advertising. Buttandosi da pionieri o da principianti in una professione che s’impara solo quando ci sei dentro. Che ci hanno creduto e l’hanno resa credibile. Che spesso ci hanno influenzato e qualche volta cambiato la vita. 


I personaggi più influenti della pubblicità sono proprio loro: quelli che l’hanno fatto e basta. Una storia di personaggi perché la storia ragionata della pubblicità richiederebbe le competenze riunite di economisti, antropologi, sociologi e psicologi. La pubblicità è infatti un fenomeno assai più complesso di quello che si crede: rispecchia a perfezione i gusti e i costumi di un popolo, ma non è detto che ne rifletta solo i lati deboli o che serva solo a promuovere il superfluo. 

Le tecniche di comunicazione vengono impiegate anche a fin di bene e qualche volta anche per far credere quello che non è. Just Doing It è un libro di protagonisti, senza categorie, né gerarchie, che racconta solo chi sono stati quelli che ci hanno insegnato a fare la pubblicità: gli americani, gli inglesi, i francesi, gli italiani. Uno straordinario contributo al recupero di una memoria storica.

Just Doing It parte da lontano, dai padri fondatori americani, per fermarsi alle soglie del nuovo secolo, considerato un punto di arrivo della pubblicità, tipica “arte” del secolo breve. 

E un libro destinato a diventare un classico per lo studio e le professioni della comunicazione.

I Contributi d’Autore, alla fine del libro, sono una raccolta di scritti, alcuni dei quali inediti, dei migliori copywriters del mondo. Ma chi sono?


(Dalla pagina cultura di "La Repubblica")


01.01.1970 # 3031

Daria La Ragione //

Urban 2013

fotografia

Dall'1 aprile 2013 sono aperte le iscrizioni al concorso internazionale di street photography URBAN 2013, promosso dall'associazione culturale dotART di Trieste.

Giunto alla sua quarta edizione, URBAN ha come tema principale la vita quotidiana della città vista attraverso le “foto artistiche di strada”: immagini immediate, reali, che colgono scorci, persone, volti, strade, edifici e altri elementi in grado di raccontare una storia ambientata nel tessuto urbano. Protagonista assoluta la Città.

Le foto dovranno essere inviate entro e non oltre il 31 maggio 2013.

Una giuria composta da fotografi professionisti, artisti ed esperti di comunicazione (la composizione della giuria è in fase di definizione) valuterà le opere pervenute e, successivamente, in data e luogo da definirsi, verrà inaugurata la mostra collettiva del concorso, in cui saranno premiate ed esposte le opere classificate.

Il montepremi totale è di oltre 3.000 €.

01.01.1970 # 2560

Daria La Ragione //

Id&a Award 2012:Sara Viscione vince il primo step

sottotitolo




Si è concluso il 1° step del contest riservato agli studenti Ilas:Sara 

Viscione è l'autrice del lavoro più votato su Facebook e si aggiudica il 

primo dei premi in palio. 
Facciamo i complimenti a Sara per il suo 'The laugh of the Medusa', un 

lavoro che ci piace e che siamo felici di premiare.
Ancora niente è perduto per tutti gli altri partecipanti, si tratta 

infatti solo del primo step, c'è ancora tempo fino al 15 settembre per 

sfoderare tutte le abilità di self marketing e far dire al maggior numero 

di utenti Facebook 'mi piace', per aggiudicarsi così il premio in palio 

per il secondo step.
Poi tutti con le dita incrociate, sperando che la scelta della giuria 

incoroni il proprio lavoro vincitore ufficiale dell'Id&aAward 2012.
Complimenti a Sara e in bocca al lupo a tutti i partecipanti, 

appuntamento a settembre.

01.01.1970 # 6352

Marco Maraviglia //

Archivi fotografici aperti per tutti

La IX edizione di Archivi Aperti, un‘iniziativa di Rete Fotografia

Rete Fotografia ha organizzato la IX edizione di Archivi Aperti che si svolge dal 13 al 22 ottobre 2023 in numerose città italiane. La manifestazione si rivolge a un pubblico non solo specialistico e coinvolge archivi fotografici storici e contemporanei pubblici e privati, istituzioni note e realtà conosciute solo territorialmente, dal nord al sud della penisola.

La nuova edizione, dal titolo Gli archivi dei fotografi italiani: un patrimonio da valorizzare, ha lo scopo di portare all‘attenzione del pubblico un tema sempre più attuale e di grande interesse sia per i fotografi, sempre più consapevoli del valore del loro lavoro, sia per gli stessi enti di conservazione e le istituzioni pubbliche.

 

Ma cosa sono gli archivi fotografici? Chi li allestisce e come? Ma, innanzitutto, a cosa servono?

Non esisterebbe l‘iniziativa Archivi Aperti se non ci ponessimo domande del genere.

Il patrimonio dell‘umanità non è fatto solo di paesaggio, beni storico-culturali. Il mondo si trasforma e la sua catalogazione serve a tenere traccia di quel che è stata l‘umanità. Come esistono i libri di storia, storia dell‘arte, filosofia e quant‘altro custoditi e catalogati nelle biblioteche, come esistono emeroteche, video-archivi e cineteche, esistono gli archivi fotografici.

Si tratta di avere l‘opportunità, attraverso il materiale presente negli archivi fotografici, di osservare visivamente le nostre radici, gli eventi che abbiamo vissuto, attraversato e che hanno determinato cambiamenti socio-tecno-culturali. Aiutano a comprendere dove eravamo, dove siamo, dove stiamo andando.

Non è raro, ad esempio, che scenografi e costumisti di produzioni cinematografiche consultino archivi fotografici per risalire a dettagli d‘epoca da ricostruire.

In assenza, di archivi fotografici, di tracce visive, è come essere orfani di genitori. Senza una propria identità. Un gap che si ripercuoterebbe anche sulla nostra sfera psicologica. Un edificio senza fondazioni è impossibile tenerlo sospeso nel vuoto. La fotografia fa parte delle nostre fondazioni, racconta le nostre storie.

 

Un popolo senza la conoscenza della propria storia, origine e cultura è come un albero senza radici

- Marcus Garvey

 

Un fotografo che infila tutte le foto negli hard disk senza criteri, non ha un archivio fotografico ma uno “stanzino” dove ha accumulato di tutto e, al momento che gli occorre qualcosa, riuscirà a trovare solo lui ciò che cerca. Forse. E i posteri saranno invece belli e fregati.

Vale lo stesso per chi ha pellicole o lastre conservate nelle veline e in scatole. Senza nemmeno una data di riferimento.

Ma non è soltanto la data che fa l‘archivio.

Ogni foto andrebbe catalogata con una serie di parole chiave. E quanti più riferimenti descrittivi si danno alle immagini, maggiori saranno le possibilità di ritrovare quelle che servono al momento opportuno.

Per una ricerca filologica, storica, atropologica, urbanistica, paesaggistica, sociale e così via.

Fino a prima del digitale si usavano schedari cartacei. Su ogni scheda si scriveva il numero che si dava anche alla pellicola e relativo provino a contatto, il titolo del servizio fotografico/argomento e poi il nome del soggetto presente in ogni singolo fotogramma ed eventualmente altri dettagli come luogo, descrizione della scena e altri elementi presenti in quello scatto.

 

Con l‘avvento delle tecnologie digitali sono entrati nel mercato diversi software per l‘archiviazione fotografica. Alcuni predisposti come “client/server”, ovvero con la possibilità di gestire l‘archivio da remoto: contemporaneamente più fotografi contribuiscono alla crescita dell‘archivio pur trovandosi in luoghi differenti. Effettuando upload dei file fotografici e l‘inserimento dei tag giusti per la ricerca secondo un thesaurus prestabilito. Un po‘ come funzionano le agenzie di stock online. Alcuni di questi archivi digitali sono adattati anche per ricerche booleane come per un catalogo bibliotecario nazionale o per una ricerca su Google.

Alcuni enti hanno preferito farsi programmare ad hoc tali software. Perché il problema è sempre quello dell‘obsolescenza: cambiano i sistemi operativi per i computer e i vecchi software non potrebbero più girare sui nuovi SO.

Qualcuno ha economizzato catalogando il proprio archivio usando un semplice documento in Word con più colonne: n° hard disk, n° cartella, evento, soggetto principale, nome personaggio, data, luogo… Basta poi inserire la parola chiave nel campo di ricerca del documento per trovare tutti i file corrispondenti. Senza però le anteprime delle immagini. Una soluzione rudimentale ma economica.

 

Archivi Aperti è un‘operazione che intende far conoscere l‘importanza della presenza degli archivi fotografici qui accennata, la loro tutela, l‘accessibilità per studi e ricerche, sensibilizzando gli stessi fotografi affinché il loro patrimonio possa essere fruibile e conosciuto da tutti. Alcuni fotografi presenteranno le scelte operate per la valorizzazione del proprio archivio.

Convegni, tavole rotonde, visite in loco presso 65 archivi sparsi su tutta la penisola di cui 24 in più rispetto alla precedente edizione. Alcuni consultabili online.


Tra gli Istituti e le associazioni presenti si citano l‘Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD); MAXXI - Museo nazionale delle arti del XXI secolo; Soprintendenza Archivistica e Bibliografia della Lombardia; AitArt - Associazione Italiana Archivi d‘Artista; Società Italiana per lo Studio della Fotografia – SISF. Per gli Archivi dei fotografi ci saranno, tra gli altri, quelli di Gabriele Basilico, Gianni Berengo Gardin, Mario Cresci, Guido Guidi, Mimmo Jodice, Lelli & Masotti e la Fondazione Nino Migliori.


L‘appuntamento conclusivo - presso la sede milanese di Fondazione AEM, domenica 22 ottobre 2023 alle ore 17 – partirà dalle considerazioni emerse durante l‘incontro di apertura per riflettere su tutta la manifestazione. Diversi gli autori coinvolti grazie alla collaborazione di TAU Visual - Associazione Nazionale Fotografi Professionisti, AFIP International - Associazione Fotografi Professionisti e GRIN - Gruppo Redattori Iconografici Nazionale, soci di Rete Fotografia.

 

 

 

INFO:

www.retefotografia.it | segreteria@retefotografia.it

Ufficio stampa | Alessandra Pozzi Tel. +39 338.5965789, press@alessandrapozzi.com

 

 

Foto di copertina: “I fotografi del servizio interno del Corriere della Sera”

Franco Gremignani, 1963

Archivio storico Fondazione Corriere della Sera

01.01.1970 # 6086

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titolo

sottotitolo

Chernobyl Herbarium di Anaïs Tondeur in mostra alla Spot Home Gallery

L’alchimia delle connessioni tra sapere scientifico, filosofia, antropologia e arte per un contatto tra passato e futuro di una identità umana smarrita





Un laboratorio di Bruxelles. Protocolli di massima sicurezza. Anaïs Tondeur indossa una tuta a prova di radiazioni nucleari. Probabilmente sente solo il suo respiro mentre si dirige verso una delle darkroom più insolite del pianeta ubicata in quel laboratorio del Nord Europa. Completamente a tenuta stagna e non solo dalla luce. Qui non si stampano semplici fotografie destinate al mondo dell’informazione. 

Anaïs ha tra le mani inguantate un “oggetto prezioso”. Blindato in un contenitore al piombo.

In quella darkroom non c’è luce rossa perché non si stampa in bianconero. Si lavora al buio se non il tempo di quella manciata di attimi durante i quali i fotoni impressioneranno un foglio di carta fotografica a colori.


Anaïs Tondeur apre quel contenitore di piombo. Dentro c’è una di quelle piantine che dal 2011 le dona il biogenetista Martin Hajduch col quale ha intrapreso uno dei suoi progetti artistici: Chernobyl Herbarium.

Piante ormai secche, forse geneticamente mutate. Forse non del tutto morte. O forse morte ma ancora rivelatrici di qualcosa. Piantine prelevate dalla Zona di Esclusione di Chernobyl. Vegetazione cresciuta in una terra maledetta con la rabbia e l’energia di chi vuole vivere. Anche solo sopravvivere. Perché la Natura è più forte. Più del bene e del male della mente umana. Quella che cortocircuita il sistema-Natura, per intenderci.


Il 26 aprile 1986 un incidente a un reattore della centrale nucleare di Chernobyl provocò il più grande disastro ambientale che una centrale nucleare avesse mai potuto provocare.

C’è ampia letteratura su quell’episodio. E se ne continua a scrivere. E si continuano a studiare i suoi effetti. Anche in maniera creativa e interdisciplinare come il progetto di Tondeur.


Mentre fuori c’è tutto un mondo che si rincorre, Anaïs Tondeur in quella camera oscura super blindatissima, poggia il delicato relitto vegetale su un foglio di carta emulsionata a colori e vi lascia passare un breve e intenso fascio di luce.

Sviluppa il foglio nei chimici. Ottiene un rayogramma. Ogni volta il risultato è diverso. 

L’incontro chimico-fisico di quel processo è imprevedibile. Luce, emulsione del foglio, liquido rivelatore e residui di radiazioni interagiscono restituendo esplosioni grafiche che raccontano l’invisibile. Come sacre Sindone di una parte di natura del mondo che sta ancora attraversando il suo calvario.


Chernobyl Herbarium è un progetto in itinere, un erbario rayografico con il quale cerco di svelare, tramite la materia stessa delle fotografie, le stigmate dell‘esplosione nucleare sui corpi delle piante di Chernobyl.

- Anaïs Tondeur


Molti dei progetti di Anaïs Tondeur nascono dalla sua capacità di percepire certi accadimenti intorno a lei con un’attenzione particolarmente sensibile. Amplifica e rimescola il reale con l’immaginario, intreccia scienza, filosofia, arte, poesia usando la fotografia come supporto che ricongiunga attività multidisciplinari. Mostrando punti di vista alternativi. Magari utili agli stessi studi scientifici delle persone che via via avvicina per percorrere le sue narrazioni visive.

E così intraprende con il filosofo ambientalista Michael Marder, contaminato dall‘esplosione del reattore nel 1986, il progetto Chernobyl Herbarium.

Nel 2021, in occasione del 35° anniversario dall’esplosione, viene pubblicato il libro Chernobyl Herbarium, La vita dopo il disastro nucleare. L’edizione comprende trentacinque “pièce” comprensive di testi e rayogrammi composti da Michael Marder e Anaïs Tondeur. Ho scritto “pièce” perché meriterebbero di essere recitati in teatro, magari da un Marco Paolini, con proiezione delle immagini sullo sfondo.


…Grazie alla sua pratica estetica, Tondeur fa detonare e dunque rilascia le esplosioni di luce intrappolate nelle piante, le cui linee disperse attraversano i fotogrammi in ogni direzione. Libera tracce luminescenti senza violenza, schivando la reiterazione del primo evento invisibile di Chernobyl e, allo stesso tempo, catturandone frammenti. Liberazione e preservazione; preservazione, memoria, e liberazione: per grazia dell’arte. 

- Michael Marder

 


Cenni biografici (dal comunicato stampa)


Nata nel 1985, Anaïs Tondeur vive e lavora a Parigi. 

Laureata alla Central Saint Martins (2008) e poi al Royal College of Arts (2010) di Londra, ha ricevuto il Prix Art of Change 21 (2021) e la menzione d‘onore Ars Electronica CyberArts (2019).

Il suo approccio artistico è profondamente radicato nel pensiero ecologico e si inserisce in una pratica interdisciplinare attraverso la quale Tondeur esplora nuovi modi di raccontare il mondo, che permettano di trasformare la nostra relazione con gli altri esseri viventi e con i grandi cicli della terra. Incrociando scienze naturali, antropologia, creazione di miti e nuovi media, costruisce una sorta di laboratorio di attenzione e percezione che, attraverso l‘indagine e la finzione, si traduce in percorsi, installazioni, fotografie, esperienze sensoriali o processi alchemici. 


I suoi progetti di ricerca l’hanno portata in spedizioni attraverso l‘Oceano Atlantico, sui confini tra le placche tettoniche, nella zona di esclusione di Chernobyl, sotto la superficie di Parigi, attraverso suoli urbani inquinati o sotto il flusso atmosferico di particelle antropiche. Quando i territori delle sue indagini sono inaccessibili, crea veicoli immaginari che si muovono per lei. È così che ha mandato un sogno nello spazio a bordo di Osiris Rex, una navicella della NASA.


Ha risieduto come Artista in Ricerca e Creazione presso l‘ex deposito di semi della Famiglia Vilmorin (Verrières-le-Buisson, 2020-21), presso Chantiers Partagés a cura di José-Manuel Goncalves, presso 104 (2018-19), Artlink (Irlanda, 2019), al Musée des Arts et Métiers (2018-17), al CNES (2016), al Laboratoire de la Culture Durable avviato dal COAL al Domaine de Chamarande (2015-16), al Muséum National d‘Histoire Naturelle, all‘Institut Pierre et Marie Curie (COP 21, 2015) e a La Chaire Arts & Sciences (École Polytechnique, 2013-15). 


Le sue opere sono state esposte presso istituzioni internazionali come il Kröller-Müller Museum (Paesi Bassi), il Center Pompidou (Parigi), La Gaîté Lyrique (Parigi), il MEP (Parigi), il Frac Provence-Alpes-Côte d‘Azur, le Serpentines Galleries (Londra), il Bozar (Bruxelles), la Biennale di Venezia – Padiglione Francia, (Lieux Infinis), lo Houston Center of Photography (Stati Uniti) e il Nam June Paik Art Center (Seoul).






Esplosioni di luce

Chernobyl Herbarium

Anaïs Tondeur 

Dal 16 giugno al 14 ottobre 2022 

Spot home gallery

Via Toledo, 66 – Napoli


+39 081 9228816

info@spothomegallery.com

www.spothomegallery.com


Ufficio stampa

Costanza Pellegrini 

costanzapellegrini2@gmail.com




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